La vera storia dell’impresa dei Mille 32/ La pagliacciata di Palermo: 24 mila militari borbonici si ‘arrendono’ a 3 mila garibaldini…

30 luglio 2019

Come abbiamo visto fino ad oggi – con oggi, infatti, sono 32 le puntata del libro di Giuseppe Scianò che stiamo pubblicando (“… e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò colonia!”) – Garibaldi e i suoi ‘Mille’, in Sicilia, non hanno vinto nemmeno una battaglia. Ma quella che si consuma a Palermo, con la ‘resa’ di 24 mila militari Duosiciliani e 3 mila garibaldini è, forse, la più grande pagliacciata della storia italiana! 

di Giuseppe Scianò 

«L’armata Duosiciliana dovrà lasciare Palermo!». L’ordine estorto con l’inganno a Francesco II.

Le buone novelle a Garibaldi le porta sempre il Generale Letizia.

Torniamo a Palermo, dove purtroppo si prendono le più dolorose ma importanti decisioni. È passato appena qualche giorno ed al quartier Generale di Garibaldi, al Palazzo Pretorio, ritroviamo il Buonopane ed il Letizia, contenti e soddisfatti, accompagnati da altri due ufficiali di Stato Maggiore dell’Esercito Duosiciliano. I quali, appena giunti da Napoli, si sono recati a trovare il Dittatore.

Così ci descrive la scena il solito Bandi:

“Introdotti che furono alla presenza di Garibaldi, il Generale Letizia disse subito: ‘Vengo con buone novelle. E Garibaldi a lui: ‘Capisco, venite a mettere termine ad una lotta fratricida, penosa a me più che a tutti. Siate il benvenuto’”.

L’incontro è cordialissimo, come si conviene fra vecchi amici. Anzi fra vecchi compari. Si procede velocemente ed allegramente alla lettura dei capitoli del testo dell’accordo. Questa volta è un accordo definitivo, di resa, in base al quale da Napoli sarebbero arrivate le navi – peraltro già in viaggio – sulle quali si sarebbero imbarcate le truppe Duosiciliane.

“Lasciando – come scrive il Bandi – nelle mani dei Garibaldini tutta la città, escluso il Castello (cioè il forte di Castellammare)”.

Dopo la lettura, Garibaldi fa uno dei consueti discorsetti patriottardi ricordando i valori dell’Italianità ed il fatto che anche gli ufficiali Duosiciliani presenti sono Italiani.

Il Letizia vuole a sua volta rispondere ma, scrive sempre il Bandi:

«Prima di aprir bocca guardò me, quasi volesse dire: “Quel testimone è tutt’altro che necessario”. Garibaldi intese a volo il desiderio del Letizia, e mi fece cenno di andarmene. Obbedii sorridendo e li lasciai soli, e, giunto nell’anticamera che era piena di ufficiali e di cittadini, dissi a voce alta, accennando l’uscio:

“I peccatori si confessano al penitenziere…”».(2)

Abbiamo riportato anche questa testimonianza, apparentemente marginale, per dimostrare ancora una volta quante tresche si nascondessero dietro quella che la storiografia italiana, in prevalenza, continua ad esaltare come l’impresa più gloriosa e più limpida del secolo XIX: la conquista del Sud Italia e della Sicilia. Nonostante la loro immediata riduzione in colonie di sfruttamento interne al costituendo Regno d’Italia.

Al Re Francesco II erano state raccontate grosse bugie. Per la verità non era stato molto difficile a due vecchie volpi, come il Letizia ed il Buonopane, trarre in inganno il giovane e pio Re Francesco II, il quale a sua volta, a Napoli, era circondato da spie e da non pochi doppiogiochisti. Al povero Re è stato infatti riferito che i Garibaldini avevano già conquistato tutta la città; che l’Esercito Duosiciliano aveva subìto gravissime perdite; che la rivoluzione in corso era vastissima ed inarrestabile; che il nemico era numericamente superiore, ecc.

Ma soprattutto gli era stato spiegato che una eventuale resistenza da parte dei soldati Duosiciliani avrebbe provocato soltanto un ulteriore gravissimo spargimento di sangue, tante vittime innocenti e distruzioni a non finire. Argomenti, questi, ai quali Francesco II era stato sempre molto sensibile. Non avrebbe potuto, quindi, fare altro che accordare il permesso ai dirigenti della Luogotenenza, Lanza in testa, di definire con la controparte un onorevole armistizio, a seguito del quale abbandonare Palermo, per recarsi successivamente con tutte le forze militari a Messina.

Contenti, quindi, i due alti ufficiali ambasciatori; soddisfatto il Mundy che vedeva attuarsi il piano del suo Governo; felicissimo il Lanza che vedeva coronare di successo il suo paziente lavoro di congiurato di alto rango. Al Lanza, tuttavia, una preoccupazione rimase. Quella cioè che altri potessero attribuirsi il maggiore onore di quell’operazione…

Ma pazienza! Avrebbe avuto modo di parlarne in via riservata sia con il Mundy che con il Generale Garibaldi. Intanto si doveva affrettare a dare corso all’armistizio ed alla ritirata.

L’onore delle armi ed il conforto della folla per l’Esercito Duosiciliano.
Il 9 giugno 1860, in esecuzione degli accordi che ben conosciamo, i ventiquattromila uomini dell’Esercito Duosiciliano, presenti a Palermo, si spostano dalle rispettive posizioni per recarsi al Molo e ai Quattro venti. Da lì – sulla base degli accordi intercorsi – si sarebbero via via imbarcati, su appositi bastimenti, per Messina.

Sono i giorni, questi, in cui a chiunque si faccia avanti, inneggiando alla Tali e a Vittorio Emanuele e, soprattutto, a Canibardu (Garibaldi), vengono elargite generosamente monete provenienti prevalentemente dal Tesoro del Banco di Sicilia, che è appena caduto nelle grinfie dei Garibaldini, grazie agli scellerati accordi fra Lanza, Buonopane, Letizia e il Dittatore.

Ma a piene mani circolano da tempo anche le piastre turche che il Dittatore ha ricevuto sottobanco dagli Inglesi. Quelli che fanno più chiasso sono, come sempre, i picciotti di mafia che sono stati fatti confluire nella capitale della Sicilia.

La cittadinanza è smarrita e terrorizzata. Ed è costretta ad invocare il ritorno dell’ordine e della legalità da qualsiasi parte questa possa arrivare. Ma neppure Garibaldi è tanto tranquillo. Anche lui ha avuto sorprese sgradite.
E, per evitarne altre, tempesta sia il Governo di Torino che i suoi amici Inglesi di richieste di rinforzi. Agli Inglesi continua a sollecitare, addirittura, l’ingaggio dei mercenari Zwavi che già nel 1859 erano stati determinanti nella guerra contro gli Asburgo nel Lombardo-Veneto. Allora, come sappiamo, questi erano al servizio di Napoleone III, imperatore dei francesi.

Gli Zwavi, com’è noto, appartenevano ad alcune tribù turco-algerine e nelle guerre erano un vero castigo di Dio, non solo per la forza d’urto che costituivano nei combattimenti, ma per il danno che erano capaci di arrecare alle popolazioni civili coinvolte nelle azioni militari, alleate o avversarie che fossero. Intanto i mercenari ungheresi ed altri, sempre messi a disposizione ed organizzati dagli Inglesi, erano già arrivati in Sicilia e continuavano ad arrivare.

Nessuna rivoluzione a Palermo… Ma molti alti tradimenti e le solite interferenze della Gran Bretagna. Tutto secondo copione.
Va da sé – e lo abbiamo accennato più volte – che quanti, a Palermo, vogliono evitare stupri, saccheggi o, addirittura, qualche coltellata mortale, devono affrettarsi a dimostrarsi unitari, filo-Garibaldini e convertiti all’accettazione di Vittorio Emanuele come legittimo Sovrano. E possibilmente devono dichiararsi vittime della odiata dinastia borbonica.

Adesso, sì, a Palermo le bandiere tricolori sono diventate numerose. Ma non sempre ciò è sufficiente ad assicurare un minimo di tranquillità, perché violenze, rapine e stupri sono all’ordine del giorno.

Nonostante il disastro generale in cui versa la città di Palermo, comunque, lo Stato Maggiore Garibaldino e le autorità diplomatiche e militari Britanniche sperano che, in quella giornata del 9 giugno 1860, l’Esercito Duosiciliano venga accompagnato, nella sua ritirata verso il Molo, da fischi, da sberleffi, da grida ostili, se non proprio da sassaiole e da sputi. Non dispiacerebbe neppure qualche schioppettata, contro la quale poi far finta di dolersi.

Sarebbe un buon colpo, nei confronti dell’opinione pubblica internazionale, per la propaganda unitaria e per la stampa inglese, sempre più «impegnate», come ben sappiamo, a fare passare l’occupazione garibaldina come un’operazione di sostegno ad una richiesta siciliana di soccorso.

Un’azione liberatrice, cioè, nei confronti di un popolo in rivolta al solo scopo di essere unito all’Italia e alla monarchia sabauda. Delusione!

L’Esercito Duosiciliano, infatti, con la massima tranquillità può lasciarsi alle spalle il Palazzo Reale e il quadrilatero del disonore; può scendere con solennità per quelle che oggi sono le vie Tuköry e Lincoln ed attraversare in tutta la sua lunghezza il Foro Borbonico (Foro Italico), la Marina, la Doganella ed il Borgo, dirigendosi in perfetto ordine verso lo spazio fra il Molo e i Quattroventi.

È fin troppo evidente che, quella Duosiciliana, non è una fuga, né una ritirata alla chetichella, né, peggio, un passaggio attraverso le forche caudine di gente ostile. A questi soldati i Garibaldini dovranno tributare, come vedremo, l’onore delle armi.

Una parata militare composta e solenne, ma anche molto triste.

Oltre che per l’onore delle armi reso dall’Armata dei Garibaldini (e che è una delle condizioni contenute nel protocollo d’intesa e che, comunque, ha pure un suo particolare significato), lo spostamento delle truppe Duosiciliane è uno spettacolo grandioso, proprio per la compostezza di quei soldati. Uno spettacolo, senza dubbio molto triste ma anche, a suo modo, suggestivo. I soldati Duosiciliani, nelle loro belle divise, ordinati, armi in pugno, petto in fuori, marciano a fronte alta fra una popolazione altrettanto composta, che dimostra rispetto ed ammirazione. E, forse, per la prima volta, anche qualche sentimento di affetto e di nostalgia.

Alcuni memorialisti raccontano che una iniziativa provocatoria, per la verità molto modesta ed appena accennata, fu messa in atto da Nino Bixio, che cercò di offendere il Von Mechel al fine di sollecitare nella folla dei presenti ostilità, fischi e sberleffi, contro l’Esercito Duosiciliano in ritirata con l’onore delle armi. L’iniziativa viene condivisa soltanto da una decina di camicie rosse e solo per qualche attimo. Si esaurisce, senza gloria, sul nascere. Ben pochi se ne sono accorti. Nessun altro la condivide.

Creare problemi non conviene neppure ai Garibaldini, che si rendono conto del pericolo al quale sono scampati. Spira un altro tipo di vento. I picciotti di mafia, a loro volta, non osano fare la solita vucciria. Guardano meravigliati ciò che succede. Ma contano su un futuro di comodo malandrinaggio. Anche loro stanno pensando, con gioia però, al pericolo che si va allontanando con quell’esercito. E dalla fortuna, che fino a questo momento li ha assistiti, e che promette loro frutti maggiori in futuro.

Meglio, quindi, non fiatare. Altro che smuovere le acque! Sanno bene, del resto, che ogni minima azione di aggressione, una scin- tilla appena, potrebbe fare esplodere una reazione, popolare e militare, molto pericolosa e dalle conseguenze imprevedibili.

È presente una folla mai vista, enorme, che, di fronte all’occupazione garibaldina, aveva fatto, talvolta per necessità, buon viso a cattiva sorte, ma che oggi non è ostile all’esercito in ritirata. Una folla che continua a esprimere, con una massiccia presenza, solidarietà e conforto ai soldati Duosiciliani. E che se in quel momento se ne fosse presentata l’occasione, non avrebbe esitato a ributtare a mare gli invasori ed i loro sostenitori.

Ed è pure da tenere in considerazione il fatto che l’Esercito Duosiciliano, dall’inizio delle operazioni belliche, per la prima volta, era uscito al completo dal serraglio nel quale era stato immobilizzato dal Luogotenente Lanza. Costituisce, quindi, un enorme potenziale bellico. Guai a farne esplodere, proprio adesso, la rabbia mal repressa. Meglio il quieto vivere.

Alla testa di quelle truppe ben inquadrate, che vanno a passo di marcia, il Luogotenente Lanza procede a cavallo, nel bel mezzo di una scorta d’onore garibaldina. È tronfio e soddisfatto per il lavoro svolto.

Sa bene, infatti, che con la resa di Palermo è riuscito a compromettere le sorti dell’intera Sicilia, nonché quelle del Regno delle Due Sicilie.

La posizione del Lanza, che procede fra gli ufficiali Garibaldini, ed il resto dell’Esercito Duosiciliano, che va per conto proprio, rappresentano bene il contrasto di idee e di comportamenti che si è delineato, in quel momento storico, fra il vertice, corrotto e rinunciatario, dell’Esercito Borbonico e la base che è ancora motivata e che non vuole arrendersi E che è, anzi, impaziente di battersi.

Si comprende, a questo punto, come e perché i generali Letizia e Buonopane, pur volendo accontentare ad ogni costo il desiderio di Garibaldi, il quale avrebbe voluto addirittura che i soldati Duosiciliani avessero deposto le armi, abbiano poi ripiegato su una soluzione di segno totalmente opposto. E cioè quella di concedere l’onore delle armi, e di consentire che i soldati Duosiciliani si portassero appresso l’armamento e che marciassero in parata per un percorso tanto lungo.

Ad un eventuale ordine di deporre le armi, che avrebbe fatto da naturale seguito a tutta una serie di ritirate e di rinunzie ingiustificate, nonché di compromessi e di cedimenti di ogni genere, i soldati Duosiciliani, sicuramente – questa volta sì – si sarebbero ammutinati ed avrebbero combattuto per conto loro. E nessuno avrebbe più potuto salvare la testa del Lanza stesso e dei suoi complici. Meglio così, dunque.

Gli storici tradizionalmente tutori dell’agiografia risorgimentale, successivamente, avrebbero rimediato a tutte queste contraddizioni con la loro inesauribile fantasia. Ma i fatti sono fatti. E le favole sono favole.

(2) G. Bandi, op. cit., pagg. 140 e 141.

Foto tratta da catania.italiani.it

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Foto tratta da flickr.com

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