La vera storia dell’impresa dei Mille 27/ I garibaldini liberano gli assassini del carcere della Vicaria che diventano subito ‘rivoluzionari’

24 giugno 2019

In un modo o nell’altro Garibaldi e le bande di ‘picciotti’ di mafia sono entrati a Palermo. In attesa che i generali borbonici si ‘arrendano’ a Garibaldi (pur avendo un numero di militari dieci volte superiore ai ‘Mille’: e questo sarà il vero capolavoro truffaldino degli inglesi), i mafiosi liberano i loro amici, criminali come loro, che si trovano nel carcere cittadino della Vicaria. E, insieme, picciotti di mafia e assassini messi in libertà diventeranno i ‘liberatori’ di Palermo…

di Giuseppe Scianò

Il Mundy continua a dirigere le iniziative politiche e militari necessarie per fare vincere Garibaldi
Il Mundy aveva scritto nel suo diario di aver visto le truppe Duosiciliane «al comando del Maresciallo Salzano» che scendevano dal Parco (Altofonte) verso Monreale ostacolate dalle squadre, che ne avrebbero impedito il passaggio. Come sempre, il Mundy – quando non dice una bugia completa – dice mezza verità. Gli risulta difficile dire una verità completa. Quello di cui parla è effettivamente il presidio di Monreale. Che verrà, successivamente, ricongiunto con le truppe concentrate al Palazzo Reale, obbedendo agli ordini paradossali del Lanza. L’Ammiraglio avrebbe fatto meglio a parlare dei continui imbrogli e dei tradimenti del Lanza stesso.

La cronaca del Mundy inventa, invece, un’azione delle squadre che avrebbero bloccato la marcia, in quanto mira ad accreditare le squadre dei picciotti di mafia come vere e proprie unità combattenti e rivoluzionarie. E, soprattutto, vorrebbe dare ad intendere che vi siano rivoluzioni, piccole e grandi, in corso – autonomamente – in Sicilia.

Il giorno 28 l’Ammiraglio, sempre alla ricerca di pezze d’appoggio, avrebbe parlato della liberazione di ben duemila prigionieri politici all’Ucciardone.
Falso! I prigionieri, infatti, altro non erano che detenuti per reati comuni.
Mentre i detenuti politici erano al massimo, una decina.

Fra questi ultimi dobbiamo comprendere il nobile Francesco Brancaccio di Carpino, del quale parleremo più a lungo. Qualche altro illustre detenuto, intanto, è stato trasferito in luoghi di detenzione più comodi.

Nessun martirio, quindi, per i futuri Padri della Patria, ospitati temporaneamente nelle Grandi Prigioni di Palermo.

Si parla intanto di tregua…
Ma la data del 28 maggio 1860 coincide anche con il giorno nel quale iniziano i contatti diplomatici concreti ed ufficiali fra il Lanza ed il Mundy per una tregua. Entrambi fingono farsi pregare, ma hanno il comune interesse di regalare al più presto la città di Palermo a Garibaldi (ed a Vitto- rio Emanuele II). Il Lanza, che, suo malgrado, rimane in posizione militare privilegiata e con il grosso delle truppe, determinate a combattere, a sua disposizione, vuole un pretesto per ritirarsi. Senza tirarla troppo per le lunghe. Anche perché non è tanto sicuro di riuscire a tenere a freno per molto tempo ancora, i suoi soldati. L’opera del Mundy ha comunque un buon risultato anche dal punto di vista pubblicitario.

La sera del 28, alle ore 22.00, le navi Duosiciliane smettono di sparare.

Il bombardamento è sospeso! Era ora! Ed il Mundy annota:

«Alle dieci di sera ci fu un gran movimento nella squadra napoletana. Tutte le navi, le quali dopo i miei negoziati con il loro commodoro avevano mutato punto di fonda spostandosi nella rada esterna, alzarono ora a riva fanali di segnalazione e, avvicinandosi lentamente alla battigia a piccolo vapore, assunsero punti di fonda tanto prossimi alla Marina quanto lo permettevano i fondali, preparandosi evidentemente a riprendere l’opera di distruzione alle prime luci dell’alba, se tale fosse stato l’ordine del Regio Commissario, mi ritirai a riposare poco soddisfatto del risultato dei tentativi di quel giorno, ma cercai di consolarmi con la riflessione che i miei sforzi non erano stati del tutto inutili. Il bombardamento dal mare era stato sospeso e un non lieve peso d’umana miseria lenito».

Sentimenti nobili, questi, ed ammirevoli, se fra lo stesso Mundy ed il Luogotenente Borbonico non vi fossero stati tanti e tali accordi scellerati e sotterranei da farci maggiormente sospettare che anche i bombardamenti fossero stati parte della grande trama.

Si aprono le porte del carcere, della Vicaria. Pochissimi i prigionieri politici…
Il Contrammiraglio Mundy – allo scopo di carpire sempre meglio il favore dei lettori e soprattutto quello dell’opinione pubblica internazionale – scriverà che i «prigionieri politici» erano riusciti ad evadere. Ed aggiunge in modo del tutto fantasioso:

«…attaccando vigorosamente le truppe, si impadronirono delle caserme fuori del perimetro e le incendiarono, mentre i soldati si ritiravano in disordine nella posizione fortificata del molo».

Lo dobbiamo smentire su tutta la linea. Nel carcere della Vicaria o Grandi Prigioni (oggi Ucciardone) fino al 28 maggio 1860, in realtà, erano alloggiati molti detenuti (il Mundy afferma che erano duemila).

Precisa il Rosada che si trattava di condannati per reati comuni ed evaderanno «senza incontrare opposizione dopo che le truppe del maresciallo Cataldo, che presidiavano il carcere e i “Quattro Venti”, si erano ritirate a ridosso del Palazzo Reale in ottemperanza a uno degli “incomprensibili” ordini del Generale Lanza. Mentre gli evasi, che uscivano dal recinto, vennero cannoneggiati, pare senza subire perdite, da due barche cannoniere che tiravano sul Piano della Consolazione».(26)

Al Mundy avrebbe fatto più piacere che le sue affermazioni non fossero smentite, con tanta chiarezza, dal commentatore e traduttore del suo testo, Antonio Rosada. E nel secolo successivo.

L’Ammiraglio, infatti, per i suoi fini propagandistici, avrebbe preferito darci l’immagine dei duemila detenuti politici, maltrattati, oppressi e torturati, che da buoni patrioti, dalla mattina alla sera, avessero gridato impavidi:

«Italia e Vittorio Emanuele!». E che poi generosamente avessero alimentato la rivoluzione, filo-sabauda, popolare e democratica contro Francesco II. Tesi, questa, per la verità, molto cara anche a buona parte della storiografia risorgimentale odierna. Ma smentita, appunto, dai fatti.

Un’altra smentita del tutto insospettabile (sia per il Mundy che per gli agiografi del Risorgimento italiano), sarebbe addirittura arrivata da uno di quei rampolli aristocratici dei quali, qualche giorno prima dell’ingresso dei Garibaldini, si era occupato proprio il Contrammiraglio inglese. Si tratta di quel Francesco Brancaccio di Carpino arrestato per complicità nella sommossa del 4 aprile 1860, del quale abbiamo anticipato l’entrata in scena.
Dove arriva l’ingratitudine umana!

Il Brancaccio, infatti, nel 1901, dopo più di quarant’anni da quella sua avventura, avrà la cattiva idea di pubblicare un libro sulla vicenda, avvalendosi dell’ausilio di uno stringato diario, che aveva via via scritto per ammazzare il tempo durante la detenzione.

Apprendiamo, così, che nel carcere Duosiciliano della Vicaria di Palermo, i prigionieri politici godevano, per quei tempi, di un trattamento privilegiato.

Un trattamento che per quanto buono era probabilmente scomodo per il fior fiore della nobiltà dell’epoca. Ma comunque tale, quale mai il Governo Italiano – dopo il 1860 – avrebbe concesso ai prigionieri politici Siciliani o a quelli comuni.

E c’è qualcosa di più interessante: alla data dell’ingresso di Garibaldi (ed, invero, anche nei mesi immediatamente precedenti) i prigionieri politici alla Vicaria sono così pochi che si possono contare sulle dita di una mano o al massimo di due mani… a seconda della giornata. Altro che duemila!…

Ecco come il Brancaccio descrive un dettaglio significativo dell’evasione, pacifica e tranquilla, dal carcere borbonico.

«Stando così le cose, si risolse all’unanimità di abbattere ad ogni costo l’ultimo ostacolo e cercare scampo nella fuga, prima che i soldati fossero arrivati. Giannotta riprese l’opera sua col palo, ma ad onta dei suoi disperati colpi la maledetta porta resisteva sempre. Si era furibondi, i minuti sembravano ore, le ore secoli. Chi saliva, chi scendeva, chi osservava dalla finestra se veramente i soldati ritornassero, chi si ostinava a percuotere la porta, insomma da per tutto era confusione e scompiglio. Dopo qualche tempo si seppe, fortunatamente, che il ritorno dei soldati era stato un falso allarme nato da un luccichio di fucili che taluni dei nostri avevano veduto verso la lanterna del molo. Quel luccichio era reale, ma derivava dai fucili delle due compagnie che avevano lasciato la Vicaria, e aspettavano sulla spiaggia del molo il battello che doveva trasportarle al Castello. […] Intanto, mentre noi detenuti politici restavamo ancora rinchiusi, gli altri accusati di furti, omicidi e grassazioni erano di già liberi. Ecco come era andato il fatto. Il capo carceriere Caravella, prima di andar via, aveva lasciato le chiavi di tutte le porte e di tutti i cancelli ad un accenditor di fanali, suo amico, che abitava in Vicaria. Questi, che certamente aveva amici e parenti negli altri scompartimenti, si affrettò prima di tutto a liberare i suoi, e quando li ebbe liberati venne da noi ad aprire quella porta, che ci aveva fatto tanto penare. Il rumore di chiavi, che ci aveva sempre prodotto una spiacevole sensazione tutte le volte che lo udivamo, nel momento in cui aprivasi la dannata porta, giunse al nostro orecchio come il suono di grato strumento».(27)

A questo punto avviene l’incontro nel cortile più grande e più vicino al portone d’ingresso (in questo caso… di uscita) fra i detenuti politici e i detenuti per reati comuni, i quali hanno «certe fisionomie da patibolo che facevano ribrezzo a guardarle».

Così conclude, con garbata ironia, la sua cronaca il Brancaccio.

«Finalmente uscimmo nella corte delle prigioni, ove trovammo i detenuti degli altri scompartimenti disposti in due ali, col capo scoperto in segno di rispetto. Fu in quella occasione che potemmo osservare certe fisionomie da patibolo che facevano ribrezzo a guardarle. Ciò nonostante fu giocoforza sobbarcarci all’abbraccio fraterno di quei nostri compagni, i quali si atteggiavano tutti a vittime del principio di libertà. Liberatomi finalmente da quegli abominevoli amplessi, salii alle camere serrate per accertarmi se i miei amici fossero stati veramente trasferiti al Castello, come mi era stato detto. Giunto su, non vi trovai che Mariano Indelicato il quale sin dal 3 aprile languiva in una di quelle segrete, e Jacuzzu cameriere del principe Antonio Pignatelli. Era tempo ormai di riveder le stelle, ed io saltando a due e a tre i gradi della scala fui subito giù e mi avviai alla porte di uscita. Ma una nuova sorpresa ci era ancora riservata. Nel momento in cui si stava per uscire colpi di mitraglia contro di noi. Fortunatamente non si ebbe a deplorare alcuna perdita, poiché quei pochi che erano di già usciti si sparpagliarono e traversarono la piazza a tutta corsa, gli altri, fra i quali io e i miei due amici, uscimmo uno alla volta, e rasentando le mura della Vicaria, prendemmo la strada delle Croci, e di là traversando i giardini di Villafranca entrammo in Palermo per Porta Maqueda. Tale fu il nostro esodo dalle prigioni».(28)

È appena il caso di sottolineare come i detenuti comuni siano rispettosi verso i pochissimi detenuti politici, che peraltro sono dei signori. I detenuti, attraverso la mafia, erano stati infatti informati sull’incalzare degli avvenimenti che, via via, si erano verificati in Sicilia. E adesso ben comprendono che quei signori fanno parte della nuova classe dirigente al servizio dei conquistatori da poco entrati a Palermo.

Quegli ex detenuti – uccidendo, rapinando, stuprando – potranno diventare, a loro volta, eroi della nuova era che si affaccia su Palermo. Meglio se andranno subito ad uccidere, anche a sangue freddo, qualche sbirro o, come si usa dire in questi giorni, qualche sorcio di loro conoscenza. In quest’ultimo caso potrebbero anche avere diritto alla pensione per sé e per i propri eredi.
Fino alla terza generazione.

Diversamente, che rivoluzione sarebbe stata quella di Palermo? Cosa avrebbero detto gli Inglesi, i tanti diplomatici e soprattutto i corrispondenti della stampa estera se a Palermo non si fosse visto nemmeno un nemico, un oppressore del passato regime, ucciso dal popolo? Anzi: giustiziato.

Non stiamo facendo facile, macabra, ironia. Parliamo della verità dei fatti. Così come questi si sono svolti, in modo orrendo. Sulla pelle e sulla testa del Popolo Siciliano.

Questi ex detenuti, così come altri, saranno aizzati ad uccidere a più non posso. Anch’essi, come i picciotti di mafia, sono stati destinati a diventare, infatti, molto utili per dimostrare che esiste in Sicilia quella tanto decantata rivoluzione filo-italiana e filo-sabauda e (perché no?) filo-garibaldina. Una rivoluzione assolutamente interna alla società siciliana.

Conclusione: quegli ex detenuti, paradossalmente, contribuiranno a le- gittimare – anche loro! – l’occupazione della Sicilia.

(26) G. R. Mundy, op. cit., pag. 112.

(27) Francesco Brancaccio di Carpino, Tre mesi nella Vicaria di Palermo, Napoli, 1901, in
«Delle cose di Sicilia», a cura di L. Sciascia, Sellerio, Palermo, ottobre 1986, pagg. 120 e 121.

(28) F. Brancaccio di Carpino, op. cit., pag. 121.

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