Storia & Controstoria

La vera storia dell’impresa dei Mille 37/ Napoli: Francesco II accerchiato e tradito dai suoi più ‘fedeli’ collaboratori

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Oggi lasciamo la Sicilia ‘liberata’ da qual bandito di Garibaldi (quello che ha perso tutte le battaglie in Sicilia nonostante l’aiuto di inglesi e mafiosi) e ci trasferiamo a Napoli. Dove il giovane sovrano del Regno delle Due Sicilia, Francesco II, viene ‘accerchiato’ e tradito da quelli che avrebbero dovuto essere i suoi più fidati collaboratori. Questi ultimi finiranno tutti nel Cocito, che è l’unico posto dove questa gentaglia meritava di andare 

La Costituzione del 1848: un cadavere risuscitato… Istituzionalizzata la partecipazione della camorra al progetto Unità d’Italia.

Sospendiamo il racconto dei fatti siciliani, per comprendere cosa intanto stia succedendo a Napoli. Qui il Re Francesco II viene sempre più allontanato dal suo popolo ed isolato. Ed è circondato dai consiglieri più infedeli e dagli alti vertici militari e politici, corrotti a perfezione dagli agenti Inglesi e da quelli filo-Piemontesi, i quali anziché farlo reagire energicamente, gli hanno consigliato di dialogare con il Re Vittorio Emanuele per trovare assieme una soluzione onorevole.

In realtà vogliono fargli perdere tempo per farlo ritrovare, sempre di più, di fronte al fatto compiuto. Da qualche tempo gli hanno suggerito di dare al Regno delle Due Sicilie una Costituzione liberale come quella del Piemonte. Gli fanno capire che questo gesto gli restituirebbe la credibilità e l’affidabilità perdute nei confronti di tutte le potenze europee.

Per Francesco personalmente, che nei fatti è più tollerante e più rispettoso dei diritti altrui di quanto non lo siano gli stessi liberali, la concessione della Costituzione non è un problema. Non lo sarebbe stato neppure prima. Ma gli stessi consiglieri, in questi giorni, gli suggeriscono la linea morbida, che a suo tempo lo avevano indotto a non cambiare niente rispetto a quello che era stato l’ordinamento statuale ereditato dal padre Ferdinando II.

LA TRAPPOLA – Evidentemente stanno tendendo una trappola che il giovane Re intuisce, ma che non ha il coraggio di denunziare. Preferisce peraltro sgombrare il campo dall’accusa di assolutismo, dietro la quale l’Inghilterra ha giustificato e giustifica le proprie trame e le vere intenzioni. Avviene così che, da Portici, Francesco emani l’Atto Sovrano datato 25 giugno 1860, con il quale dà l’incarico al liberale Antonio Spinelli di formare un nuovo Ministero e soprattutto di elaborare la proposta di una nuova Costituzione sull’esempio di quanto gli altri Stati hanno fatto in Italia (leggi: Regno Sabaudo).

Viene altresì adottato il tricolore italiano con l’aggiunta, sulla parte bianca, dello stemma della Casa di Borbone-Due Sicilie. Anche questa disposizione si muove in analogia a ciò che lo Stato Piemontese (Regno di Sardegna) ha già fatto con la dinastia sabauda. Una scelta infelice e tardiva, dal nostro punto di vista e da quello dei Popoli del Regno delle Due Sicilie. Ma si tratta di una scelta che i liberali e gli unitari non possono dire di non accettare o di non gradire.

In quanto alla Sicilia… il Re Francesco II dichiara formalmente che adotterà «analoghe istituzioni rappresentative che possono soddisfare i bisogni dell’Isola» e che «uno dei principi della nostra Real Casa ne sarà il nostro Viceré». Un provvedimento fuori tempo massimo – come abbiamo accennato – e che non sarà poi applicato nella realtà, perché, a quella data, la Sicilia è già in buona parte occupata dalle truppe sabaudo-garibaldine. E soprattutto perché sia i consiglieri di Francesco, sia il Governo Spinelli, allineati con le direttive anglo-Piemontesi, sono contrari ad ogni forma di federalismo o di semplice autonomia regionale.

Rimane tuttavia interessante (e costituisce un altro precedente per la storia dell’Autonomia Siciliana), questo richiamo alla Sicilia all’interno dell’Atto Sovrano, in quanto, in poche parole, Francesco restituisce (o meglio si impegna a restituire e pertanto ne riconosce il diritto) alla Sicilia il Parlamento e la identità statuale sia pure con a capo un viceré di Casa Borbone.

Ai consiglieri, ai liberali, ai voltagabbana, nonostante la possibilità di nominare un Capo di Governo di loro fiducia e nonostante l’elasticità dei contenuti, questo atto sovrano non basta. Anzi pretendono – con lo Spinelli in testa – che, anziché emanare un nuovo Statuto, il Re proceda a riesumare lo Statuto del 1848.

Ufficialmente adducono il pretesto che la redazione di una nuova Costituzione richiederebbe tempi molto lunghi, incompatibili con il precipitare degli eventi. Nei fatti, però, richiamando in vita ex-tunc (dal 1848, cioè) l’antico Statuto, lo stesso Re legittimerebbe l’operato di quanti hanno remato e continuano a remare contro l’esistenza dello Stato Duosiciliano. Non solo: la riesumazione dello Statuto di dodici anni prima impedirebbe al Re e al Popolo delle Due Sicilie di avere un ordinamento istituzionale adeguato ai tempi, del tutto cambiati rispetto alla situazione del 1848. Quando, ad esempio, si gridava al pericolo di un’invasione da parte dell’Impero Austro-Ungarico. Un Impero, quello Asburgico, che nel 1860 è ormai ridimensionato.

Mentre, nel 1860, è in corso nel Regno delle Due Sicilie un’occupazione garibaldino-piemontese, notoriamente pianificata dalla Gran Bretagna, la quale è veramente una potenza in grado di mettere la propria ipoteca sull’Italia, sull’Europa e sul Mediterraneo.

Francesco, per la verità, avrebbe altre alternative, come quella di conciliare l’una e l’altra esigenza, chiarendo che avrebbe potuto richiamare in vita il testo dello Statuto del 1848 facendone, però, decorrere gli effetti e la validità dal 1° luglio del 1860 (ex nunc, per usare termini squisitamente giuridici. E non ex tunc). Non sarebbe stato molto, ma avrebbe impedito tutta una serie di abusi e di trucchi che lo Spinelli avrebbe messo in moto spietatamente, giocando sulla decorrenza retroattiva.

L’ERRORE DI FRANCESCO – Ma Francesco, si sa, è troppo buono e preferisce cedere alle pressioni dello Spinelli, piuttosto che fare pesare la propria autorità ed il proprio acume. Spera, probabilmente, di dare un segnale di una buona volontà e di acquisire la fiducia dei liberali. Spera, inoltre, che l’amore per la Patria Duosiciliana possa prevalere sulle pregiudiziali ideologiche e politiche. Errore imperdonabile!

Francesco sottovaluta, infatti, che quei liberali Napoletani, a prescindere dal fatto che possano essere o no nel libro-paga del Governo di Londra, non possono più scegliere; devono accettare ormai i dictat degli Inglesi, dei Piemontesi e dei Savoia. Il destino ed il futuro del Regno del Sud, a sua volta, dovranno essere quelli che gli Inglesi vogliono che siano.

D’altronde i Borbone delle Due Sicilie hanno sempre insistito sullo Stato dinastico e non sullo Stato nazionale. Viene difficile sollevare, ora, le questioni nazionali. Nonostante il fatto che, sia per i Siciliani, sia per i popoli della parte continentale del Regno delle Due Sicilie, le rispettive identità nazionali erano fortemente sentite.

L’eventuale appello ad una resistenza popolare e nazionale contro l’invasore straniero avrebbe avuto un effetto positivo e forse travolgente. Francesco II se ne accorgerà quando ormai tutto sarà perduto. E quando l’eroica resistenza popolare sarà irrimediabilmente accerchiata, perché partita con troppo ritardo. Ad occupazione avvenuta. A stragi e genocidi culturali e politici già compiuti. O ancora in corso…

NASCE il Governo Liberale e filo-piemontese di Antonio Spinelli.
Nel luglio 1860 nuova Costituzione, quindi, a Napoli e nuovo Governo costituzionale. Il primo Ministro Antonio Spinelli avrà nel suo Gabinetto la collaborazione, fra gli altri, di due grossi personaggi particolarmente esperti nel doppiogiochismo, nei tradimenti, nel carrierismo politico: l’avvocato Liborio Romano e il Generale Giuseppe Pianell (o Pianelli). A questi la storiografia risorgimentalista avrebbe avuto il dovere di dedicare molto più spazio. Anche perché senza personaggi spregiudicati e cinici come loro la conquista del Sud e della Sicilia e la conseguente Unità d’Italia non avrebbero mai avuto luogo.

ARRIVANO I MERCENARI STRANIERI – Il 5 luglio del 1860 nel porto di Palermo, nel quale si trova ancorata alla fonda l’ammiraglia britannica Hannibal, attracca la nave Provence con a bordo ben 800 mercenari Francesi, che fanno parte della cosiddetta spedizione Cosenz.
Siamo certi che dietro la nazionalità dichiarata, francese appunto, si comprendano anche non pochi Zwavi, tanto desiderati da Garibaldi. Questi soldati parteciperanno presto alla battaglia di Milazzo. Saranno presentati, le poche volte che la storia ufficiale ne parlerà, come puri volontari. Vediamo, comunque, cosa scriverà in proposito, con la data del 6 luglio 1860, l’Ammiraglio Mundy:

«6 luglio – Ieri arrivò da Genova un piroscafo mercantile francese con ottocento volontari, per la maggior parte francesi. C’era gran bisogno di questi rinforzi, poiché c’è stata molta confusione in città nei giorni scorsi. Il Dittatore era stato costretto dai clamori d’una folla violenta a sostituire i suoi ministri; inoltre era deluso, vedendo che neanche una persona che disponesse di ricchezza e autorità nell’isola aveva raggiunto le sue bandiere. Le squadre reclamavano la paga, le sottoscrizioni erano quasi cessate, e cominciavano a mancare i fondi per soddisfare le pressanti esigenze dello stato».(1)

Non aggiungiamo altro per il momento. A buon intenditor poche parole…

15 LUGLIO 1860: gli Ungheresi entrano a Catania – Della brigata ungherese comandata dal Colonnello Eber è difficile sentir parlare dagli scrittori di cronache o di testi ufficiali. Costoro, come abbiamo detto, parlano talvolta romanticamente di questo o di quel singolo personaggio, guardandosi bene dal fare comprendere al lettore che si tratta di migliaia di militari professionisti e mercenari, inquadrati in una numerosa brigata (nel caso della spedizione dei Mille) a sé stante, con regolare contratto di ingaggio.

In maniera elegante e misurata (con la solita tattica di ammettere un minimo per distrarre il lettore dalla giusta dimensione) Giuseppe Cesare Abba ne parla brevemente, durante la sua sosta a Catania, quando descrive l’ingresso in città delle truppe garibaldine.

«Entrò la brigata. Eber cavalcava alla testa, le compagnie camminavano franche, con gli schioppi che uno non passava l’altro, con una cadenza di passo da vecchi soldati; davano piacere a vederle».(2)

Veramente il piacere questi mercenari lo danno soltanto all’Abba, essendo noti per la loro ferocia; e saranno utilizzati anche successivamente al 1860 per reprimere le rivoluzioni dei Popoli dell’ex Regno delle Due Sicilie contro l’occupazione garibaldino-piemontese. L’Abba, questa volta, tranne che generici fiori offerti al suo gruppetto, non si sofferma a parlare di folle osannanti e di festeggiamenti.

Nella bella, stupenda, città di Catania i Garibaldini avranno infatti trovato una freddezza tale che neppure la cultura ufficiale è riuscita a trasformare in festa popolare o in semplice consenso collettivo.

(1) G. R. Mundy, op. cit., pagg. 158 e 159.
(2) G. C. Abba, op. cit., pag. 185 (le virgolette sulla parola «brigata» sono nostre).

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Foto tratta da Vesuvio Live

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