Famiglie vi odio! (Capitolo VIII)

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Continua la pubblicazione online del romanzo a puntate di Franco Busalacchi

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CAPITOLO VIII
Le mire del principe, almeno quelle immediate, erano chiare: ripopolare Granfonte avrebbe significato colonizzare il feudo, attraendo una consistente manodopera di cui potere disporre per ampliare la superficie coltivata e quella dei terreni che, appena se ne presentava l’occasione, avrebbe preso in affitto. Ma, dopo l’abbandono da parte dei pochissimi sopravvissuti, il principe si trovava nella stessa posizione di chi volesse, come si diceva allora “frabicar Terra” in un feudo, fondare cioè una cittadina. anche se a noi, lontani da quell’antico lessico burocratico, non sembrerebbe La richiesta del principe, corredata dall’esposizione dei meriti della famiglia e dei servizi prestati dallo stesso ed accompagnata sapientemente da una cospicua offerta in denaro, venne accolta con Cesareo Real Disposto, previo parere, però, del Tribunale del real patrimonio.

Appare quanto meno singolare che un atto che dall’intestazione sembra promanare da un’autorità assoluta, e tale doveva essere l’imperial-regia volontà, fosse sottoposto ad un parere, che si rivelò vincolante, di un tribunale di periferia. Le cose infatti si complicarono. Fioccarono le opposizioni delle città demaniali che paventavano un decremento demografico e una perdita di importanza per loro inaccettabile, ma soprattutto temevano il fatto che il principe si sarebbe portato da casa sua il cosiddetto mero e misto imperio con todas las facultates accordatas a feudos nobles con vasallages, con la jurisdicion civilj y criminal, alta y basa.

Ciò significa che di diritto, ma soprattutto di fatto, avrebbe esteso la mano baronale sui territori del regi comuni. Il Tribunale dette parere negativo. Il principe non si perse d’animo. Quando il diritto trionfa è il momento di agire con autorevolezza e, perché no, d’astuzia. Giuseppe riuscì a fare assegnare il seguito della causa alla Giunta militare, organo non meno rigoroso ma che sapeva valutare e rispondere ad interessi più alti di quelli di piccoli comuni gelosi dei loro infimi privilegi. Infatti la Giunta decise per il meglio e il viceré fece pervenire al causidico e ligio Tribunale del real patrimonio un biglietto in cui adheriendo al Sentir de la Junta, tenendo conto dei servigi prestati (dal principe) à favor del dho Principe las letras de potestad. E cioè, per il semplice fatto che stiamo parlando di un Principe, meriti tutti dei quali il Tribunale colpevolmente non aveva tenuto conto, Sua Maestà, accettando per mera bontà l’offerta in denaro, concesse tutti i permessi necessari a compiere l’impresa.
Il principe vinse dunque la sua battaglia, edificò il nuovo paese, lo popolò aggiungendo all’antico nome di Granfonte il nome dell’eponimo del padre, S. Leonardo, aggiunta poi desueta e issò lo stemma di famiglia con tanto di corona principesca: l’immancabile cerchio d’oro, i fiorami, le perle e le pigne e scudo, questo rigorosamente inquartato.
Proprio questo stemma, o meglio quello che ne restava, era posto al sommo di un cancello in ferro, murato su due colonne in pietra lavica, grande abbastanza per far passare anche dei carri.
La Casena detta anch’essa di Malafata, dal nome della contrada di proprietà dei Santandrea, discendenti del fondatore del paese, era una tipica dimora padronale etnea, costruita in muratura e rivestita con intonaco di colore rosso mattone e sormontata da una merlatura. Il portone di ingresso alla casa, quasi un portale, era di legno di quercia a due ante in una delle quali era ritagliata una porticina per l’accesso pedonale. Al sommo del portone campeggiava ancora lo stemma, anch’esso mal conservato.

La casa si sviluppava su due piani fuori terra con una torretta in terza elevazione ed era dotata di una vasta terrazza ad archi su cui si aprivano grandi finestre con alte invetriate. Il primo piano era la residenza padronale vera e propria, mentre i corpi inferiori erano parzialmente destinati a residenza delle maestranze, a magazzini e alla produzione del vino. Era situata al centro di un’azienda ad indirizzo viticolo e frutticolo, che insisteva su un vasto terreno irriguo, l’agrumeto, chiuso sull’alto pendio da un basso vigneto tenacemente terrazzato. Il lato nord della casa era intonacato con un rustico di sabbia vulcanica che già dall’autunno si rivestiva di un fitto manto di muschio e di licheni. A poca distanza dalla casa emergevano i resti di un piccolo antico borgo rurale con annessa una chiesetta priva ormai del tetto e dalle pareti spoglie, fatta eccezione per un puerile affresco rappresentante un Gesù imbronciato. Un tempo il borgo era stato dimora di contadini ma ora la macchia lentamente lo stava riconquistando. Molto più a monte, verso ovest, in uno spiazzo infestato da graminacee rustiche e circondato da alti e forti pioppi, sopravvivevano i ruderi di un antico mulino ad acqua, detto di Sambuco, appartenuto al monastero di clausura delle suore di Sant’Anna e che un tempo era alimentato da un canale ormai interrato che si dipartiva da un affluente del Simeto.

Erano ancora visibili un arco ogivato e qualche traccia delle strutture per l’immagazzinamento. I contadini più anziani affermavano che il mulino anticamente era costituito da due o forse tre macine. Raccontavano pure di Tonia, la Neretta, la figlia del mugnaio, che si era lasciata annegare nella vasca grande del mulino. Non era stato per amore, si era detto a suo tempo, la sua sembrava essere stata piuttosto la storia di un terribile atto di ingiustizia, di un atroce sopruso consumato proprio lì e di cui nessuno di quelli che ne avevano saputo qualcosa aveva mai voluto parlare apertamente. Solo a mezze frasi, tanto, pareva, era stata calpestata la dignità umana: un’ingiustizia che, non potendo essere perdonata, non fu nemmeno punita ma che non fu mai dimenticata.

La cosa era arrivata sino al vescovo, ma come una voce lontana e fantastica. Solo la badessa del monastero, più vicina alla vicenda, aveva a suo modo fatto giustizia, ordinando di ostruire il canale. A nessuno allora parve strano che il mugnaio non facesse valere i suoi diritti di concessionario ricorrendo contro l’evidente abuso della monaca. E così il mulino era stato abbandonato.
Il mulino di Sambuco, risalente ad epoca normanna, faceva parte di un complesso reticolo di mulini ad acqua che insisteva sul sistema fluviale dei fiumi Salso e Simeto. Chi oggi, lasciando dietro di sé le rovine del Sambuco, volgesse i suoi passi nella campagna in direzione sud-ovest percorrendo quella che una volta era la regia trazzera che portava al centro della Sicilia, si imbatterebbe in decine di ruderi simili al Sambuco.

Sarebbe difficile immaginare che quelle pietre, abbandonate al mutare delle stagioni come tombe di un antichissimo cimitero ebraico cui nessuno sovrintenda, non per incuria o disamore ma per marcare la distanza incolmabile tra la vita e la morte, soltanto un secolo prima avevano pulsato di vita e di operosa attività e che sotto di loro scorreva l’acqua che faceva girare le macine. Adesso dell’acqua non solo non c’è traccia ma, osservando i ruderi nemmeno riesce comprensibile come ci sia mai stata, tanta è la remota solitudine di queste macerie.
Eppure, a mano a mano che si percorre la trazzera, entrando in un paesaggio che diventa sempre più diverso da quello della piana, sinuoso, collinare, intrecciato di dossi e scarpate che sembrano embrici di terra verde, questi antichi luoghi di Demetra, quasi inghiottiti dalla vegetazione, riemergono per farci riandare col pensiero a quello che furono e rappresentarono: fatica, lavoro, ricchezza, rumorosi crocevia cui nulla fece presagire il silenzio venturo delle macine e l’arsura della terra.

continua…

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