Un romanzo siciliano, capitolo terzo: Eugenia

30 ottobre 2015

Il terzo capitolo di Un romanzo siciliano di Franco Busalcchi

 

Il primo capitolo qui

Il secondo capitolo qui

 

Capitolo terzo/ PARTE PRIMA
EUGENIA

“Cavaliere, presto, Cavaliere, la signora… la signora!”
Menica era scesa per le scale di corsa e gridando aveva raggiunto lo studio.
“Menica”, saltò su il padrone di casa, “che succede?”
La ragazza si fermò. Era senza fiato. “La signora… perdonate…”, Menica si era accorta che il Cavaliere Santandrea non era solo, abbassò la testa imbarazzata e guardò timidamente verso il professore Federico, il fratello del cavaliere. L’uomo la metteva sempre in soggezione.
“Che c’è, dunque?”
“La signora… la signora va su e giù per la stanza e…”
“E allora?”
“Parla da sola! La signora parla da sola! Mi fa tanta paura!”

La visita era finita. Non era stata una vera e propria visita nel senso usuale del termine. Sperio aveva chiesto di incontrarla da solo, senza che la si disturbasse, né distraesse da qualunque cosa stesse facendo in quel momento.
Gli avevano riferito che Ambra, la signora Santandrea, dopo la crisi si era astratta dalla realtà e viveva in un mondo tutto suo. Era proprio quel mondo, quella realtà che Sperio aveva voluto conoscere, esplorare. Menica lo aveva condotto da lei percorrendo un lungo e ampio corridoio che finiva davanti alla porta della stanza da letto dei Santandrea. Ad un cenno del medico, Menica aveva aperto la porta della stanza. Sperio si era soffermato un attimo sulla soglia, poi era entrato e aveva richiuso la porta dietro di sé. Menica, rimasta nel corridoio, si era addossata alla parete e aveva pianto sommessamente.
Sperio si era appoggiato senza fare il minimo rumore alla porta chiusa e aveva guardato davanti a sé. La stanza era in penombra, arredata nello stile dell’epoca, con mobili massicci ma non pesanti: due grandi armadi muniti di specchi larghi e chiari occupavano un’intera parete. Erano sormontati da modanature e agili sculture lignee nere che rampavano, abbracciandolo, uno scudo di legno rosso che svettava al centro di ognuno di esse. Un grande letto di ferro battuto stava di fronte ad una toeletta dello stesso stile degli armadi e che in scala ridotta li riproduceva. Le sue dimensioni esaltavano la grazia delle elaborate colonne che reggevano uno specchio di fronte al quale, seduta su di una sedia di vimini, la signora Santandrea si pettinava.
Un lume, posato su uno dei cassetti laterali incassati nel marmo di copertura della toeletta, illuminava una scena il cui significato a Sperio apparve chiarissimo.
Ambra si stava pettinando i lunghissimi e fulvi capelli, lentamente, partendo dalla piccola bianca fronte e scendendo fino ai fianchi dove alternativamente spostava le ciocche più basse con un movimento uniforme e ammaliante. Il lume ne rifletteva il volto. Se solo vi avesse posto attenzione, Ambra avrebbe potuto vedere con chiarezza il suo ignoto visitatore come questi vedeva di lei l’immagine riflessa. Il braccio di Ambra, esile e bianchissimo, risaliva e scendeva con grazia e forza, in un movimento usuale eppure inusitato. La manica della vestaglia che lo ricopriva quando il pettine modellava i capelli della fronte ricadendo in basso, rivelava la purezza della forma dell’omero. Ambra guardava la sua immagine e forse vedeva le stesse cose che non sfuggirono a Sperio.
Tutto l’universo di quella stanza, i mobili, le suppellettili, le cose che non sapevano della sua esistenza, tutto quel microcosmo pareva arrendersi al male che ormai aveva imprigionato nella sua rete indifferente quella giovane donna, bella e fragile. Il professore stava lavandosi le mani, un po’ per compiacere il suo ospite, di più per guadagnare qualche minuto ma non certo per reale necessità: la paziente non l’aveva nemmeno sfiorata, non ce n’era stato bisogno. Menica lo assisteva versando a tempo, lentamente, l’acqua da una brocca e reggendo con l’altro braccio un asciugamani profumato.
La ragazza lo guidò poi verso lo studio dove i Santandrea lo attendevano in piedi.
Sperio guardò verso di loro… Come è invecchiato Carlo, pensò, ma anche lui, rifletté, starà pensando lo stesso di me. Osservò Federico. Lo aveva lasciato che era appena un ragazzo ed ora eccolo qui, era già un uomo e che uomo! Ne ammirò l’armoniosa complessione, il volto affilato,scuro e bello, gli occhi acuti e penetranti che lo interrogavano e che quasi già gli chiedevano l’esercizio di una sorvegliata compassione per il fratello del quale sembrava avesse compreso fino in fondo la sventura. Era un uomo ormai, un uomo, profetò a se stesso, che avrebbe fatto molta strada.
Santandrea ruppe il silenzio.
“È stato un bene che foste a Catania, Luigi, non avrei saputo che fare, a chi rivolgermi, qui siamo …”
Il pover’uomo non sapeva darsi pace, nemmeno mentre parlava.
“Ditemi, vi prego, che cosa è successo a mia moglie?Che ha?…Oh, ma io lo so … i nervi… è troppo nervosa, si preoccupa troppo per la casa, per i ragazzi. Troppa tensione, troppe preoccupazioni…”
Guardò pieno di speranza Sperio.
“Non è forse così?”
I nervi… vecchia storia quella dei nervi, pensò Sperio. Che sollievo ritenere che un nostro caro è affetto da un disturbo organico dei nervi piuttosto che da una malattia mentale, magari ereditaria e degenerativa!
Sperio si drizzò sulla sedia sulla quale si era lasciato
quasi cadere.

Era stanco, stanco e addolorato.
“Noi ci conosciamo da sempre, Carlo, anche se da quando vivo a Palermo abbiamo avuto poche occasioni di vederci… e sono anni ormai… conoscete bene la mia franchezza e anche adesso…”
Sperio si interruppe.
Santandrea si turbò, ma non disse nulla.
Il professore riprese.
“Anche adesso non posso…”
“Vi prego, parlate pure… liberamente…” proferì piano
Santandrea al quale la gravità piena di affetto di Sperio aveva già cancellato ogni speranza.
Sperio socchiuse gli occhi, si concentrò, come cercando le parole. Sarebbe stato facile dire: sua moglie è certamente affetta da dementia praecox, è impazzita. La pazzia! Lui la conosceva bene, ormai, così come conosceva bene le sue opere, anche se ben poco del suo mistero gli era stato rivelato. La fronteggiava ogni giorno, la combatteva da quando l’aveva conosciuta per la prima volta. Dal giorno in cui, come una ladra, le aveva portato via per sempre sua sorella che tra grida e sconcezze inaudite, senza un saluto umano, era entrata nel suo buio. Era stata quella tragedia a rivoltare la sua vita, a dirigerne tutte le scelte a venire. Da allora la studiava, la osservava mentre esplodeva, devastante. Ogni giorno si imponeva di scrutarla, quando, nascostamente, agitava nei malati deliri sotterranei e silenziosi e infliggeva sofferenze inesplicabili, come un’idra livida e rancorosa, rinnovando in lui lo stesso, antico, primo turbamento e, ultima misura, costringendolo a leggere con angoscia sempre uguale lo stupore e l’incredulità nei volti di quanti, amici e familiari, si accostavano smarriti e impreparati ai tormenti dei loro cari. Non era stata facile per lui quella scelta.
Negli anni ormai lontani in cui aveva frequentato l’università la psichiatria si trovava a mal partito. Gli ospedali psichiatrici erano né più né meno che dei magazzini in cui non c’era una vera speranza di guarigione. Gli psichiatri non godevano di grande reputazione tra i colleghi medici dai quali venivano considerati un poco più dei dottorini delle stazioni termali e degli omeopati. Pertanto i luoghi di cura traboccavano di pazienti paretici, dementi affetti da schizofrenia catatonica e avevano raggiunto un livello di desolazione che quasi chiudeva le porte alla speranza degli ipotetici riformatori. Almeno lui aveva una risposta alla domanda provocatoria di quei tempi: “Chi diventa psichiatra?”, sottintendendosi, “stando così le cose?”, perché lui aveva motivi e si era tuffato nello studio e nell’osservazione con uno spirito ardente e affettuosamente interessato. Erano passati tanti anni da allora, tra microscopi e stetoscopi, a districarsi tra teorie e scuole, tra pratiche e terapie, tra autointossicazioni, degenerazioni, fughe verso le stazioni termali e ritorni dolorosi negli ospedali. I suoi lunghi e folti capelli, la sua criniera che al nosocomio era ormai leggendaria e che all’esterno dell’ospedale lo rendevano così facilmente individuabile anche da lontano, erano imbiancati. Si era incurvato, era come scavato, divorato da una passione, quasi un’urgenza di dare una risposta a qualcuno che ormai, questo gli era chiaro, non sapeva che farne.
L’antico affetto per il vecchio amico gli suggerì di iniziare Carlo usando un linguaggio quasi familiare.
“Vedete, Carlo, la mente della signora è come se avesse avuto un breve ma fatale momento di pausa, poi i suoi pensieri si sono incamminati per strade a noi sconosciute, dalle quali noi non siamo in grado di farla ritornare, e lungo le quali noi non sappiamo come seguirla. Questa nostra incapacità purtroppo la porterà a procedere da sola e a dialogare solo con se stessa o con interlocutori che non vedremo mai, che non saremo in condizione di conoscere, e che lei sola vedrà e conoscerà. Questi dialoghi segreti genereranno alterazioni nelle emozioni e nei sentimenti di vostra moglie e, purtroppo, anche nei suoi comportamenti. Tutte cose che non capiremo e che ci faranno soffrire nel vederle.”
“Dio mio…” Santandrea era sconvolto, “ma come è possibile, così, senza un segnale…”.
“È possibile, ma è poco probabile: qualcosa, qualche avvisaglia, un qualsiasi precedente deve esserci stato, un particolare che si è presentato in una forma forse meno eclatante, un comportamento inusuale che, scusatemi, per ignoranza, non è stato capito. O, pensò Sperio senza proferire parola, qualcosa di remoto, che voi ignorate.
“Comunque, ho parlato di pausa… volutamente. Vostra moglie potrà alternare condizioni di crisi a periodi sereni, che noi dobbiamo fare in modo che durino il più a lungo possibile. Ma… ci potranno essere momenti brutti, molto brutti, Carlo, dovete essere preparato…”
“Che cosa intendete dire, Luigi, che potrà anche diventare violenta, pericolosa?” Santandrea era come annientato.
“Vi ho promesso di essere sincero, Carlo. È così, potrà accadere; ora il male si è rivelato, è come se avesse preso coscienza di sé, si è conosciuto e gli sarà più facile trovare la via e le occasioni. Bisognerà vigilare, ma ci sarà bisogno di un ambiente adatto, di persone esperte…”
“No! ” Santandrea quasi urlò,” intendete dire che sarà necessario… No! Mia moglie non andrà in… un … voglio che resti qui, che sia curata qui, in casa nostra, e voi dovete aiutarci… Scusatemi”, Santandrea si dominò,cercò con lo sguardo il fratello, ”ci sarà pure qualcuno in grado di accudirla, di somministrarle le cure necessarie, di controllarla, di evitare…”. Non fu in grado di proseguire.
“Capisco i vostri sentimenti. Certo,è una vostra facoltà fare questa scelta, ma…ve lo sconsiglio… Sarebbe un grave errore… vi assumereste enormi responsabilità…”
Santandrea, vittima del pregiudizio comune a quei tempi, quello stesso che gli aveva fatto sperare che sua moglie fosse malata di nervi e che ora all’idea di un suo internamento lo faceva andare in panico era più che deciso ad ignorare gli avvertimenti di Sperio.
“Forse a Palermo, nel vostro istituto, c’è qualcuno che potreste consigliarci, qualcuno di cui vi fidate… e che sia disposto a trasferirsi qui.” Concluse speranzoso.

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