La natura del male (capitolo secondo)

22 ottobre 2015

Il secondo capitolo di Un romanzo siciliano di Franco Busalcchi

(Qui potete leggere il primo capitolo)

“Mater dolorosa”, questo era il nome del cimitero di Melliena. Quando l’aveva letto, al sommo dell’alta inferriata del cancello che si apriva sulle tombe, si era rivolto con una smorfia a sua moglie. Lei gli aveva sorriso, allargando le braccia e simulando rassegnazione. Era questo l’epiteto con cui chiamava, più spesso insultava, nelle sue sempre più astiose e ormai inutili conversazioni con sua figlia, Medea la piccola, Pauline, la sua prima moglie, Medea la grande. La sua psoriasi, come la definiva, la malattia che non uccide, ma dalla quale non ci si può liberare, fino alla morte. Pauline che, calandosi sapientemente nel personaggio della madre e moglie adeguatamente afflitta e congruamente dolente per l’ingiusto abbandono, secerneva copiosamente e accumulava provvidamente il veleno che forniva alla sua stupida figlia, che poi lo riversava su di lui.
Emise un lungo sospiro. Era arrivato ancora una volta nei soliti posti pieni di ortiche. Da dove veniva tutto quel male, da quanto lontano, si chiedeva sempre, giunto a quel punto. E sarebbe finito un giorno, senza che fosse necessario aspettare la fine di tutto? La fine di tutto. La sentiva più vicina, adesso. Adesso che la lunghissima vita di sua madre, l’ultimo baluardo, come lei stessa amava definirsi, era finita. Adesso che non apparteneva più a nessuno, che era solo davanti a quell’evento inevitabile. Bisognava fare in fretta, doveva berselo tutto d’un fiato il vino residuo, nel suo calice.
Che cosa gli costava, ormai, fare il primo passo? Tra non molto, lo sapeva bene, sarebbe stata la sua di storia, sintetica e banale, quella di un ennesimo piteux destin, ad essere esposta e forse letta da qualcuno, perdigiorno, curioso e indiscreto come lui. Il primo passo: verso dove? Rimettere i propri crediti, che altro? Forse avrebbe fatto contenta in memoriam sua madre che lottando ostinatamente contro la sua incredulità, gli chiedeva, lo supplicava di recitare almeno alla sera, prima di addormentarsi, un pater noster. Fare il primo passo. Ma se sua madre in vita sua non aveva mai fatto nemmeno il secondo, di passo! E poi, non era così facile e in ogni caso sarebbe stata solo una recita, appunto, per lo più una recita inutile. Come avrebbe potuto trarre un qualche conforto da quella preghiera, fosse anche quello minimo di accontentare sua madre? Se lui non rimetteva i debiti ai suoi debitori, come avrebbe potuto chiedere con una qualche speranza la remissione dei suoi? Ma quali erano mai i suoi debiti? Aveva soltanto dei sospetti metafisici, del mistero aveva solo la certezza che la sua esistenza fosse solo figlia dell’ignoranza, ma come tutti era stato educato ai riti della religione cattolica e così stimava di ravvisarli bene. Così come si piccava di conoscere altrettanto bene l’umanità e di sapere che nessuno al mondo poteva elevare quella preghiera e sperare in qualcosa.

Perché nessuno crede di essere in debito, perché tutti, di volta in volta, argomentava, troviamo fuori di noi, nell’agire degli altri, negli accidenti della vita, negli scherzi del destino, nei capricci della fortuna, nel cattivo tempo, adeguate giustificazioni per quelle azioni che compiamo e che, perfettamente uguali negli altri, non giustifichiamo negli altri e meno che mai perdoniamo. Eppure anche così ci assolviamo con un salvifico “che c’entra!”, e assolvendoci ci precludiamo la salvezza. Non c’è salvezza, per nessuno, era la sua stizzita irragionevole conclusione.

Era per lui questa una certezza nuova, raggelante, che gli faceva orrore e che rendeva lui odioso a se stesso e a lui nemica l’intera umanità. Forse siamo stati condannati nello stesso momento in cui abbiamo chiesto che ci fosse insegnato a pregare, pensava a volte. Che cosa credevamo, che fosse facile? Non funziona così. Siamo maledetti, perché abbiamo chiesto una cosa impossibile, credendo di farne un lasciapassare sicuro e siamo maledetti quando in perfetta mala fede ci confortiamo, vedendoci e ascoltandoci tutti in coro, tutti a ripetere un rituale di menzogna e di ipocrisia.
Fare il primo passo. No. Sarebbe stata vanità, lui lo sapeva bene e il conforto della preghiera gli sarebbe rimasto ancora una volta precluso.
Da quanto lontano? Si ripeté. Impossibile dirlo. Il male è tralatizio, combinatorio, si trasmette e si eredita come un gene. È portatore di un ordine la cui conservazione esige e impone altro male. È creativo, vario, e nel tempo agisce a mezzo di trasferimenti, aumenti, variazioni, riporti che occultano sapientemente il tema principale: il male è il non essere, lo spreco immorale delle cose insostituibili, dell’amore non dato, dell’aiuto rifiutato, di tutte le cose che non ritornano. La cui essenza invece consiste nell’esserci, nel dover e poter esserci esclusivamente in quel solo determinato istante, quello che arriva dopo una corsa di miliardi di anni e che, una volta per sempre fallito il bersaglio, in quella corsa infinita e silenziosa si perde. Il male è non cogliere quell’unico istante, non vederlo, non avere il dono della consapevolezza che se le porte si chiudono è per sempre.
Da quanto lontano? Il grido soffocato di una ragazzina interruppe il rollio dei suoi arzigogoli.

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