Famiglie, vi odio!

5 ottobre 2015

Il primo capitolo di Un romanzo siciliano di Franco Busalacchi

 

Prologo: Prima della stretta biforcazione i cavalli rallentarono, quasi fino a fermarsi. Il giovane cavaliere che era in testa al drappello, poco più che un ragazzo, si sporse leggermente sul suo fianco sinistro e si voltò all’indietro, guardando con fare interrogativo verso un vecchio calvo e scuro di carnagione che cavalcava impettito in mezzo al gruppo un placido morello. Poi, seguendo la sua impercettibile indicazione, scosse nervosamente le briglie deviando a sinistra verso il sentiero più largo, quello che, aggirando la bassa collina, saliva verso la battery, sulla spianata. Li seguì con lo sguardo, pigramente, finché uno dopo l’altro non svoltarono tutti dietro le rocce brune e spoglie, e il rumore cadenzato degli zoccoli cessò.

Cavalcare, giocare a polo, a tennis, a golf. Che distinzione! Forse un tempo, però. Oggi di questi sport si sono impadroniti i nuovi ricchi, che hanno mandato in pensione i vecchi ricchi, quelli veri, che hanno abdicato dolcemente, per stanchezza e sazietà. Lui li conosceva bene i nuovi ricchi sportivi, da quando, tanti anni prima, un’apparizione, bianca dal cappellino ai calzini e alle scarpette, con spocchiosa indifferente cortesia gli aveva restituito un vecchio pallone sdrucito che dall’attiguo campetto improvvisato aveva osato volare, che solecismo, nel bel mezzo di un combattuto tie break.

Malta e i suoi nuovi Cavalieri. Malta, l’isola che un imbelle re Borbone un tempo ormai lontano si lasciò sfilare dai suoi domini dalla perfida Albione, e che da ponte gettato sull’Africa dai Normanni era diventato un giorno un cuneo piantato sull’Italia. I Cavalieri. Sorrise della sua stessa lepidezza. Adesso erano compassati turisti serotini che compresi di sé si fingevano per un’ora di cavalcata a pagamento i discendenti di una congrega con una sua storia secolare e complicata, fatta di luci e di ombre.

Erano scomparsi. Erano altre vite, a lui sconosciute, come lui era sconosciuto a loro, vite che lo avevano sfiorato e delle quali non avrebbe saputo mai nulla. Socchiuse gli occhi, guardando davanti a sé. Era dunque questo il vero,misero, ferreo senso dello stare insieme tra gli uomini? Nel non saper l’uno dell’altro e nell’incidere comunque nella vita degli altri anche senza esserne consapevoli e responsabili, sia agendo che omettendo? Era questo l’intreccio indissolubile che legava allo stesso destino il consorzio umano? Era questo il senso della vita? Perché ci deve essere differenza tra chi compie deliberatamente il male e chi lo causa sfiorandoti casualmente, o addirittura solo perché, per pura cortesia, ti ha ceduto il passo? Ed è troppo o troppo poco fare valere questa differenza solo davanti ai tribunali?

Un grosso cane grigio dal pelo lungo, sporco e arricciato scese dall’altro sentiero, anelando e fiutando l’aria. I cespugli di ginestra lo nascosero per un istante, poi rispuntò poco più in basso, trotterellando fiero in cima ad uno sconnesso muretto a secco dove fu subito raggiunto da un secondo cane nero e più piccolo, sbucato da dietro una grossa roccia triangolare, che prese a seguire il grigio scodinzolando. I due cani percorsero in equilibrio la cima del muretto, sino a dileguarsi nella folta macchia. Anche il sole scomparve dietro l’albergo. Un giorno in meno.

Aveva voluto lui quella lunga vacanza a Malta subito dopo la morte di sua madre e aveva convinto sua sorella e suo cognato a partire con lui e sua moglie. Quel giorno ricadeva il trigesimo. Quella stessa mattina assecondando sua sorella erano andati tutti al piccolo cimitero che si trovava a metà strada tra Melliena e l’albergo. Il guardiano, un uomo di mezz’età, curvo e bruciato dal sole, li aveva osservati tra l’incuriosito e il sospettoso. Si erano aggirati tra i riquadri, circoscritti da vialetti odorosi di menta e avevano deposto dei fiori sulla tomba di una vecchia signora morta da poco e che da una fotografia a colori sembrava interrogarli un po’ stupita. Così, simbolicamente, aveva proposto e fatto sua sorella in maniera da ricordare la loro madre. Lui si era aggirato oziosamente tra le tombe fra nomi di sconosciuti, alcuni con troppe consonanti. Poco lontano, due becchini stavano inumando una bara. Assistevano alla cerimonia una coppia di anziani, stretti nel loro dolore.

Si appoggiavano l’un l’altro ed entrambi non staccavano gli occhi dal lucido legno che lentamente andava scendendo nella fossa. Accanto a loro una giovane donna, piccola e magra, triste e con lo sguardo assente piangeva in silenzio. Raul cercò di immaginare chi fosse la persona di cui si svolgevano quelle esequie così solitarie. Forse un giovane, forse il marito della giovane, il figlio degli anziani. A giudicare dalla intensità dei sentimenti espressi dai sopravvissuti era molto probabile, concluse. Si allontanò a passi brevi lungo un vialetto fiancheggiato da giovani cipressi. Strano il destino di questi nobili alberi, pensò. La loro frequente presenza nei camposanti, dovuta alla particolarità delle loro radici che penetrano in verticale nel terreno e quindi non disturbano le sepolture, li aveva associati per sempre a quei luoghi, bandendoli superstiziosamente quasi del tutto da quelli dove regnava la vita. La stessa sorte dei crisantemi, fiori bellissimi e luminosi, che hanno il grave torto di fiorire a novembre, il mese dei morti.

Quando andava in vacanza in una grande città gli era sempre piaciuto perlustrare i cimiteri, per lui la cosa aveva lo stesso significato che visitare un museo o percorrere una strada piena di storia. Facevano parte dei luoghi obbligati da ispezionare per saperne di più, per penetrare con maggiore consapevolezza e familiarità nel posto in cui si trovava, anche solo sfiorando le sintetiche storie che talvolta vengono scritte sulle tombe.

A volte erano devoti pellegrinaggi, talora faticosi, come era accaduto a Parigi nel cimitero di Montparnasse, dove bisognava uscire dal luogo sacro e rientrare in una sua parte più remota. “Ou se trouve la sepolture de Guy de Maupassant, s’il vous plait?” Aveva costretto sua moglie e i suoi amici a perlustrarne dieci sezioni, prima di capire che la tomba dove riposava Maupassant era oltre una strada pubblica, triste come può esserlo solo un percorso fatto per i vivi che attraversa un camposanto. L’aveva trovata, alla fine: ben curata, con le sue piccole rose rosse ancora in fiore, chiusa in un recinto di ferro battuto. Bel ami, aveva pensato, c’è ancora chi ti ama. Era stato invece molto più semplice, prima, trovare vicino all’ingresso, alla fine del primo vialetto, Baudelaire, imbucato come un intruso ormai indifferente nella tomba dell’odiato patrigno. Un bicchiere di vino rosso, un calice pieno a metà, aspettava che il suo semblable, fattosi scuro, salisse su a centellinarselo sotto la luna nuova di quel lontano settembre ancora caldo, magari in compagnia di qualche suo ipocrita lettore d’altri tempi.

Continua….

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