Famiglie vi odio! (capitolo V)

28 novembre 2015

Ecco un altro capitolo del romanzo siciliano di Franco Busalacchi che stiamo pubblicando online

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Il terzo capitolo qui

il quarto capitolo qui

Menica entrò nello studio silenziosamente, come aveva imparato a fare da quel terribile giorno. Non ’era bisogno di bussare, portava il caffè del pomeriggio al Cavaliere. Posò con cautela il vassoio sul bordo della scrivania e lasciò la stanza. Menica pazzerella, Menica distratta, che dimenticava tutto, Menica la chiacchierina era cambiata improvvisamente: era diventata calma, attenta, riflessiva. Una grande tristezza era nata nel suo piccolo cuore, capiva che, come quella della sua signora, la sua vita era cambiata e niente in quella casa sarebbe stato più lo stesso.
Santandrea era alla finestra dello studio: al di là della vetrata il suo sguardo andava al piccolo giardino che sua moglie aveva fino ad allora curato, e nel quale in quel momento lei si trovava.
Ambra aveva voluto fortemente quel giardino. ”Anche piccolo, piccolissimo, ma tutto mio”, aveva chiesto. Carlo l’aveva accontentata, destinandole uno piccolo spazio chiuso per due lati dai muri della Casena. Per prima cosa Ambra aveva studiato l’accesso che alla fine volle esclusivamente dalla casa e che fu realizzato trasformando la finestra di una stanza al piano terra, sulla facciata posta a sud, in una porta a vetri. Così, al piano superiore dalla sua camera da letto e da quelle dei figli che, ne era sicura, sarebbero venuti, tutta la famiglia avrebbe potuto ammirarlo. Solo la famiglia, però. Doveva essere un luogo segreto, interiore. La stanza a piano terra sulla cui parete era stata praticata l’apertura diventò una sorta di bow window e acquistò col passare del tempo una sua centralità nelle abitudini della famiglia. Ambra era stata a lungo indecisa se pavimentare tutto lo spazio avuto a sua disposizione usando così solo piante in vaso, oppure se lasciare sgombro tutto il terreno sottostante. Ogni soluzione presentava vantaggi e svantaggi. Il vantaggio di non coprire il terreno era che le piante avrebbero raggiunto grandi dimensioni senza bisogno di frequenti annaffiature. I vasi invece avrebbero consentito un’ampia rotazione delle piante tra interno ed esterno, a seconda delle stagioni e della loro maggiore o minore resistenza ai rigori invernali o alle prevedibili siccità e ai venti di scirocco.

Ambra alla fine decise per una soluzione mediana, e solo metà del terreno venne ricoperto da un largo pavimento di mattonelle romboidali di cotto, su cui furono posti dei vasi sotto i quali nella stagione estiva venivano collocati larghi piatti di terracotta. Le piante nei vasi erano gerani di colori diversi, cespi di plumbago, Ambra adorava il blu, e sterlizie. La zona non pavimenta fu tagliata da stretti corridoi, bordati di asparagi, di lavande e di bossi. Ambra volle che il giardino venisse chiuso sugli altri due lati da alti muri a secco su uno dei quali lasciò crescere una folta edera che con il tempo si intrecciò, in una lotta perenne che andava accuratamente regolata, con un percissus. Sull’altro lato, il più lungo e il più protetto dai rigori invernali, sistemò graticci su cui fece crescere un glicine e un caprifoglio, una buganvillea dai classici fiori rossi, una pianta di stephanotis e una di gelsomino invernale. Una combinazione ardita ma che, se avesse prosperato, avrebbe garantito, nell’alternarsi delle stagioni, una gaia e perenne presenza di fiori. Le piante attecchirono e in pochi anni i due muri furono occultati, creando l’impressione che il giardino si perdesse nel verde circostante. Il terreno lasciato libero fu dominio delle rose e delle bulbose precoci, giacinti, narcisi e fresie. Era facile sorprendere Ambra, verso la fine dell’inverno, china a spiare il terreno alla ricerca delle prime gemme. Al centro del giardino fece costruire una grande e profonda vasca per carpe e pesci rossi, con una fontanella che versava un filo d’acqua stillante su un fitto capelvenere. Il suo piccolo capolavoro, però, il suo orgoglio fu la creazione e l’organizzazione di una piccola serra, trionfo di succulente, e poi di ortensie e camelie, e dove l’aria odorava intensamente del profumo dei gigli, degli agapanthus, – ancora il blu! -, degli spatifilli e delle begonie.

Aveva messo a dimora tutto con le sue mani. Solo il buon Peppino, l’uomo di fiducia della famiglia, era stato ammesso a partecipare ai suoi riti e aveva cercato in tutti i modi di risparmiare alla padrona di casa i lavori più duri e faticosi. Mese dopo mese, anno dopo anno, Ambra aveva seminato, impiantato, aspettato, curato, potato, annaffiato; passava come ogni innamorato delle piccole cose tra minime soddisfazioni e cocenti delusioni, contrarietà inevitabili e piacevoli sorprese, quasi sempre entrando in simbiosi con le piante che sembrava sapessero come ricompensarla di tante fatiche ma che a volte mostravano una dispettosa indifferenza per le sue premure. Sempre, comunque, in quel piccolo paradiso tutto suo era felice.
“Perdonate signora ma perché tutta questa fatica?”, le aveva chiesto Peppino un giorno, vincendo la propria riservatezza e sicuro di non mancarle di rispetto con quella sua domanda. Quel giorno aveva visto Ambra particolarmente affaticata e delusa e lui, da buon contadino per il quale la terra era solo uno strumento utile, anche se faticoso da trattare, non capiva il motivo di tanta passione. Ambra aveva sorriso al brav’uomo ma si era tenuta la risposta per sé. E noi possiamo immaginare quella risposta e il perché del silenzio di Ambra, il motivo per il quale nel nostro correre e rovinare devono pur esistere persone che lasciano uno spazio superfluo, il contadino non avrebbe mai potuto capirlo, anche minimo alla terra e quindi alla propria vita. Lo sa bene chi, dopo generazioni, vede spuntare dalla terra i piccoli eredi proliferati da quei gigli, da quei giacinti, dai crochi e dalle iris che una mano gentile interrò non pensando solo alla sua primavera, a quando la sua attesa affettuosa sarebbe stata soddisfatta, ma a prima,a quando avrebbe goduto delle piccole zolle di terra che prima si sollevano ingobbite e poi si aprono per fare spazio al verde, alla luce e alla vita.

Il sole era ormai basso e l’ombra era scesa su metà del giardino. Santandrea osservava sua moglie muoversi, certo con più lentezza di prima, a volte come un po’ trasognata ma sempre premurosa e curiosa tra le sue piante e i suoi fiori. I suoi cuoricini, come un tempo amava chiamarli e proprio non riusciva a capire ciò che le stava accadendo.
Come era possibile che quella donna che si soffermava per ore, come incantata, a contemplare la disposizione degli oggetti sul marmo della sua toelette, o che con gesti improvvisi apriva i cassetti del suo armadio e ne gettava furiosamente a terra il contenuto, o che, invece, con agghiacciante, e inutile meticolosità sistemava sopra la trapunta del letto quello stesso contenuto con un ordine a tutti incomprensibile. Come era possibile che quella stessa donna, in quel piccolo giardino, riacquistasse e conservasse una assoluta padronanza di sé, una lucidità all’apparenza perfetta? Che potesse compiere lì, per tutto il tempo in cui decideva di sostarvi, gesti coerenti e consapevoli, dimostrando a quelle piante e a quei fiori l’affetto di sempre e prodigando loro quelle cure e quelle attenzioni che ormai negava a se stessa, al marito, ai figli dai quali, come da tutti, ogni giorno si allontanava di più?
Già, i figli. Come colto di sorpresa da questo pensiero, Santandrea raggiunse la sedia della scrivania e vi si lasciò cadere pesantemente. Avvicinò a sé il vassoio prese la tazza e bevve. Subito allontanò la tazza, aveva dimenticato di zuccherare il caffè. Scostò il vassoio e guardò di nuovo fuori. I figli. Si sentiva responsabile e si chiedeva sempre più spesso se le tre gravidanze troppo ravvicinate avessero potuto indebolire la mente della moglie,che aveva sempre avuto una costituzione molto delicata. Questa sgradita sensazione non lo abbandonava mai e poco lo confortavano le assicurazioni di Sperio, il quale in tutti i modi aveva cercato di spiegargli che le cause della malattia che aveva colpito sua moglie erano ancora troppo oscure ed indecifrabili, radicate in profondità assolutamente personali e intime. Che la nascita, la sua formazione, la sua elaborazione, così si era espresso, appartenevano ad un mondo di interiorità che per la scienza era in quel momento insondabile. E chissà fino a quando, aveva concluso con amarezza. Questo non consolava affatto Santandrea: lui voleva capire, come se comprendere a fondo ciò che stava accadendo a sua moglie avrebbe potuto aiutarlo ad affrontare il male o, almeno, a imparare a conviverci.
Qualcosa credeva e sentiva di aver capito ma questo non lo aveva fatto stare meglio, anzi.
Quando tutti i familiari, suoi e di sua moglie, erano stati messi al corrente del dramma di sua moglie, così come lui aveva voluto, Carlo ricevette, tra le altre, una visita che non si aspettava e che non gradì. Quella di sua cognata Agata, la sorella maggiore di Ambra.
La donna non gli era mai piaciuta, sin dal loro primo incontro, da quando Carlo, trascinato quasi a forza dal fratello Federico che si era invaghito della giovanissima Ambra, cominciò a frequentare casa Monasteri.
I Monasteri erano una famiglia tenuta in una certa considerazione, con qualche ormai disidratato lacerto di nobiltà, anche se il capofamiglia, il notaio Aloisio, a differenza della moglie, non aveva mai cercato di rinsanguare quell’ultimo quarto. L’uomo, inoltre, quasi non esercitava più il suo mestiere, ormai tutto assorbito dalla sua attività esoterica. Il buon signorotto, infatti, che sin da giovane aveva nutrito una passione scientifica per la mineralogia, aveva nel tempo approfondito e affinato la sua competenza e le sue appassionate ricerche. Si era concentrato progressivamente nella cristallografia, studiando con interesse sempre più morboso e sempre meno scientifico i fenomeni della rifrazione. La sua fantasia fu man mano sempre più fortemente eccitata e credendosi ormai in grado di avere visioni, deviò il corso delle sue ricerche, abbracciando l’arte divinatoria della cristallomanzia.I segni di questa passione, oltre che nella progressiva rarefazione della sua attività lavorativa e della sua vita di relazione, erano visibili nei nomi che, in questo dimostrandosi irremovibile, aveva imposto alle sue tre figlie.

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