Il 1848 in Sicilia: perché scoppiò la rivoluzione e perché fallì

4 settembre 2019

Questo articolo ci è stato inviato in adesione alla manifestazione celebrativa del sacrificio dei giovani patrioti siciliani, i Camiciotti, che si terrà a Messina sabato 7 settembre. E’ organizzata dal “Comitato Vespro 2019” di cui TerraeLiberAzione è parte 

di Mario Di Mauro

La storia dei Siciliani è lunga diecimila anni. E’ la Sicilia a fare i Siciliani… Ma la condizione neocoloniale della Sicilia attuale – determinata dall’annessione violenta e truffaldina del 1860 – è incardinata negli esiti della seconda Guerra Mondiale (1945). In questa “Sicilia peggio di Portorico” perfino l’abortita Rivoluzione indipendentista del 1848 è un “passato che non passa”!

Nel 1847 una acuta “crisi commerciale” su scala europea  -combinata con altri fattori – aveva determinato una terribile “carestia”. In Irlanda, per esempio, la fame nera décima un popolo intero e riempie le navi per l’America. La “crisi” alimenta ovunque il fuoco sociale e la scintilla dell’insurrezione siciliana si propaga rapidamente in decine di città del Vecchio Continente. L’Ordine del Congresso di Vienna vacilla…

L’insurrezione annunciata. La mattina del 9 gennaio i muri di Palermo e di altre città agghjiòrninu tappezzati di manifestini che convocano nientedimeno che una Rivoluzione:

“Siciliani! Il tempo delle preghiere inutilmente passò…Ferdinando tutto ha spezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra catene nella miseria…Alle armi, figli di Sicilia!…L’unirsi dei Popoli è la caduta dei Re!. Il giorno 12 gennaio segnerà…”. E così fu.

Lu vinticincu di lu misi di Jinnaru dell’anno 1848 anche Messina fece la Cosa Giusta. Sebbene “sotto il tiro” delle devastanti “cannonate continentali”, sparate dalla piazzaforte napolitana della Cittadella, nell’area falcata, il suo popolo indomito rilancia la rivolta profetica di Settembre già schiacciata nel sangue dai Borbone, insorgendo con tutte le sue forze per l’Indipendenza della Sicilia.

Ridestata dall’insurrezione palermitana del 12 gennaio e incoraggiata da quella catanese che aveva preso il controllo della città in poche ore, da Messina Eroica, in realtà, parte un segnale potente: ben presto, delegati da tutte le città siciliane confluiscono nel Comitato Insorgente costituito a Palermo. Al culmine di mezzo secolo di tentativi, sembra iniziare la “Rivoluzione perfetta”.

ll popolo messinese aveva le idee chiare, fin dall’inizio:

“La Cittadella ‘nfamia, china di cannuneri, ci azziccamu li banneri, ca vulemu la libbirtà!”. Non fu così, ma solo per il dilettantismo e la presunzione, ma in certi casi anche la vigliaccheria e la malafede del ceto politico siciliano “liberal-rivoluzionario” aristo-borghese. Molto bravi a lanciare proclami, elaborare decreti, scrivere Costituzioni… Ma le Rivoluzioni si fanno con la Forza ben organizzata, con la Diplomazia internazionale e con le Armi, attive e/o di deterrenza. Le sbagliarono tutte: la Tempesta perfetta si rivelò un Suicidio storico di cui paghiamo ancor oggi le conseguenze: il “passato che non passa”.

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10 luglio 1848, si proclama lo Statuto costituzionale del nuovo Regno di Sicilia, ispirato a quello del 1812 (poi bruciato con cinica irriconoscenza dal Borbone). La corona venne offerta a un Principe piemontese, Ferdinando Alberto Amedeo di Savoia, che la rifiutò. Lo Stato siciliano operò de facto come una monarchia costituzionale senza Re: una strana “Repubblica”! E va detto che il celebrato “Statuto albertino”, del Piemonte liberale, fu esplicitamente “ispirato” dalla Costituzione siciliana del 1848. E va detto altresì che nessuno, a Torino, in Sicilia, né altrove, auspicava la cosiddetta “unità italiana” nelle forme violente, truffaldine e coloniali…con le quali venne realizzata nel 1860-70.

L’Ottocento siciliano fu un secolo di cospirazioni, di rivolte e di rivoluzioni per l’Indipendenza dell’Isola: tutte sconfitte. Ma quella del 1848, per ragioni geopolitiche, riuscì almeno a imporsi per quindici lunghi mesi. Un Tempo liberato. E sprecato.

Che venga inscritta, sebbene in poche truffaldine righe, nella vulgata prevalente sul “Risorgimento italiano” è quantomeno offensivo: semmai avrebbe un posto d’onore nel libro mai scritto delle illusioni, dell’inconcludenza e delle occasioni perdute.

Nell’Isola, almeno a parole, quasi tutti volevano uno Stato siciliano indipendente e fraternamente confederato ai futuri e auspicati Stati italiani, nella logica “l’Italia sarà libera quando la Sicilia sarà libera”.

Ne dico una: malgrado i tanti problemi quotidiani che il Governo rivoluzionario doveva affrontare, una centuria di valorosi indipendentisti siciliani, guidata dall’irrequieto Giuseppe La Masa con “spirito di crociata”, fu inviata nel Lombardo-Veneto a combattere contro gli Austriaci. A Treviso. E va rilevato che, nei suoi primi mesi, il Governo rivoluzionario intavolò un ragionevole negoziato federalista col Re delle Due Sicilie che si arroccò – de facto – su posizioni centraliste e antisiciliane.

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Cos’era quella Sicilia, perché aveva tanta importanza?.

“Caligante di nascente zolfo è la bella isola di Trinakria”, scrisse Dante nella Commedia.

Di zolfo odora il suo sottosuolo e un Vulcano è il perno della sua identità, quotazero dell’Anima siciliana, quanto l’insularità mediterranea è vortice che attrae e accumula quel sea power, quella potenza marittima che può essere impugnata dal Popolo Siciliano o dai suoi dominatori: è solo una questione di rapporti di forza.

La Sicilia della prima metà dell’Ottocento è la “miniera del mondo”. L’industria moderna non si “accende” senza i suoi zolfi. E senza il controllo dei suoi porti.

I solfi sono necessari nella produzione dei tessuti e della polvere da sparo, oltreché, in generale, nell’industria chimica e farmaceutica, nonché in agricoltura, specie nella preziosa coltivazione della vite. Essi armano la politica delle cannoniere di Sua Maestà Britannica.

Se nel Mondo dell’Ottocento la Sicilia è la Miniera , l’Inghilterra è l’Officina. Senza gli zolfi e il salnitro dell’Isola contesa, senza la sua polvere da sparo e i suoi porti, l’Inghilterra sarebbe rimasta forse una terra di pecorai che vendono la lana ai mercanti delle Fiandre e l’accumulazione originaria realizzata dai pirati di Sua Maestà che predavano galeoni spagnoli sarebbe stata dilapidata nelle bettole di Londra e Bristol, piuttosto che incontrare la rivoluzione della forza motrice meccanica.

Se l’Isola contesa venne annessa, nel 1860, al regnucolo savojardo fu solo perché gli inglesi dovevano distruggere la terza flotta commerciale di quel Mondo, quella Duosiciliana – in vista dell’apertura del Canale di Suez – e consolidarne il controllo strategico sul sottosuolo e lo spazio marittimo. Alle massomafie tosco-padane lasciarono il bottino e l’onore della guerra reazionaria spacciata per “guerra al brigantaggio in nome della civiltà”.

All’italietta nata sgorbia dal ventre di una monarchia che parlava francese e puzzava di stalla regalarono, a sanare i suoi “debiti di guerra”, il bottino del Banco di Sicilia.

Quanto ai Borbone napoletani: non furono peggiori dei Savoja, ma il loro Regno era già consunto e corrotto: e non seppe, né poteva opporre nulla alla resistibilissima invasione “garibaldesca” del 1860. Sarebbe bastato poco per scannarli in pochi giorni!.

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In verità, il Regno delle Due Sicilie era finito nel Quarantotto: una doppia Tragedia. Fallito  – anche per l’ostilità degli stessi liberali partenopei! – ogni ragionevole negoziato col Re napolitano, inconcludente si rivelò il lavorìo diplomatico del Governo siciliano, da Londra a Parigi, da Torino a Roma; approssimativo l’armamento, miope l’intera borghesia liberale siciliana, che condannò sé stessa al “trasformismo” nell’italietta “una e fatta”: illusioni carbonare impugnate infine con abilità dalle forze mentali dell’imperialismo britannico, dai Palmerston e, soprattutto, da quel genio di Cobden.

E strabica fu anche la Santa Sede, lo Stato pontificio.

Per esempio: il cardinale Antonelli, segretario di stato del Papa “liberale” Pio IX, malgrado le sicule sperticate professioni di cattolica fede sancite nella stessa Costituzione del nostro “Regno senza Re”, attacca apertamente il governo rivoluzionario dell’Isola all’indomani della dichiarazione di decadenza della dinastia borbonica votata per acclamazione e all’unanimità dal Parlamento siciliano (13-4-1848). Certo, va detto, anche lo Stato pontificio era ormai una finzione geopolitica e la sua salvezza “napoleonide” fu infine salutata con la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione, avendo esaurito i santi ai quali vocarsi!

Ad ogni modo, ben più cinica e abile, nonché fortunata, si rivelò -nell’immediato – la diplomazia del Re napolitano Ferdinando II.

Sotto la régia e paternalistica maschera del Re bomba centralista napolitano, che massacrò a cannonate la nobile città di Messina – tradita anche dal “governo siciliano”- lasciandola poi al saccheggio dei suoi lanzichenecchi (soprattutto svizzeri e austriaci, nonché lazzaroni napoletani), sotto quella testa coronata scorreva anche un fiume di soldi dei Rothschild, otto milioni di ducati garantiti da una fideiussione dello Zar di tutte le Russie, per finanziare il difficile “riconquisto” dell’Isola ribelle. Vennero ripagati, infine, con “magnanimo sconto” dai Siciliani sconfitti (Editto di Gaeta, 28-2-1849, art.31). Guai ai vinti.

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Nella dialettica storica della Restaurazione europea, tutto si tiene. Il Quarantotto – la “Primavera dei Popoli”- fu reso possibile da una imprevista crisi alimentare e commerciale europea che ne alimentò il fuoco sociale. E si risolse in una fragile Restaurazione passando sul massacro delle barricate popolari, da Parigi a… Palermo, a Messina e soprattutto a Catania dove la resistenza armata fu totale.

Prendere appunti: la “crisi economica” venne in qualche modo risolta, con la ripresa dei traffici prodotta dal pompaggio di liquidità attraverso un complesso sistema finanziario sul quale brillava la stella geniale e manovriera dei vari Rothschild.

Il Re bomba della Napolitania, a modo suo, lo capì. I liberali siciliani -(dunque quel Governo del giovane Stato indipendente che il 25 aprile aveva riconosciuto nell’antica Triskeles, sebbene tricolorata, il suo simbolo unificante) – malgrado avessero diplomatici e “amici fidati” a Roma, Torino, Parigi, Londra…pare proprio non ne sapessero nulla. Neanche l’ombra di un Servizio di Intelligence seppero mettere in piedi! E non seppero manco capire i dispacci dell’amica diplomazia britannica, che ricevevano regolarmente. A titolo indicativo eccone uno:

14 luglio 1848. “è chiaro che una spedizione, si dice di 10 battelli a vapore, si prepara nella darsena del porto di Napoli, e che delle pratiche siano state fatte per gli approvvigionamenti; è dunque questa spedizione probabilissimamente diretta contro la Sicilia”. (Lord Napier).

In verità, lo sapevano in tanti ed “era nell’aria”: ma nulla venne predisposto per fronteggiarla. Nulla! Per non dire che “il generale Paternò e il suo amico il ministro dell’estero” giudicarono “follia gravissima… l’intraprendere tanta opera di guerra”. Non credo fossero “venduti al nemico”, come lo furono invece, appena 12 anni dopo, decine di generali e ufficiali delle Due Sicilie: i “nostri” erano solo idioti, nella loro testa la Rivoluzione aveva già vinto!

Quanto alla difesa militare del processo rivoluzionario… La “Guardia nazionale” (espressione delle fazioni dell’aristo-borghesia) era – in teoria – la più grande forza militare in campo, ma rimase invischiata nel parlamentarismo e nelle sue chiacchiere (e non senza ipotesi di un suo utilizzo antiproletario!), mentre l’esercito regolare della Sicilia indipendente, oltre a un ottimo generale, il rivoluzionario polacco Mierosławski, teneva più ufficiali che soldati: un disastro. E sprecato  – e tradito – fu il coraggio delle operaie Maestranze e delle centinaia di giovani che animarono la Rivoluzione, ricordiamo i messinesi “Camiciotti” che la Rivoluzione la volevano difendere per davvero.

Ma forse la questione si situa Altrove. La dominazione coloniale è forma determinata e specifica di un sistema di relazioni internazionale. E se questo aspetto è occultato in tempi di “pace”, lo è meno in tempi di guerra reazionaria. Guardiamo i Fatti.

La notizia dell’imponente spedizione militare della reazione borbonica – finanziata a prestito dai Rothschild – per il “riconquisto” dell’Isola ribelle giunge a Palermo “casualmente”: grazie a una missione diplomatica britannica incaricata di mettere in sicurezza la folta e brillante colonia inglese dell’Isola e il suo imponente patrimonio…smentendo un recente dispaccio della diplomazia siciliana-salutato con gioia sulle strade – nel quale si assicurava al legittimo Governo dell’Isola la protezione diplomatica di Londra e Parigi: resta il dubbio di una falsa flag necessaria a giustificare il rifiuto liberale di un vero armamento delle Maestranze operaie e delle forze popolari. E, in effetti, c’è di più.

La Francia, repubblicana e neobonapartista, aveva, in verità, offerto al Governo dell’Isola ben 12.000 uomini addestrati, un vettore formidabile che avrebbe permesso una difesa politico-militare sufficiente a ricacciare in mare i Napolitani.

L’aristo-borghesia siciliana non li volle: si temeva non tanto la “critica” di Londra (e non credo che un Mariano Stabile, onestamente filoinglese, per quanto influente avesse comunque la forza politica per imporre un “NO”) quanto piuttosto la loro saldatura politico-militare con le Maestranze operaie e il ribellismo dei ceti popolari urbani, che avrebbe trasformato la Sicilia in Repubblica e l’avrebbe consolidata sul piano diplomatico. E cos’altro sennò? Non c’è altra spiegazione: i conti tornano.

Ecco: la Rivoluzione siciliana del Quarantotto non fu sconfitta dalla Restaurazione continentale “borbonica”, né dai mercenari svizzeri (regolari!) e dai lanzichenecchi del Re napolitano: quello di Festa, Farina e Forca.

Va detto però che se i Moti cominciarono nella Sicilia urbana prima di Parigi, fu perché la “società civile” dell’Isola, del tutto inserita nel mercato mondiale e nei circuiti intellettuali europei, non solo in forme clandestine e cospiratrici, aveva maturato una propria autonoma e sincera vitalità. E’ un dato di fatto, ad onta della presunta arretratezza dell’Isola. Trovo arretrati, piuttosto, se non del tutto in malafede, gli attuali sostenitori del mito storiografico di una “Sicilia immobile e feudale”. Ma quale feudalesimo?. Quello dei feudi senza feudatari? Quello delle rendite e dei profitti capitalistici investiti nello sviluppo urbano oltreché nei “sollazzi” di una vita che di aristocratico manteneva le forme, ma di borghese aveva le biblioteche piene!.

La Costituzione inglese del 1812, che venne mediata (e non “concessa”) da lord Bentinck al partito indipendentista dei “Cronici”, non abolì alcun medioevo, semmai liberò la proprietà fondiaria gravata dai debiti che l’aristo-borghesia non poteva più onorare. (…) Una Costituzione concessa con una mano e stracciata con l’altra, quando il pericolo napoleonico venne meno e l’Ordine di Vienna restaurò, illudendosi, le sue carte geopolitiche.

***

Ad ogni modo, chi si attarda nel voler circoscrivere la Rivoluzione siciliana del Quarantotto alla cospirazione di ristrette Sette carbonare non ha capito nulla dell’Isola e della sua complessa natura sociale.

La Sicilia, a modo suo, è una Nazione. Va da sé che nella sua forma positiva aristo-borghese e liberale si è suicidata nel 1848 e nel trasformismo, a tratti ingenuo, che dodici anni dopo vedrà molti dei suoi reduci fiancheggiare l’invasione anglo-piemontese.

Già nel febbraio del 1848 un coacervo di salotti entusiasti, che per comodità definiamo “partito liberale”, si impadronì dell’insurrezione di popolo apportandovi certo Tradizione giuridico-costituzionale e capacità retorica, ma anche titubanze, paure e confusione: e fecero tutto tranne quello che serviva veramente. Usciti dalle loro erudite conventicole convocarono e tennero elezioni parlamentari regolari, promulgarono una Costituzione modernissima, leggi e decreti ben formulati e chiacchiere a non finire.

Cercarono perfino un Re costituzionale al quale offrire in esclusiva la sovranità siciliana: ma manco i Savoja albertini, divenuti “statutari” in reazione autoconservativa rispetto ai Fatti Siciliani, ne vollero sapere.

Insomma, furono poco più di una maniàta di gattoparduzzi miopi, parolai e sconclusionati, perfino tragicamente simpatici nella loro dotta inettitudine vero precursore del trasformismo illusorio che ne vide, diversi esemplari, preparare e fiancheggiare, in seguito, l’invasione anglo-piemontese e garibaldesca, permutandosi, i più “rinisciuti”, nel cinismo che nasce dalla frustrazione, perfino in italianissimi mostri sanguinari come Francesco Crispi, il futuro massacratore dei Fasci siciliani dei lavoratori, l’ipocrita mandante politico, per dirne una, del Natale di Sangue di Lercara Friddi, nonché improbabile conquistatore coloniale di terre africane. Un grande statista, degno dell’italietta Una e Fatta e del suo imperialismo straccione, che tenne a battesimo. Fasci siciliani dei lavoratori che sorsero, alla fine dell’Ottocento, come esito della lunga maturazione sociale cominciata nel Quarantotto, una Rivoluzione indipendentista infine difesa solo dalle Maestranze operaie e dalla gente dei quartieri popolari: cioè da chi non aveva altro da perdere che le proprie catene.

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In quell’eroica resistenza finale emersero straordinarie e generose figure di miliziani popolari. A Messina ricordiamo i giovani Camiciotti, ma anche Nino Lanzetta e Rosa Donato: si erano procurati un cannone e una scorta di munizioni. E lo piazzarono infine al centro di una delle tante barricate popolari, nell’ultima resistenza. Quando i “napolitani” stavano per espugnarla, Rosa butta la miccia sulle munizioni e fa saltare tutti in aria. Creduta morta viene lasciata per terra. Riesce invece a fuggire e a riprendersi, trasferendosi a Palermo. Si sa che fece in seguito ritorno a Messina, venne arrestata, forse per fatti minori, scontata la pena visse di elemosina e dimenticata da tutti: ventu, malanova e piscistoccu scadutu… Viva Rosa!.

In quindici mesi i “liberali chiacchieroni” non trovarono manco il Tempo Politico per liberare la Cittadella , malgrado perfino a Reggio Calabria non si aspettasse altro che un chiaro segnale… Il semplice provarci, per dirla alla Stefano D’Arrigo (Horcynus Orca), avrebbe indotto il Re bomba a più miti consigli e avrebbe se non altro risparmiato all’eroica Messina il martirio finale, che il La Masa e i suoi “centurioni” pare si guardassero imbelli dalle montagne, fuori-tiro: ecco, i gattoparduzzi “liberali” giocarono alla “Rivoluzione” restando sempre fuori-tiro: negoziando, nei casi più nobili e via-Londra, un salvacondotto per Malta, Torino, Londra…, almeno i pochi che vennero esclusi dall’Amnistia.

La Nazione Siciliana che verrà sarà operaia e solidale. O non sarà. Certo è che i Camiciotti, i Nino Lanzetta e le Rosa Donato, oggi, hanno imparato a leggere e scrivere: sebbene alla repressione aperta si siano sostituiti un Ascensore sociale tricolorato e l’emigrazione massiccia e pilotata di intere generazioni…e senza alcun “salvacondotto”. Ingegneria sociale di uno Spettacolo neocoloniale costruito, nel “lungo periodo”, sulle macerie politiche del Quarantotto. Un altro “passato che non passa”.

Foto tratta da Tempostretto

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