Il ‘pizzino’ di Matteo Messina Denaro sullo Stato italiano ‘nemico’ e sulla Sicilia

3 marzo 2023
  • La presentazione della mafia come fenomeno di ribellione verso lo Stato non è una novità. Ma vanno fatte alcune precisazioni
  • L’immancabile richiamo ai Beati Paoli e a chi ne raccontò per primo le gesta: il marchese di Villabianca
  • Il malinteso senso della giustizia che si trova nelle prime pagine del romanzo Il Padrino e la storia di Giovanni Corrao, ex garibaldino ucciso dai mafiosi perché aveva cominciato a dare fastidio allo Stato italiano che, appena nato, tiranneggiava la Sicilia e il Sud

La presentazione della mafia come fenomeno di ribellione verso lo Stato non è una novità. Ma vanno fatte alcune precisazioni

Tra i ‘pizzini’ trovati nell’abitazione della sorella del capo mafia, Matteo Messina Denaro, Rosalia – arrestata con l’accusa di associazione mafiosa, c’è n’è uno particolarmente suggestivo che merita qualche riflessione. E’ uno scritto che risale al 15 Dicembre del 2013 che noi riprendiamo da TGCOM24: “Essere incriminati di mafiosità, arrivati a questo punto lo ritengo un onore scriveva Matteo Messina Denaro ai suoi familiari -. Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie. Trattati come se non fossimo della razza umana. Siamo diventati un’etnia da cancellare. Eppure, siamo figli di questa terra di Sicilia, stanchi di essere sopraffatti da uno Stato prima piemontese e poi romano che non riconosciamo. Siamo siciliani e tali volevamo restare… Hanno costruito una grande bugia per il popolo. Noi il male, loro il bene. Hanno affossato la nostra terra con questa bugia. Ogni volta che c’è un nuovo arresto si allarga l’albo degli uomini e delle donne che soffrono per questa terra. Si entra a far parte di una comunità che dimostra di non lasciare passare l’insulto, l’infamia, l’oppressione, la violenza. Questo siamo e un giorno sono convinto che tutto ci sarà riconosciuto e la storia ci restituirà quel che ci ha tolto la vita”. L’interpretazione-presentazione della mafia come fenomeno di ribellione verso lo Stato non è una novità. E’ una storia vecchia che si sostanzia in una serie di malintesi: un malinteso senso dell’onore, un malinteso senso dell’amicizia e un malinteso senso di rivolta contro i potenti e i prepotenti. In effetti, prima del 1860, l’idea di un’organizzazione segreta che combatte contro il potere visto come ‘nemico’ della Sicilia e dei siciliani, c’è stata. Nasce così la mafia siciliana?

 

L’immancabile richiamo ai Beati Paoli e a chi ne raccontò per primo le gesta: il marchese di Villabianca

A questa domanda non sappiamo rispondere. Certo è che nella Storia della mafia di Salvatore Francesco Romano, storico di polso, tale argomento viene trattato. Inevitabile, quando si parla di un’organizzazione segreta di siciliani che si batteva contro i prepotenti, è il riferimento ai Beati Paoli. I Beati Paoli è il titolo di un libro dato alle stampe nel 1909 da Luigi Natoli con lo pseudonimo di Wiliam Galt. Volume ripubblicato nel 1971 dalla casa editrice Flaccovio. Prima di Luigi Natoli – precisamente nel 1836 – la storia è stata raccontata da Vincenzo Linares nel periodico palermitano Il Vapore. In realtà, chi ha raccontato per primo i Beati Paoli è stato Francesco Maria Emanuele Gaetani marchese di Villabianca. Nato a Palermo il 12 Marzo 1720 e morto il 6 Febbraio 1802, il marchese di Villabianca, carattere piuttosto spigoloso, occupò cariche importanti e fu un grande appassionato di storia della Sicilia e acuto osservatore dei fatti che passavano sotto i suoi occhi: accadimenti che raccontava con meticolosità. A lui si deve la tesi della nascita dei Beati Paoli come reazione dei siciliani contro le prepotenze della dominazione normanna. Come si può notare, siamo molto lontani nel tempo, se è vero che i Normanni arrivarono nella nostra Isola nel 1061 per finire la loro avventura siciliana nel 1198. Bastano le testimonianze del marchese di Villabianca per dare per vera l’esistenza della setta dei Beati Paoli? Alcuni sostengono di sì, altri di no. Il marchese di Villabianca chiamava i Beati Paoli, o i successori di questa setta, “vendicosi”. Secondo questo particolare scrittore siciliano, i componenti di questa setta si riunivano a Palermo dopo la mezzanotte in gran segreto. Il luogo dove si davano appuntamento erano le cripte sotterranee del quartiere del Capo. Erano nobili? No, perché spesso i nobili siciliani erano capricciosi, violenti e prepotenti. Non erano tutti così ma alcuni di loro erano così. E questi ultimi ogni tanto venivano ‘bastonati’ dai Beati Paoli. I Beati Paoli – e siamo sempre tra storia e leggenda – erano, come si direbbe oggi, espressione della media borghesia che provava, con metodi non esattamente legali, a ristabilire la giustizia.

 

Il malinteso senso della giustizia che si trova nelle prime pagine del romanzo Il Padrino e la storia di Giovanni Corrao, ex garibaldino ucciso dai mafiosi perché aveva cominciato a dare fastidio allo Stato italiano che, appena nato, tiranneggiava la Sicilia e il Sud

Una descrizione di questo malinteso senso della giustizia lo ritroviamo nelle prima pagine de Il Padrino, il celebre romanzo di Mario Puzo. Dove il personaggio Amerigo Bonasera si presenta dal Padrino per chiedere quella giustizia che lo Stato americano gli aveva negato. Alcuni giovani, figli di personaggi altolocati, avevano oltraggiato la figlia di Amerigo Bonasera e i giudici, ‘ammanigliati’ con i genitori dei giovani autori dell’oltraggio, erano stati lasciati impuniti. A impartire una severa punizione a questi giovani intemperanti e violenti – e ai loro genitori potenti e disonesti – penseranno gli uomini del Padrino, che ne approfitterà per dare una lezione di vita al padre della ragazza: della serie, non è dallo Stato che ti devi recare per avere giustizia, perché se gli autori dell’ingiustizia sono potenti la faranno franca. Discorso che non fa una grinza, perché è ancora così. Il problema è che la giustizia del Padrino non si può sostituire alla giustizia dello Stato, perché si creano malintesi e ‘casini’. Insomma, la giustizia degli uomini, anche se qualche volta presenta delle falle, non può essere gestita dalla mafia. Tornando alle parole del ‘pizzino’ di Matteo Messina Denaro, va fatta un’ulteriore precisazione che abbiamo accennato all’inizio: prima del 1860, quando la mafia era ‘fuori’ dallo Stato, la ribellione contro lo Stato ci poteva stare. Ma nel 1860, con l’avvento dell’unità d’Italia, la mafia entra dentro lo Stato italiano. Emblematica la storia di Giovanni Corrao, raccontata per I Nuovi Vespri in modo magistrale da Ignazio Coppola. Giovanni Corrao era stato un garibaldino della prima ora. Di estrazione popolare, Giovanni Corrao era un combattente valoroso. Ma era anche un uomo molto intelligente. E infatti, nel 1863, aveva capito che il Risorgimento, in Sicilia, era stato un grande imbroglio in danno della Sicilia e dei siciliani. Meditava qualcosa? A quanto pare sì. E fu la mafia ad assassinarlo, mafia che già allora lavorava per lo Stato italiano appena nato.

Foto tratta da Il Fatto Quotidiano 

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