La mafia siciliana al tempo del Borbone: c’era, era contro lo Stato napoletano e godeva della stima degli umili e dei poveri

25 agosto 2021
  • La ristampa del celebre volume ‘Nel Regno della Mafia’ di Napoleone Colajanni ci dà l’occasione per una riflessione sulla mafia durante il Regno delle Due Sicilie
  • La lettera del Procuratore del Re a Trapani, Pietro Calà Ulloa, al Ministro di Grazia e Giustizia di Napoli nel 1838 
  • La mafia durante la presenza del Borbone in Sicilia spiegata da Napoleone Colajanni
  • Il senso della giustizia del protagonista del romanzo ‘Il Padrino’ di Mario Puzo
  • Tutto cambia con la presenza di Garibaldi in Sicilia nel 1860. Il post di Briganti

La ristampa del celebre volume ‘Nel Regno della Mafia’ di Napoleone Colajanni ci dà l’occasione per una riflessione sulla mafia durante il Regno delle Due Sicilie

Una presentazione della ristampa del noto volume Nel regno della Mafia di Napoleone Colajanni in occasione del centenario della sua morte ci dà l’occasione per affrontare un tema particolare: il ruolo della mafia durante negli anni in cui la nostra Isola faceva parte del Regno delle Due Sicilie. Il giudice Rocco Chinnici, che conosceva bene storia e mondo della mafia, partiva da un assunto: “Prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione, non era mai esistita in Sicilia… La mafia … nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Partendo da questa posizione netta il nostro articolo dovrebbe già essere finito. In realtà, pur avendo Chinnici un buona parte ragione, nel senso che la mafia presente nello Stato comincia proprio con la nascita dell’Italia, tra il 1860 e il 1861, c’è un aspetto della mafia, precedente alla vera o presunta unità d’Italia, che merita di essere approfondita. Proviamo ad affrontare tale argomento.

La lettera del Procuratore del Re a Trapani, Pietro Calà Ulloa, al Ministro di Grazia e Giustizia di Napoli nel 1838 

Intanto cominciamo col dire che, su tale questione, I Nuovi Vespri qualcosa l’ha già pubblicato. Ci riferiamo, in particolare, a un passo di una lettera che Pietrò Calà Ulloa, nel 1838, all’epoca Procuratore del Re a Trapani, scrisse a proposito della mafia, già presente allora in Sicilia, al Minitro di Grazia e Giustizia di Napoli: “… Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero dei reati! Il popolò è venuto a tacita convenzione coi rei. Così come accadono i furti escono, i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti…”. Insomma, la mafia c’era già allora, ma come sottolinea Pietro Calà Ulloa era “senza colore o scopo politico”.

La mafia durante la presenza del Borbone in Sicilia spiegata da Napoleone Colajanni

Nella presentazione della ristampa de, libro di Napoleone Colajanni, pubblicata su SOLOLIBRI.NET, l’autore dell’articolo, Aldo Scimone, cita una considerazione di Colajanni che, a nostro avviso, è illuminante: “La mafia in Sicilia sotto i Borboni divenne l’unico mezzo per gli umili, pei poveri, per lavoratori per essere temuti e rispettati, per ottenere la forma di giustizia ch’era compatibile in quelle condizioni e che non era possibile ottenere con forme legali. E alla mafia si dettero tutti i ribelli, tutti gli offesi, tutte le vittime […]. Su questo sfondo di giustizia sociale che servì a creare lo spirito della mafia e dette corpo alle sue manifestazioni s’intende che si innestarono tutte le tendenze perverse, tutte le passioni losche, tutte le cause e gli incidenti della delinquenza volgare. Ma nell’insieme essa nacque e fu mantenuta dalla generale diffidenza contro il governo; dalla sua impotenza e dal malvolere nel rendere giustizia, dalla coscienza profonda che l’esperienza aveva dato agli uomini che la giustizia bisognava farsela da sé e non sperarla dai poteri pubblici”. La mafia come reazione a uno Stato – in questo caso lo Stato rappresentato in Sicilia dal Borbone – che non garantiva giustizia ai cittadini, i quali la giustizia la cercavano in altri modi: o facendosi giustizia da sé, o rivolgendosi alle persone che in lingua siciliana si definiscono ‘ntise’, ovvero persone che godono del rispetto generale, in parte perché si sostituiscono alla giustizia in parte perché sono delinquenti che godono di grande fama, anche fama di imprendibili, sia perché sono abili, sia perché sono protetti dallo stesso Stato.

Il senso della giustizia del protagonista del romanzo ‘Il Padrino’ di Mario Puzo

Si potrebbe pensare al mafioso che ‘amministra’ la giustizia in uno Stato che non c’è soltanto al tempo della Sicilia sotto il Borbone; invece non è così, o quanto meno non è sempre così. Nel romanzo di Mario Puzo Il Padrino, un cittadino che ha subito un’ingiustizia dallo Stato americano si rivolge a Don Vito Corleone per avere giustizia. E’ successo che dei ragazzi, figli di persone importanti, si sono approfittati, con la violenza, della figlia dell’uomo che si reca dal Padrino per chiedere giustizia. Questo perché il tribunale americano ha giudicato con molta clemenza i due ragazzi figli di uomini potenti. Il papà della ragazza avrà giustizia, non senza una preventiva paternale di Don Vito Corleone, che gli ricorda che nell’ambiente in cui si trovano è lui, Il Padrino, che può assicurare giustizia. Questo malinteso senso della giustizia viene illustrato in modo molto chiaro dallo storico Salvatore Francesco Romano nel volume Storia della mafia.

Tutto cambia con la presenza di Garibaldi in Sicilia nel 1860. Il post di Briganti

Tutto cambia con la cosiddetta unificazione italiana. Argomento che abbiamo trattato lo scorso 1 Luglio, riprendendo un post dalla pagina Facebook di Briganti: “Se nel 1861 l’Italia non fosse stata unificata sotto i Savoia, la mafia non si sarebbe probabilmente sviluppata, almeno non per come la conosciamo noi. Il motivo? Non si sarebbe verificata quella graduale marginalizzazione del Sud Italia (trasformato in realtà periferica dalle politiche piemontesi), che lasciò ai mafiosi un’ampia libertà di azione. Prima dell’unificazione, infatti, la mafia era un’accozzaglia di criminali che agivano per conto di baroni e ricchi possidenti locali. Poi, con lo sbarco dei mille in Sicilia, molti mafiosi ingrossarono le file delle Camicie rosse di facendo da scorta a quest’ultimo. Il passo successivo della mafia fu quello di penetrare nelle pieghe dello Stato, sfruttando il vuoto di potere seguito alla cacciata dei Borbone dalle terre del Sud. Già dal 1861 parecchi mafiosi si infiltrarono nei governi cittadini e non solo, finché il fenomeno assunse dimensioni tali da porsi quale alternativa alle stesse istituzioni nazionali”. Con questa illuminante descrizione della mafia nel passaggio della Sicilia dal Borbone ai Savoia termina la nostra riflessione: con il Borbone la mafia era contro lo Stato e fuori dallo Stato; con l’avvento della vera o presunta unificazione italiana la mafia entra nelle pieghe del nascente Stato, con sfumature che cambiano a seconda del momento storico. Se siete interessati ad approfondire il momento del passaggio della mafia dal Borbone all’Italia appena unificata potete leggere questo articolo che parte proprio dal post di Briganti. Intanto speriamo di essere riusciti a dire qualcosa in più della mafia siciliana al tempo del Borbone.

Foto tratta da Orizzonti Politici

 

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