“Pari ca cci passò Casa Savoia”. I Savoia arrivarono in Sicilia nel 1713, lasciando un brutto ricordo/ Storia della Sicilia del professore Massimo Costa 32

6 giugno 2021
  • Dopo la morte di Carlo II il partito “austriaco” e quello “francese” sulle spoglie dell’Impero spagnolo
  • La Sicilia acclama Filippo di Borbone, ma la Guerra di Successione spagnola non arriva mai dalle nostre parti
  • Il Trattato di Utrecht (1713), per iniziativa della Regina Anna d’Inghilterra, attribuisce la Sicilia a Vittorio Amedeo di Savoia – I Siciliani accettano
  • Negli ultimi mesi del viceregno spagnolo nasce una contesa col papato che viene lasciata come eredità al nuovo Governo
  • Ma se ne erano veramente andati gli Spagnoli?
  • Arriva la Corte Piemontese a Palermo tra le speranze dei Siciliani di avere finalmente un re proprio…
  • Vittorio Amedeo presiede personalmente il Parlamento e chiede riforme epocali
  • L’imbarazzo di Vittorio Amedeo in un Regno più grande e ricco del suo Piemonte e la sua scelta rinunciataria di ritornare a Torino
  • Il Viceré Maffei, nonostante la buona volontà, è trascinato in una guerra di religione contro la Chiesa di Roma che vuole strappare alla Sicilia l’Apostolica Legazìa
  • Gli errori dei Piemontesi e l’ostilità crescente dei Siciliani

Dopo la morte di Carlo II il partito “austriaco” e quello “francese” sulle spoglie dell’Impero spagnolo

La Guerra di Successione Spagnola tenne impegnata l’Europa (e il mondo coloniale) per ben 13 anni, divisa tra il partito austriaco (quelli che volevano la corona spagnola fosse retrocessa al ramo austriaco degli Asburgo) sostenuto dall’Inghilterra, nella sua prima espansione coloniale, e il partito francese (che voleva attribuire la detta corona al nipote dell’ultimo re di Spagna, Filippo di Borbone, figlio di una sorella). Curiosamente, al momento, Filippo era “Duca d’Angiò”, cioè signore di quella stessa regione da cui era venuto secoli prima Carlo d’Angiò. Benché il ricordo della cacciata dei Francesi fosse divenuto ormai cultura popolare, nell’attualità l’ostilità verso gli stessi e l’attaccamento agli Asburgo non era a quanto pare poi così sentito al momento.

La Sicilia acclama Filippo di Borbone, ma la Guerra di Successione spagnola non arriva mai dalle nostre parti

Alla morte di re Carlo, il re sole, Luigi XIV, occupa subito la Spagna incoronando il nipote. In Sicilia re Filippo IV Borbone (V in Spagna) è immediatamente riconosciuto dall’ultimo viceré asburgico, il Veraguas, che però è prontamente sostituito per timore di simpatie con la vecchia dinastia. Sulle prime sembra che non sia cambiato nulla rispetto al recente passato. La Sicilia è interessata solo marginalmente da questa guerra. Gli unici eventi degni di rilievo sono alcune simpatie per gli Asburgo (ormai solo d’Austria), inevitabili dopo quasi due secoli di abitudine, le insofferenze delle maestranze palermitane per i soldati francesi e irlandesi sbarcati in Sicilia, e una continua difesa delle coste da una invasione che però non arrivò mai. La carica viceregia vide alcuni rapidi avvicendamenti durante la guerra fino al 1707, per poi stabilizzarsi su Carlo Antonio Spinola, marchese di Los Balbases. Ci furono – è vero – alcune congiure filo-asburgiche, come quella del prete Cappellani o di Giovanni Mauro da Giuliana, ma furono presto sventate e isolate, senza seguito come erano. L’unico vero disagio fu l’interruzione dei commerci, per l’insicurezza dei mari, che causava un generale declino economico, nonché una rarefazione nella convocazione dei regolari parlamenti, dovuto alle difficoltà di guerra: nel 1702, poi nel 1707, dopo ben cinque anni, e poi mai più durante tutta la guerra.

Il Trattato di Utrecht (1713), per iniziativa della Regina Anna d’Inghilterra, attribuisce la Sicilia a Vittorio Amedeo di Savoia – I Siciliani accettano

Alla fine, con il Trattato di Utrecht (1713), i Borbone possono sedere in Spagna, ma devono concessioni agli inglesi nelle colonie, i possedimenti italiani e belgi all’Austria, la Sicilia al piccolo Piemonte dei Savoia, che si era saputo destreggiare tra Francia e Austria con un capovolgimento di alleanze al momento opportuno. La regina Anna d’Inghilterra, artefice di questo accordo, sembrò sensibile, incredibilmente, alle ragioni costituzionali dei Siciliani. In teoria, all’estinzione della casa regnante sarebbe spettato al Parlamento decidere chi dovesse essere re. Gli emissari della regina furono sorpresi, arrivati a Palermo, di notare che l’aristocrazia, dopo secoli di congiure indipendentiste sedate, era completamente intorpidita ed acquiescente alla corona spagnola. In pratica davano più importanza all’Unione Perpetua decretata da Re Giovanni nel 1460 (peraltro traslata alla Castiglia dall’Aragona) che non all’antica Costituzione del Regno. La risposta unanime fu che non dipendeva da loro, e che sarebbero stati lieti di accogliere un nuovo re solo se quello considerato a tutti gli effetti legittimo, Filippo V (IV in Sicilia), avesse ceduto i propri diritti. La decadenza dell’ultima fase della corona spagnola sembrava aver condotto la Sicilia a decadere a puro “oggetto” e non più “soggetto” della politica europea. Per un altro verso, però, il cambio di quattro dinastie in un terzo di secolo, avrebbe scosso i Siciliani dal loro secolare torpore ed avrebbe ridato vigore alla coscienza di essere uno Stato e una Nazione.

Negli ultimi mesi del viceregno spagnolo nasce una contesa col papato che viene lasciata come eredità al nuovo Governo

Unico evento di nota di questa ultima convulsa fase della unione con la Spagna, fu l’esplosione di una controversia tra la Corona e la Santa Sede. Per una questione del tutto secondaria, il Vescovo di Lipari ricusò la giurisdizione del Tribunale della Monarchia, con il quale la Chiesa di Sicilia era del tutto autonoma organizzativamente da quella universale, appellandosi al Papa. Il papa, Benedetto XI, non vedeva l’ora di sbarazzarsi di questo istituto concesso ai tempi dei Normanni e che non aveva mai potuto debellare. Ne iniziò una contesa che sarebbe esplosa nelle mani del nuovo re di Sicilia, Vittorio Amedeo di Savoia.

Ma se ne erano veramente andati gli Spagnoli?

Il Trattato di Utrecht non recideva del tutto i legami tra Sicilia e Spagna. Era come se l’Unione perpetua fosse stata messa solo tra parentesi. Si riservò Filippo di Borbone il diritto di recesso nel caso in cui Vittorio Amedeo non avesse avuto eredi diretti. Mantenne l’aristocrazia spagnola la Contea di Modica, che ora si sentiva ancora più indipendente dal Regno di Sicilia di cui pure faceva parte. Restava il Tribunale dell’Inquisizione spagnola.

Arriva la Corte Piemontese a Palermo tra le speranze dei Siciliani di avere finalmente un re proprio…

Vittorio Amedeo II sbarcò con la regina consorte Anna d’Orléans a Palermo, e ci fu un pacifico passaggio di consegne tra l’ultimo viceré spagnolo, il marchese di Los Balbases, e quello che veniva percepito come un re proprio. C’era nell’Isola un fermento nuovo; si percepiva che stava finendo un’epoca e se ne stava aprendo un’altra. Non c’erano incoronazioni a Palermo dai tempi dell’imperatore Carlo V. Si fecero lavori al Palazzo Reale, per renderlo degno di accogliere un re in carne e ossa. Le illusioni nazionaliste, purtroppo, non sarebbero durate a lungo. Giusto quando venne Vittorio Amedeo si trovava a Palermo il Gran Maestro di Malta, che fece il ligio omaggio feudale, per l’unica volta direttamente nelle mani del re e non di un viceré. La Sicilia per i Savoia, in confronto ai loro domini ereditari, non era certo un piccolo possedimento. Era una corona regale, di livello più alto del ducato-signorìa-contea di Savoia-Piemonte-Nizza, ma soprattutto era, in confronto al piccolo e povero Piemonte, una vera Nazione, più grande da un punto di vista demografico, geografico ed economico dello stesso paese d’origine del nuovo re. Nonostante i residui di altissima sovranità nominale, nella sostanza la Sicilia si separava dalla Spagna dopo 300 anni circa di unione personale. Sembrava che fossero coronati i sogni dei Siciliani di avere un re proprio. Nominalmente Re Vittorio considerava pertinenza della sua nuova corona anche quelle di Cipro e Gerusalemme, cadute da secoli in mano islamica, per l’antica eredità di Federico di Hohenstaufen. Curiosamente, queste eredità siciliana in Terra Santa, i Savoia se la sarebbero portata dietro anche quando poi avrebbero perso la Sicilia, mentre l’avrebbero rivendicata anche i Borbone di Napoli, quali successori nel Regno di Sicilia, come si vedrà appresso.

Vittorio Amedeo presiede personalmente il Parlamento e chiede riforme epocali

Vittorio Amedeo effettivamente trovava un regno mal funzionante da un punto di vista amministrativo, impoverito dalla guerra, dal malcostume, dall’assenza di cure di un re proprio, e non si può negare una certa buona volontà, almeno all’inizio, nel risollevarne le sorti.
Convocò e presiedette personalmente il Parlamento, ciò che non avveniva dai tempi di Carlo V d’Asburgo e stabilmente dai tempi dei re aragonesi. Il Parlamento del 1713, convocato dopo anni di paralisi costituzionale, ebbe una solennità unica, ed anche, finalmente, un carattere politico. Vittorio Amedeo non chiese soldi, anche se fu premura delle Camere regolare adeguatamente i donativi necessari, ma riforme legislative, nel campo della giustizia, del commercio, della sicurezza e della cultura.

L’imbarazzo di Vittorio Amedeo in un Regno più grande e ricco del suo Piemonte e la sua scelta rinunciataria di ritornare a Torino

Nonostante ciò, tra Vittorio Amedeo, con la sua corte sabauda al seguito, e la Sicilia nel suo complesso, non scattò però molta simpatia. Il Re scoprì con un certo disappunto di essere diventato re di un regno costituzionale dove il Parlamento e i Giudici regnicoli praticamente contavano almeno quanto lui. Scoprì con non minore disappunto che le grandi famiglie nobiliari più in vista della Sicilia superavano in ricchezza non solo tutta la piccola nobiltà sabauda e piemontese, ma lo stesso re in persona. In più, l’aristocrazia siciliana, ma anche le città gelose dei loro privilegi, si mostravano ostili ad ogni tentativo di riformare un sistema che nel tempo si era come cristallizzato. Girò il Regno per un anno intero, durante il quale rimosse i provvedimenti più punitivi contro la città di Messina, poi prese la decisione di lasciarlo, e di mantenere la propria residenza a Torino, dove si sentiva più sicuro, affidando come sempre la Sicilia alle cure di un Viceré, il conte Maffei, esattamente come avevano fatto gli Spagnoli, lasciando quindi immutata la Costituzione dell’Isola. La scelta di Vittorio Amedeo fu forse troppo rinunciataria. Se avesse accettato la scommessa di regnare sull’isola mediterranea, trattando al contrario il Piemonte come un remoto possedimento, avrebbe avuto davanti potenzialità infinite per creare uno stato ricco e florido che avrebbe potuto giocare un ruolo di primo piano nell’Europa e nel Mediterraneo di quei tempi. In ogni caso i Siciliani si sentirono umiliati e traditi da questa scelta: essere viceregno della potente Spagna era una cosa, essere viceregno degli avidi e “poveracci” piemontesi era considerato un affronto. Il rapporto si logorò e, alla lunga, Vittorio Amedeo non avrebbe potuto regnare contemporaneamente su due stati tanto diversi e lontani.

Il Viceré Maffei, nonostante la buona volontà, è trascinato in una guerra di religione contro la Chiesa di Roma che vuole strappare alla Sicilia l’Apostolica Legazìa

Anche se il viceré Maffei cercò di dedicarsi alle riforme, il suo fu logorato, per non dire travolto dalla contesa con la Santa Sede (nata nel 1712 sotto i Borbone e passata alla storia come “controversa liparitana”) che stava cogliendo un piccolo pretesto per revocare la mai sopportata Apostolica Legazìa. Lo Stato e la Chiesa arrivarono a uno scontro frontale, con la Chiesa siciliana divisa tra la fedeltà al Papa e quella al re, con scomuniche e interdetti. Vittorio Amedeo aveva incaricato una “Giunta” per questo compito speciale, che si muoveva fuori dalle direttive del Maffei, e che operava con tanta crudeltà, e sulla base di semplici delazioni, che finì per alienare del tutto le simpatie verso la nuova dinastia. Questa guerra, diplomatica e religiosa, logorò il re sabaudo e si sarebbe composta solo molti anni dopo (1728), con la sostanziale vittoria delle ragioni dell’Autonomia della Chiesa siciliana, fatti salvi alcuni abusi e alcuni limiti alla giurisdizione del “Giudice della Monarchia”; limitazioni che furono dovute dare come “contentino” alla S. Sede che usciva politicamente sconfitta da questo lungo contenzioso. Ma al momento il Regno era nella bufera.

Gli errori dei Piemontesi e l’ostilità crescente dei Siciliani

Altri ne ebbe con la Spagna, che conservava con i Cabrera la Contea di Modica, considerata quasi uno stato indipendente e quindi non soggetto alle leggi del Regno. Vittorio Amedeo poi fece i suoi di errori, restringendo i margini di autonomia del Viceré, “proprietario” soltanto di nome, giacché soggetto a direttive strette che venivano da Torino, e facendo cadere la riserva delle principali magistrature del Regno a favore dei Siciliani. Con piemontesi e savoiardi ai vertici dello Stato, i Siciliani ebbero la sensazione tangibile di essere stati ridotti a provincia, da un paese più piccolo e più povero del loro per giunta. Il programma di riforme che Vittorio Amedeo aveva promesso in Parlamento non poté in pratica neanche iniziare. Alla fine, quando tornano le armi spagnole, i Siciliani li acclamano come restauratori di un governo legittimo. Da questa debolezza e impopolarità trasse profitto il governo spagnolo. Quando, solo 5 anni dopo, nel 1718, Filippo IV, guidato dal potente cardinale Alberoni, dopo aver strappato senza combattere la Sardegna agli austriaci, fece sbarcare le sue truppe a Palermo, queste furono accolte con giubilo dai Siciliani. Il viceré sabaudo, preso di sorpresa, dovette rifugiarsi nell’interno, a Caltanissetta, e quando anche questa si rivelò indifendibile, a Siracusa, mantenendo solo poche piazzeforti rifornibili dal mare, mentre in tutta la Sicilia la restaurazione borbonica veniva vissuta come un ritorno ad un governo pienamente legittimo in unione con la Spagna. Il Marchese de Lede, incaricato della spedizione, fu nominato viceré. Sotto di lui non si risolse la questione con la S. Sede, ma sciolse la “Giunta” e i rapporti cominciarono a distendersi.

Tratto da BENVENUTO NELLA TERRA IBLEA

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