Sicilia del ‘600, storia di Giuseppe D’Alesi, il rivoluzionario / Storia della Sicilia del professore Massimo Costa 30

23 maggio 2021
  • Tutta la Sicilia insorge e si portano avanti riforme democratiche
  • La seconda rivolta, più radicale, del D’Alesi, finisce però con la Restaurazione
  • La Rivolta di Palermo accentua il dualismo con Messina
  • Un’ondata “repubblicana” e anti-aristocratica sedata nel sangue
  • Perché non si arrivò ad avere un Cromwell siculo?
  • Si fa sentire anche l’indipendentismo monarchico, ma la Corona spagnola prevale ancora
  • Sedate le rivolte, accelera il declino istituzionale

di Massimo Costa

Tutta la Sicilia insorge e si portano avanti riforme democratiche

Sull’esempio di Palermo tutta la Sicilia insorse, più o meno allo stesso modo: dappertutto furono ridotte le gabelle, ci furono disordini e il popolo pretese e ottenne, in vario grado, di partecipare alle amministrazioni municipali. Solo Messina, in chiave antipalermitana, e forse perché aveva sperimentato e superato già questa crisi sociale, faceva professioni di fedeltà alla corona e al viceré, invitandolo a stabilirsi da loro. La Sicilia del XVII secolo stava dimostrando di essere molto più moderna della stessa Spagna cui era legata e tutt’altro che quel paese retrogrado che la storiografia tradizionale ci consegna. Le conquiste politiche furono durature, e la crisi finanziaria si avviò ad essere colmata a spese dei più ricchi borghesi e dei nobili. A Palermo furono istituite gabelle che colpivano finalmente i ceti superiori, mentre il potere dei Consoli era tale che la nobiltà dovette accettare la redistribuzione del reddito che ne derivava.
Questa prima rivolta e le sue conquiste, proprio perché moderate e guidate dalla borghesia delle arti e mestieri, si rivelarono appunto durature.

La seconda rivolta, più radicale, del D’Alesi, finisce però con la Restaurazione

Non così la seconda fase della rivolta, nel 1647, guidata dai ceti più bassi e dal popolino. La causa scatenante fu la rivolta di Masaniello a Napoli, che galvanizzò il partito “popolare”. A capo di questa si mise un artigiano, Giuseppe D’Alesi, che si fece nominare “Capitano Generale del Popolo” e che tenne per qualche tempo in ostaggio istituzioni municipali e governative. Un governo così improvvisato, però, non poteva che degenerare nel dispotismo personale e nella mancanza di visione politica. Da un lato il D’Alesi si fece nominare sindaco “a vita” di Palermo, dall’altra concesse al viceré di tornare al Castello a Mare, non avendo il coraggio o la visione di opporsi alla corona spagnola. Non fu difficile così al pavido viceré di Los Velez di trovare appoggio nei nobili e, questa volta, anche nelle corporazioni, che si sbarazzarono di questo ingombrante capopolo decapitandolo e rimettendo l’ordine. Non fu altrettanto facile riportare in genere l’ordine a Palermo e soprattutto nei suoi conti, ma il peggio era passato. Morto il Los Velez, per qualche anno la Sicilia fu retta dalla mano energica del Cardinal Trivulzio. Questi da un lato continuò con le concessioni ai ceti inferiori sul piano economico, dall’altro stroncò le rivolte che ormai erano endemiche in Sicilia.

La Rivolta di Palermo accentua il dualismo con Messina

La rivolta di D’Alesi aveva avuto a tratti sentimenti antispagnoli, e questo aveva molto preoccupato la Corte, che ora accentuava l’alternanza della capitale tra Palermo e Messina, per indebolire entrambe. Palermo e Messina, sin dai tempi di Federico II almeno, erano quasi sullo stesso piano, con un leggero primato della prima come “Sedes Regis et Regni Caput”, dove venivano incoronati i re (ma che da tempo disertavano questo ufficio), con due distinti palazzi reali (Catania invece era stata solo di fatto sede dei re aragonesi, quasi per una sorta di equilibrio tra le due maggiori città, e limitava ora il suo municipalismo a osteggiare l’università messinese, schierandosi in genere con i palermitani). Gli Spagnoli conoscevano il municipalismo dei Siciliani e sfruttavano il carattere policentrico del Regno di Sicilia per indebolire il sentimento nazionale siciliano. I fatti di Palermo inducevano ora ad accentuare lo sforzo dualistico. Ucciso il capopopolo D’Alesi restava il malessere, e quindi continuavano i disordini.

Un’ondata “repubblicana” e anti-aristocratica sedata nel sangue

Tra questi disordini ricordiamo la congiura di tale Francesco Vairo, che voleva trasformare Palermo in una repubblica, estendere l’ordinamento comunale a tutta la Sicilia e mettersi sotto la protezione dei Turchi, federandosi anche con la Repubblica di Masaniello a Napoli, non ancora domata. Questa volta le idee in materia politica e sociale erano molto chiare: disfarsi del re, del viceré e della stessa nobiltà. Naturalmente Vairo finì appeso con un cartello che diceva: «Traditore di Dio, di Sua Maestà, e della Patria. Principale Rubello». Ma questo non disarmò il partito popolare. Un avvocato, del seguito del D’Alesi, Pietro Milano, congiurò per uno sterminio di nobili e dello stesso cardinale. Non trovò il necessario appoggio dei consoli e la rivolta finì anch’essa con la pena capitale per tutti i congiurati. Poco dopo fu la volta di un sacerdote, il Platanella, fuoriuscito in Francia, che tentò una congiura per ribaltare la corona iberica con l’aiuto di quella francese, ma privo di qualunque appoggio locale, fu facilmente scoperto, spogliato da prete, strozzato e poi impiccato. Un altro tentativo fu fatto da tale Francesco Ferro da Petralia Sottana che tentò inutilmente una rivolta armata a Palermo, con lo stesso programma dell’Avvocato Milano. Ripresa forza il governo regio, si fece riconsegnare dalle corporazioni i baluardi, disarmandole. Un’ultima sommossa, infine, a Girgenti, nata contro il ricco vescovo locale, fu presto domata come le altre. In questa generale restaurazione ebbe un ruolo la sconfitta della rivoluzione napoletana, che aveva a lungo impegnato la corona spagnola e che costituiva, anche in Sicilia, una fonte di emulazione. È indubbio che a tutto questo fermento rivoluzionario deve essere dato un peso, e questo fu sempre quello di un diffuso sentimento nazionale siciliano, unito ad una ferma volontà di riscatto sociale, per come poteva essere percepito ai tempi. Le finanze palermitane in qualche modo, per mezzo di gabelle più eque, andavano a risanarsi; gabelle cui fu costretto, almeno in parte, persino il clero, fino ad allora trincerato nelle sue immunità. Qualche scampolo di giustizia sociale tutte queste morti un po’ fruttarono. Il cardinal Trivulzio, ancora, controllò che la giustizia corresse più spedita, che non si mettessero in carcere persone senza motivo, che non venissero trattenuti legati al remo condannati che già avevano scontato la pena. Per sistemare definitivamente le sconquassate finanze del Regno lo Stato dovette ricorrere alla vendita di due città demaniali, Girgenti e Licata, comprate dal citato ricchissimo vescovo di Girgenti Francesco Troina, il quale però si accontentò di tenerle solo vita natural durante lasciandone di nuovo in eredità allo Stato di Sicilia alla sua morte.

Perché non si arrivò ad avere un Cromwell siculo?

Resta da chiedersi perché l’ondata di rivolte antispagnole, a parte qualche conquista marginale, fu votata all’insuccesso. Cosa impedì a un D’Alesi, a un Vairo, a un Milano o a un Ferro di diventare i “Cromwell” siciliani? A nostro avviso la massa critica del consenso nei ceti inferiori e la stessa potenza economica dei ceti borghesi, molto più modesta in Sicilia rispetto al caso inglese. La base sociale è però la medesima. L’ordinamento in ceti era ormai in crisi dappertutto, e anche in Sicilia, ma la chiusura delle rotte del Mediterraneo, infestate per di più dai pirati maghrebini e ottomani, le troppe spese per la difesa nazionale, avevano costretto la Sicilia nella sua tradizionale vocazione agricola a discapito del commercio e delle proto-industrie. La stessa Messina, leader nell’esportazione della seta e in genere nel commercio, si limitò, come Venezia, ma su scala assai minore, a “gestire il lento declino” del suo ruolo storico, senza poterne costruire uno nuovo. Il gretto municipalismo fu un altro elemento esiziale, sul quale la corona ebbe buon gioco. E infine il resto fu fatto da una classe aristocratica in parte antinazionale: chi viveva di rendita, e di debiti, preferiva sempre il quieto vivere rispetto a rivolgimenti di dubbio esito, un debole re lontano a un minaccioso governo nazionale vicino. Pure questa aristocrazia ebbe non pochi meriti, in termini di mecenatismo e di promozione, specie a Palermo, delle arti e mestieri come in pochi altri paesi al mondo. Si fossero saldati questi interessi tra le corporazioni e l’aristocrazia palermitana in chiave antispagnola, il “tappo” forse sarebbe saltato. Ciò però non avvenne, anche per il prudente rispetto che i sovrani spagnoli ebbero sempre per il Parlamento e in genere per le istituzioni siciliane. La Sicilia era quasi indipendente, anzi del tutto indipendente da un punto di vista formale, a parte qualche forzato debito in politica estera ripagato dall’ombrello di sicurezza della pur declinante potenza spagnola. Indipendente e costituzionale. Cosa poteva desiderare di più il piccolo regno mediterraneo senza rischiare un salto nel buio?

Si fa sentire anche l’indipendentismo monarchico, ma la Corona spagnola prevale ancora

La Sicilia non conobbe però pace nell’impero spagnolo decadente. Anche la vendita temporanea delle città demaniali non fu bastante a sanare il dissesto per la ricostruzione della flotta e il viceré Don Giovanni d’Austria dovette “vendere” l’indulto per mettere i conti a posto, con grave danno ovviamente per l’ordine pubblico. Il breve viceregnato di questo esponente della stessa famiglia reale fu segnato nel 1649 da uno dei più ambiziosi e lucidi tentativi di rovesciare la corona estera. Due giureconsulti palermitani, Pesce e Del Giudice, ebbero l’intelligenza politica di capire che solo una rivolta della nobiltà avrebbe potuto dare alla Sicilia un re proprio, tratto dall’aristocrazia stessa. Si ondeggiava, come scelta, tra il conte di Mazarino, della potentissima famiglia Branciforti e il principe di Paternò, già Presidente di cui abbiamo parlato, della potente famiglia dei Moncada, ormai naturalizzata in Sicilia dai tempi del viceré Ugo di cui abbiamo pure parlato. La congiura fu sventata dalla moglie del conte di Mazarino, che subodorò che alla fine la corona sarebbe caduta sul rivale, o che la reazione avrebbe portato soltanto guai alla famiglia; questa rivelò al viceré il disegno e la reazione arrivò inesorabile. Don Giovanni d’Austria aveva però paura di mettersi contro tutta l’aristocrazia siciliana, e diede il tempo ai congiurati (mentre stava tornando a Palermo da Messina, dove stava organizzando la flotta siciliana) di mettersi in salvo con l’esilio. Arrivato a Palermo i primi a essere giudicati furono proprio l’avvocato Pesce e il procuratore Paremio, che fino all’ultimo non avevano voluto confessare: il primo decapitato e il secondo affogato. L’unico nobile che non si era messo in salvo fu strozzato con la garrota, gli altri congiurati impiccati, punito ma lasciato in vita il Conte di Mazarino che aveva rivelato la congiura. In quella repressione veniva decapitata la speranza dei Siciliani di liberarsi di una corona straniera che stava lentamente scivolando verso l’oppressione. Solo il Moncada di Paternò, il mancato re di Sicilia, misteriosamente non fu neanche toccato dalle indagini. Troppo potente? Paura che questa mossa avrebbe fatto scoccare la scintilla antispagnola? Ormai questo mistero non sarà più sciolto: il viceré “fece finta” che il principale responsabile non avesse avuto alcuna parte alla congiura. In questo clima di restaurazione, l’ultima parte del viceregnato dell’Asburgo fu dedicata ad un altro aiuto della flotta siciliana per reprimere l’ennesima, non l’ultima, rivolta dei Catalani contro la corte di Madrid e a rintuzzare i saccheggi dei cavalieri di Malta di origine francese che, ormai, anziché difendere la Sicilia, si comportavano da predoni.

Sedate le rivolte, accelera il declino istituzionale

Il successore, Duca dell’Infantado si distinse per esser stato uno dei pochi a girare il Regno, un po’ per verificare la sicurezza e le fortificazioni, un po’ per ascoltare i ricorsi dei provinciali che normalmente gli ufficiali di corte spegnevano senza farli neanche giungere a Palermo. Dopo un periodo molto frammentario in cui si successero un viceré morto poco dopo il suo arrivo, presidenti e luogotenenti vari, arriva il Conte Ayala, che merita di essere ricordato perché con lui il rispetto della corona spagnola per l’ordinamento del Regno di Sicilia inizia a scemare. Ayala certo continuò a convocare il Parlamento e rispettare gli ordinamenti siciliani, ma si sentiva già una sorta di governatore coloniale, imponendo con durezza le regole spagnole come se fosse stato in una provincia qualunque. Destituì ad arbitrio un Maestro Razionale, e soprattutto limitò molto l’autonomia della città-stato messinese, destituendo tutti i senatori e inviando un suo commissario a controllare la repubblica semi-indipendente dello Stretto. Stavano consumandosi contraddizioni vecchie di secoli: il ruolo istituzionale ambiguo di Messina da un lato e il rapporto tra Sicilia e Spagna dall’altro. Per quella volta vinsero i Messinesi, e l’Ayala, dopo un appello al re dei Messinesi, ma inviso da tutti, fu rimosso e richiamato in patria. Ma la soluzione, dovuta ad aderenze personali dei Messinesi a Madrid, portò ad un eccesso opposto: il successore, duca di Sermoneta, stette pochissimo a Palermo e fece di Messina quasi la capitale del Regno. Accusato, soprattutto dai Palermitani, di essere uomo avido e corrotto (soprannominato “duca di far-moneta”), cercò di reimporre che tutte le sete esportate dalla Sicilia dovessero imbarcarsi esclusivamente dal porto di Messina, determinando la rivolta di tutto il resto del Regno. Estorse il parere favorevole del Sacro Regio Consiglio, senza il quale le prammatiche del Viceré non avrebbero avuto alcun valore in Sicilia, ma l’appello al re si rivelò un boomerang per i Messinesi. La corte, accorgendosi dello sbilancio di attenzione da parte del viceré, annullò la prammatica (decreto) e, addirittura, abolì l’antico privilegio che lo stesso dovesse risiedere almeno 18 mesi su 36 di mandato a Messina. Questo fu un colpo molto grave al prestigio di Messina, e, mentre il Sermoneta rientrava obtorto collo a Palermo, il rapporto tra Stato di Sicilia e la Città dello Stretto si andava logorando ancor di più. Nel frattempo, in Spagna, Filippo III (IV di Spagna) moriva, lasciando erede il malaticcio Carlo II, ultimo esponente della dinastia Asburgo.

Foto tratta da Polizzi città dell’amicizia

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