Terremoti e maremoti in Sicilia: dove e perché possono avvenire. Il ruolo di trivelle e fracking

25 dicembre 2020

I fondali del Mediterraneo sono come una potenziale polveriera. Terremoti e onde anomale che sono già agli atti: come il disastro di Sciacca nel 1951. Gli edifici vulcanici sottomarini e i pockmark. I danni che potrebbero essere provocati dalle trivelle, là dove si dovesse fare ricorso al fracking. Affrontiamo questi ed altri argomenti con Domenico ‘Mimmo’ Macaluso, uno dei più noti studiosi dei fondali del Mediterraneo  

Qualche giorno fa, commentando il terremoto che ha colpito la parte orientale della nostra Isola, ci siamo chiesti se, per caso, nel mare antistante le aree colpite dal sisma, erano in corso trivellazioni petrolifere. La nostra non è una domanda campata in aria. Perché sappiamo che i terremoti possono essere provocati anche da eventi sottomarini. Così abbiamo deciso di intervistare uno dei massimi conoscitori dei fondali del Mediterraneo: Domenico ‘Mimmo’ Macaluso.

Intanto cominciamo a illustrare il personaggio. Mimmo Macaluso è un chirurgo che lavora a Ribera, in provincia di Agrigento e fa parte del Dipartimento d’Urgenza e Componente Commissione Emergenza Sanitaria e Calamità Naturali dell’Ordine dei Medici di questa provincia. Le due parole – “Calamità Naturali” – ci dicono che Macaluso è qualcosa di più di un medico.

Dotato di brevetto di sommozzatore FIPSAS-CMAS e PADI International, con la qualifica di Rescue Diver (sommozzatore rianimatore), dal 1999 Mimmo Macaluso ha coordinato per la sezione agrigentina e saccense della Lega Navale Italiana e l’Ordine dei Geologi della Sicilia una serie di immersioni sottomarine sui resti dell’edificio vulcanico sommerso che giace sul Banco di Graham, nel Canale di Sicilia, il vulcano che per soli cinque mesi, nel 1831, diede vita all’isola Ferdinandea. Nel 2007, nominato “Ricercatore Subacqueo” nel progetto dell’Unione Europea “Discovering Magna Grecia”, ha effettuato la mappatura dei siti d’interesse archeologico-subacquei della Sicilia sud-occidentale. Nel Luglio del 2009 ha partecipato, assieme ad i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Bologna, ad alcune missioni subacquee di recupero di gas, dalle fumarole della caldera di Panarea; nel maggio 2017 ha curato per il Dipartimento di Scienze e Tecnologie dell’Università di Napoli la taratura di rilievi geofisici per il GEAC (Gruppo Geologia Ambienti Costieri). È il Responsabile Scientifico del Settore Mare, del WWF Sicilia, Area Mediterranea e, qualche mese fa, è stato nominato Ispettore Onorario della Regionale siciliana per la Geologia Marina.

Cominciamo con il terremoto di qualche giorno fa nella Sicilia orientale. Qualcuno, sbagliando, ha parlato dell’Etna. Altri, correttamente, delle faglie. Noi ieri abbiamo posto qualche domanda sui possibili danni da trivellazioni legate alla ricerca di idrocarburi, con particolare riferimento al fracking. Lei cosa pensa?

“È stata ampiamente smentita dai tecnici la relazione tra la recente attività eruttiva dell’Etna ed il recente terremoto che ha interessato l’area Iblea della Sicilia, considerata la natura tettonica del sisma. Sarebbe invece interessante comprende il contrario, cioè se la recente eruzione dell’Etna non possa essere stata influenzata dai movimenti delle placche tettoniche e da una loro azione sulla camera magmatica del vulcano”.

E le trivelle a caccia di idrocarburi?

“Per ciò che riguarda il rischio legato alle prospezioni/estrazioni di idrocarburi in aree sismicamente attive come lo stretto di Sicilia, è proprio lo status geologico di un’area, compresa la sua sismicità, ad influenzare il rilascio di una concessione da parte del comitato di valutazione di impatto ambientale del Governo, che deve tenere conto di un eventuale condizione di geo-hazard. “Riguardo al fracking, si tratta di una tecnica che ha un effetto devastante sul sottosuolo, in quanto, per fratturare le rocce ed estrarne idrocarburi, ricorre ad iniezione di fluidi ed additivi ad altissima pressione, col rischio di subsidenza del suolo, con la possibilità di innescare terremoti ed inquinamento delle acque sotterranee”.

Quindi il fracking può provocare terremoti e altri problemi. 

“Certo. Nonostante tutto questo, il fracking è consentito in molte nazioni considerate evolute, mentre in Italia, con un emendamento al decreto legislativo del 3 aprile 2006 Sblocca Italia, ‘… è vietata qualunque tecnica di iniezione in pressione nel sottosuolo di fluidi liquidi o gassosi, compresi eventuali additivi, finalizzata a produrre o favorire la fratturazione delle formazioni rocciose in cui sono intrappolati lo shale gas e lo shale oil’. Ricordo le impressionanti immagini trasmesse nel corso di una puntata di Report, in cui si vedeva in una abitazione privata statunitense, adiacente ad una zona interessata da tale metodica estrattiva, il proprietario aprire in rubinetto del lavandino, avvicinare un accendino acceso e vedere incendiare…l’acqua corrente!”.

Lei è un profondo conoscitore dei fondali marini del Mediterraneo. Ci può indicare quali sono gli elementi che potrebbero creare pericoli, eruzioni marine o anche terremoti?

“Uno dei fattori che rappresenta un geo-hazard è, come abbiamo detto, la sismicità di un’area: lo stretto di Sicilia soltanto in un anno fa registrare diversi terremoti di magnitudo superiori a 4, come quello a cui facciamo riferimento in questa intervista; un altro fattore di rischio è legato alla presenza di vulcani, che hanno eruttato in tempi recenti e considerati tutt’ora attivi, come il vulcano Ferdinandea, sorto in seguito ad una breve eruzione nel 1831 e disgregatosi dopo pochi mesi, dato che l’edificio sub-aereo era composto soltanto da materiali pomicei, mentre la lava si era fermata a meno di 8 metri dalla superficie. La stessa Pantelleria, a differenza di Linosa, non è considerata un vulcano spento, in quanto esiste, sotto questa isola, una camera magmatica: l’ultima eruzione di Pantelleria, documentata fotograficamente risale al 1891”.

Quanti edifici vulcanici ci sono nel Mediterraneo? 

“Nel corso di una crociera oceanografica che abbiamo effettato nel 2006, mediante ultrasonografia multibeam, abbiamo rinvenuto, oltre a Ferdinandea, altri 8 edifici vulcanici, fino a quel momento non noti; la batimetria multibeam e side-scan sonar rivelarono anche la presenza di un piccolo cratere isolato (diametro circa 110 m), prospiciente le coste di Ribera, giacente su una piattaforma crustale a meno 70 metri, con un margine superiore ad appena meno 43 metri dalla superficie. Il vulcano, per essere stato esplorato in immersione nel 2006 dal sottoscritto (assieme al cameraman francese Jeremy Simmonot ed al tecnico del suono Gerald Riviere), è stato battezzato dall’ufficiale di rotta della Universitatis ‘MAC. 06’. Nel corso di quella crociera abbiamo avuto l’intuito che tutti questi crateri potessero essere parte di un unico complesso vulcanico, che in quella occasione ho battezzato Empedocle, in memoria del filosofo e naturalista agrigentino che, secondo la tradizione, morì cadendo nel cratere dell’Etna mentre lo studiava. Il complesso vulcanico Empedocle è ufficialmente entrato a far parte della topografia ufficiale del Mediterraneo redatta dell’ONU. Ma non finisce qui, dato che in una campagna di ricerca condotta dall’Istituto di Oceonografia Sperimentale di Trieste, in un tratto di mare prospiciente le coste sud-occidentali della Sicilia, nel 2019, sono stati osservati altri sei vulcani. Non c’è nemmeno bisogno di soffermarsi troppo sugli effetti di un’eruzione sottomarina su di una piattaforma petrolifera o sugli oleodotti che sono adagiati sui nostri fondali…”.

Ci racconti del pockmark, che è un’altra vostra scoperta. 

“La proficua crociera del 2006 rivelò, alcune miglia a sud-est rispetto al banco di Graham (Ferdinandea), anche una grande struttura circolare, localizzata ai margini di una piattaforma crustale. Una struttura giacente su batimetriche di circa 190 metri talmente estesa (quasi mille metri di diametro) che, al momento della scoperta, fu di difficile interpretazione. Decisiva per la sua identificazione fu una successiva sua esplorazione mediante un ROV, in cui si evidenziò la presenza di fumarole, una delle quali, al centro del grande cratere. Si procedette quindi al prelievo di campioni di gas, grazie al braccio articolato di cui era dotato il ROV: era metano. Il grande cratere, del diametro di circa 900 metri e profondo 50, era un grande pockmark, cioè il cratere che si forma dopo la esplosione di una sacca di metano: eravamo in presenza di un altri fenomeni geologici che nulla hanno a che vedere con i vulcani che eruttano magma, dato che in questi casi i fondali marini eruttano fango ed emettono gas, che in determinate occasioni possono esplodere: si tratta del fenomeno del vulcanesimo sedimentario, che sulla terraferma, in Sicilia, ha dato origine alle Macalube di Aragona. Questo fenomeno, che ad Aragona nel 2014 ha causato la morte di due fratellini, investiti da una esplosione di fango, sott’acqua è ancora più subdolo: la liberazione repentina ed esplosiva di una sacca di gas in mare può essere determinata, oltre che dall’aumento del volume del gas, anche dall’aumento della sua temperatura o da un terremoto”.

Cosa può succedere nei fondali marini dove sono presenti i campi di pockmark?

“Sotto la superficie del mare il gradiente di pressione è più elevato e le esplosioni sono più violente, con la possibile formazione di un’onda anomala. La presenza di vulcanesimo sedimentario – come cosiddetti campi di pockmark – rappresenta una limitazione alla concessione di permessi di prospezione/trivellazione. E non certo a caso. Il 29 Aprile 2010 l’incidente della Deepwater Horizon, nel Golfo del Messico, uccise undici uomini ed ha provocato il disastro ambientale da idrocarburi più grande della storia, con 507 milioni di litri di petrolio versati nel Golfo del Messico. Una recente indagine ha appena fatto luce sulle cause del disastro, grazie ad un nuovo consulente, Dag Vavik, un ingegnere norvegese. Dopo avere trovato il petrolio, l’equipaggio della piattaforma da ricerca ha sigillato il pozzo in modo che potesse essere successivamente avviata l’estrazione, ma la chiusura non è avvenuta correttamente a causa di un enorme accumulo di gas nel sistema di tubazioni ed il gas è esploso. Era stato intercettato accidentalmente un giacimento di idrato di metano, che in seguito ad una sua rapida espansione ha determinato l’esplosione. Ecco il motivo delle raccomandazioni: quando si effettuano le prospezioni petrolifere bisogna accertare l’eventuale presenza di sacche di metano: proviamo ad immaginare un incidente di questo tipo, in un bacino semichiuso come il Mediterraneo!”.

A suo avviso è razionale che i Governi italiani e, in generale, i Governi dei Paesi che si affacciano nel Mediterraneo autorizzino le ricerche di idrocarburi alla luce delle conoscenze maturate in questi ultimi anni?

“Non sono contrario (come qualche ambientalista integralista) alla ricerca ed alla estrazione di idrocarburi, in quanto mi rendo conto che l’affrancamento dal fossile deve necessariamente essere graduale, ma mi sembra anacronistico e contraddittorio potenziarne e favorire l’incremento di tale attività, soprattutto a disprezzo della sicurezza, nei confronti di una popolazione che vive di turismo di pesca e di beni culturali”.

Dopo il terremoto in Emilia Romagna del 2015 alcuni scienziati affermarono che era legato alle trivellazioni nell’Adriatico. Lei cosa pensa?

“La presenza al largo del Ravennate di un fenomeno che si chiama subsidenza antropica, cioè il collasso del suolo in un’area interessata da emunzione di idrocarburi o acqua, è nota. Ma affermare che il terremoto possa avere avuto origine dalle attività estrattive è azzardato senza evidenza scientifica. E’ come affermare che, in prossimità dell’epicentro di quel disastroso terremoto, appena due settimane prima si era proceduto ad una sperimentazione della tecnica di fracking: in quest’ultimo caso, dovrebbe essere la magistratura ad indagare, considerato il divieto di tale procedura”.

Si potrebbe parlare di un effetto combinato tra i terremoti classici provocati dalle faglie e i terremoti che potrebbero essere provocati da ciò che lei studia da anni?

“Ribadisco che sono necessari studi scientifici per poterlo dimostrare, ma se non abbiamo prove certe ricordo che in questi casi dovrebbe essere applicato il cosiddetto principio di precauzione: se non esiste evidenza scientifica che qualcosa o qualche procedura possa essere pericolosa, in attesa di averne le prove asteniamoci del metterla in atto! Il fatto è che spesso si tende, per fini economici, a falsificare le carte, come è successo nel 2015, quando nel corso di una intervista per Presa Diretta ho smascherato lo scomposto tentativo di correre ai ripari, da parte una società petrolifera, che aveva inserito nello studio di impatto ambientale, propedeutico ad ottenere il permesso di una prospezione finalizzata a trivellare davanti Pantelleria, una carta batimetrica dove figurava un campo di pockmark; ebbene, di fronte al nostro ricorso, la società reagì esibendo un addendum allo studio di impatto ambientale, sostituendo quella carta batimetrica con una vecchia carta in cui la tecnologia non aveva consentito di riconoscere la presenza di vulcanesimo sedimentario!”.

Ogni tanto torna in auge la possibile riemersione dell’isola Ferdinandea. C’è questa possibilità o sono notizie messe in giro per fare un po’ di ‘scena’?

“Come abbiamo riportato nel Rapporto INGV n° 125 del 2010, relativo al primo monitoraggio dei resti dell’isola Ferdinandea, questa area è sismicamente attiva ed ‘… esiste la possibilità di una ripresa dell’attività vulcanica in una zona relativamente prossima alle coste meridionali della Sicilia, entro un raggio di alcune decine di chilometri da Capo San Marco e da Sciacca’. Queste considerazioni hanno chiare implicazioni sulla valutazione del rischio vulcanico e sismico ma, allo stato attuale, non sono sufficienti ad indicare un problema pressante ed a disegnare uno scenario di rischio imminente. Per quanto ne sappiamo, attualmente siamo in un caso di ‘normale’ convivenza con un vulcano attivo, come avviene con l’Etna, sulle cui pendici vive una popolazione di mezzo milione di abitanti. Anche se ci sono importanti differenze”.

Ovvero? 

“In primo luogo, conosciamo bene e bene sorvegliamo il vulcano di Catania, ma sappiamo poco del Ferdinandea e degli altri numerosi vulcani impiantati sul grande rilievo sottomarino. In secondo luogo, nei vulcani sottomarini  non viene condotto alcun genere di monitoraggio. In terzo luogo, anche se non eruttano regolarmente come l’Etna, tuttavia essi possono in qualsiasi momento dare luogo a eruzioni sottomarine di tipo esplosivo le quali, a loro volta, potrebbero generare tsunami e devastare una costa densamente popolata con possibili ripercussioni sull’opposta sponda del Mediterraneo”.

Quindi gli elementi naturali oggetto dei suoi studi prevedono la possibilità di maremoti? Glielo chiediamo perché – nonostante quanto avvenuto a Messina nel 1908 – questa eventualità viene negata.

“Nel rispondere, faccio ancora riferimento al rapporto che abbiamo redatto nel 2010: ‘Nel Canale di Sicilia, inoltre, pericolose onde anomale possono avere origine anche da fenomeni gravitativi in quanto l’insieme del contesto descritto costituisce un sistema tendenzialmente instabile, con possibilità di cedimenti dei fianchi e/o collassi di settore, comuni nei rilievi vulcanici sottomarini, nelle isole vulcaniche e nei vulcani prospicienti le coste’. Ed a fronte dei negazionisti, ecco cosa è successo a Sciacca, non nel 1908, ma il 12 Novembre del 1951, quando, dopo un forte boato, il mare si ritirò improvvisamente, lasciando scoperti i fondali del porto e determinando la rottura degli ormeggi delle imbarcazioni; l’onda anomala con la quale le acque riaffluirono, danneggiò le strutture portuali, alcune case e diversi magazzini, comportando la dispersione di parte della flottiglia peschereccia di Sciacca, con danni stimati da una Commissione parlamentare superiori ai 40 milioni di lire (stiamo parlando del 1951)”.

Quindi un’onda anomala. Cosa l’ha provocata? 

“L’evento è da mettere in relazione con l’esplosione di una sacca di gas, in quanto il maremoto non era stato anticipato da alcun terremoto, ma soltanto dalla violenta esplosione avvertita prima del ritiro delle acque del mare. L’evento fu così disastroso da fare intervenire il Governo in aiuto alla popolazione, come si evince dalle cronache parlamentari del 1951. La descrizione di questo maremoto venne riportata anche in diversi quotidiani dell’epoca, ma in particolare, la corrispondenza dell’inviato di Palermo del 12 Novembre 1951 per La Stampa è utile a comprendere l’entità del fenomeno ed i suoi devastanti effetti: ‘Ieri, verso la mezzanotte e mezza nell’interno del porto di Sciacca, improvvisamente il mare si sollevava fino a raggiungere l’altezza di oltre tre metri e, con una gigantesca ondata sovrastante le banchine, si abbatteva con violenza sull’abitato. Le circostanze con cui il fenomeno si è manifestato fanno pensare ad un autentico maremoto. Le barche, che in numero di oltre 150 nell’angusto specchio d’acqua formavano quasi un ponte, all’urto tremendo dell’onda, rotti gli ormeggi, sono state trasportate via dal risucchio. Uno spettacolo desolante si presentava nelle prime ore dell’alba nella sconvolta marina e lungo il litorale: barche affondate, rottami alla deriva, motopescherecci dalle fiancate squarciate a cavallo delle distrutte banchine. Mancano una trentina di battelli; circa duecento metri di banchina sono stati divelti dalla furia delle acque'”.

Lei ha documentato anche fatti più recenti, sempre dalle parti di Sciacca. 

“Esattamente. Il 10 Aprile del 2007, a largo delle coste di Sciacca, a distanza di un paio di ore, si manifestò un terremoto alle ore 21 e 20 di magnitudo 4.3. A Sciacca, contemporaneamente, venne avvertito un forte boato proveniente dal mare. La mattina successiva abbiamo sorvolato con l’elicottero della Protezione Civile il tratto di mare epicentro del sisma e sede dell’esplosione, sospettando una eruzione sottomarina, ma raggiunto il punto, ci siamo resi conto che il boato ed il terremoto erano stati provocati da una esplosione sottomarina di una sacca di gas, che flottava ancora sulla superficie del mare; abbiamo osservato che il tratto di mare interessato dall’esplosione era molto estesa e la superficie delle acque era increspata da bolle che continuavano a risalire”.

L’inquinamento elettromagnetico può influenzare i fenomeni oggetto dei suoi studi?

“Questa è una bella domanda, ma difficile è la risposta, in quanto ci si addentra nel campo delle ipotesi in alcuni casi molto suggestive. La risposta potrebbe fare riferimento ad un fenomeno che, al di là di quello antropico, pone l’attenzione sull’elettromagnetismo naturale quale causa potenzialmente determinate di un terremoto. In realtà, le cose potrebbero presentarsi in altri termini: e cioè che le anomalie magnetiche rilevate in concomitanza con grandi eventi sismici (California del 2007 o Alaska nel 1964), possano essere studiate e sfruttate quale strumento di previsione di un terremoto. Analogo discorso vale per la liberazione di Radon, un gas radioattivo che, dopo il terremoto del Belice del 1968, raggiunse nei paesi terremotati una concentrazione ambientale superiore di 600 volte. Infine, come probabile trigger di una esplosione di metano sottomarino, potrebbe esserci l’attrito tra due faglie in corso di un terremoto, oppure un vero e proprio innesco da parte della cosiddetta corrente tellurica”.

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