Distruggono Taranto, la Lucania, Milazzo, Priolo, Melilli e Augusta nell’interesse del Nord: mandiamoli a quel paese!/ MATTINALE 452

10 novembre 2019

Ma a chi serve, alla fine, l’acciaio dell’ILVA di Taranto? Al Nord. A chi serve la chimica ‘pesante’ di Milazzo, Priolo e Melilli? Al Nord. Chi utilizza il petrolio raffinato ad Augusta? L’Italia che affama il Sud! Distruggono il Sud lasciando inquinamento e morte per portare i guadagni al Nord. E noi cosa abbiamo fatto, fino ad oggi, per impedire tutto questo? E allora è arrivato il momento di dire basta. A cominciare dall’ILVA di Taranto 

Acciaieria ILVA di Taranto: proviamo a cambiare il paradigma? L’avventura comincia negli anni ’60 del secolo passato. La Cassa per il Mezzogiorno cambia strategia: un po’ di infrastrutture, nel Sud, sono state realizzate. Ma gli investimenti privati ipotizzati dall’economista Pasquale Saraceno non sono arrivati. E allora sia lo Stato a creare nel Sud i poli industriali di sviluppo. L’industria, allora, era la panacea di tutti i mali. I beni culturali erano un passatempo, il turismo era divertimento. Lo sviluppo doveva essere ‘industriale’ o non era sviluppo. Così vede la luce l’Italsider a Taranto.

Ci stava? In quegli anni, sì. Quindici anni dopo, però, c’erano già i primi problemi. L’inquinamento era già tanto. Ma era un prezzo che bisognava pagare al “logorio della vita moderna”, come raccontava ‘Carosello’ in una nota pubblicità degli anni ’70. Tant’è vero che le abitazioni per gli operai del ‘Mostro di acciaio’ di Taranto vengono realizzare a due passi dallo stabilimento. Una follia!

Enrico Mattei, a Gela, era stato più lungimirante: il quartiere per gli operai dell’ANIC (lo stabilimento chimico di Gela allora si chiamava così), denominato ‘Macchitella’, venne realizzato a ovest degli impianti industriali, ‘sopravento’.

IL QUINTO CENTRO SIDERURGICO – Tornando a Taranto, i problemi già c’erano. Ma l’Italia di allora pensava al ‘Quinto centro siderurgico’, che avrebbe dovuto vedere la luce a Gioia Tauro, magari dopo la realizzazione del porto. Il porto è stato realizzato, non senza polemiche. Ma, per fortuna, i forni che riempono l’aria e le vite delle persone di veleni sono rimasti sulla carta. Gioia Tauro si è salvata.

Proviamo a cambiare paradigma? A chi è servita l’Italsider di Taranto, oggi ILVA ‘indianizzata’? Per l’80% e forse più alle industrie del Nord.

E al Sud? Un po’ di acciaio tarantino è andato alla Fiat di Termini Imerese, avventura che è costata un sacco di soldi allo Stato e alla Regione siciliana. Un altro po’ di acciaio per l’Alfasud, altra esperienza da dimenticare. E un po’, dalla seconda metà degli anni ’90, allo stabilimento Fiat del Basento, in Basilicata (altra forzatura, altri fondi destinati al Sud finiti alla Fiat).

Ma oggi, soprattutto oggi, a che cosa serve l’acciaio dell’ILVA di Taranto? Va tutto al Nord o viene esportato. Sostiene l’economia del Nord Italia e la bilancia commerciale italiana. E a Taranto cosa rimane? L’inquinamento, i malati e i morti.

I posti di lavoro non sono “oltre 10 mila”, come dicono. Sono circa 8 mila. E oltre 3 mila lavoratori sono in Cassa integrazione.

Diciamolo in lingua italiana: a Taranto, come nell’area industriale di Siracusa, c’è la licenza di inquinare. Sbagliamo, o proprio sull’acciaio, in Liguria, sono state adottate precauzioni, a tutela della salute dei lavoratori che a Taranto non sono mai state attuate? Non è forse per questo che, nell’acciaieria di Taranto è stato inventato lo “scudo penale”?

A Taranto l’unica istituzione che ha difeso i cittadini è stata la magistratura. Ma se ascoltate i ‘dotti’ commentatori – compreso qualche sofista meridionale – l’acciaieria di Taranto “è stata rovinata dalla magistratura”. E quale sarebbe la ‘grande colpa’ dei magistrati? Avere cercato di tutelare l’ambiente e di limitare le malattie e le morti delle persone!

LO SCUDO PENALE – E che ha fatto la politica, a Taranto? Ha inventato lo “scudo penale” per tutelare gli industriali, non certo la salute dei cittadini! Quasi sono i risultati concreti ottenuti dall’attuale presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano? E del grillino Luigi Di Maio, che in tre mesi “aveva risolto” la questione ILVA ne parliamo?

Cambiamo paradigma: ma ai tarantini, che hanno un territorio splendido, che hanno il ‘Mare piccolo’, che cosa gliene frega dell’acciaio che serve al Nord? Un po’ di orgoglio, via: basta con il ricatto se vuoi il lavoro ti devi tenere l’inquinamento!

Cambiamo paradigma anche in Basilicata: è normale che degli idrocarburi estratti da queste parti i lucani debbano avere in cambio solo l’inquinamento? Veramente in questa Regione deve continuare lo sfruttamento che non lascia nulla al territorio?

GLI INDIANI? TORNINO IN INDIA! – Ma se Taranto, con la benedizione di Nostro Signore Iddio, gli indiani della Arcelor Mittal andranno via ponendo fine all’inquinamento della città, in Sicilia, dove insistono le ‘industrie intelligenti’ ancora oggi non c’è speranza.

Anzi, qualcosa si è salvata. Si è salvata, per esempio, la costa di Termini Imerese, dove tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 avrebbe dovuto sorgere un polo industriale per la lavorazione del bicarbonato di sodio, dei solfati e dei cromati. E sempre nell’Isola si sono salvati Noto e tutto il circondario, da Noto marina a Vendicari, oggi Riserva naturale.

Sembra incredibile, ma tra la fine degli anni ’60, in provincia di Siracusa, gli abitanti di Priolo e di Melilli da una parte e gli abitanti di Noto e dei centri del circondario dall’altra parte si contenevano gli stabilimenti industriali. Alla fine vinsero Priolo e Melilli. Grande la delusione dei netini (gli abitanti di Noto e del circondario di Noto di terra e di mare si chiamano così).

A MESSA CONTANDO I MORTI – Quasi sessant’anni dopo a Melilli e a Priolo si vive come nel quartiere Tamburi di Taranto: inquinamento, malattie, teratologie, morti. E se non ci fosse don Palmiro Prisutto, un sacerdote che opera in queste zone e che, da anni, ogni settimana, durante la Santa Messa, ‘aggiorna’ la lista di chi ci rimette la vita, se non ci fosse questo prete che lancia appelli per sensibilizzare le autorità, di questo martoriato angolo della provincia di Siracusa non si parlerebbe (qui trovate un articolo con un bel servizio di RAI 3).

Sempre da queste parti c’è Augusta. Dove i lombardi, tra gli anni ’50 e gli anni ’60, hanno realizzato le raffinerie di petrolio. Pensate un po’: per quasi cinquant’anni Augusta ha raffinato quasi il 50% del petrolio italiano. Il boom economico italiano degli anni ’50 e ’60 è stato basato anche sulla benzina prodotta ad Augusta.

Cosa ha avuto Augusta dalle raffinerie? L’inquinamento, le malattie, le teratologie e i morti. I guadagni sono finiti in Lombardia.

AUGUSTA: IL MARE COLORE DEL MERCURIO – A Taranto,come già ricordato, accusano la magistratura di aver reato difficoltà all’acciaieria. Ma lo sapete chi ha bloccato, nel mare di Augusta, lo sversamento di mercurio e di altri veleni in mare? E’ stato un giovane magistrato! Se non fosse stato per questo giovane magistrato che ha rischiato la vita (cosa ‘normale’ in una Sicilia dove valenti magistrati sono stati ammazzati solo perché, alla fine, difendevano la Sicilia nel segno della legalità) i veleni continuerebbero ad ‘arricchire’ il mare di Augusta.

Ancora oggi non si sa quanto mercurio e quanti veleni siano sepolti nei fondali di Augusta. Si sa soltanto che nessuno vuole mettere mano alla bonifica (infatti non se ne parla più) perché ci sarebbe tanto di quel mercurio che non si sa dove mettere!

E la colpa, come a Taranto, era dei magistrati ‘cattivi’!

E dello stabilimento di Milazzo che dobbiamo dire? Inquinamento, incidenti, incendi. Ma a chi serve ‘sto mostro industriale?

A Gela – altra città della Sicilia massacrata dall’inquinamento – dicono che ora ci sarà l’industria verde. Ma fino ad oggi cos’ha visto Gela?

Non sappiamo se gli amici della pagina Facebook Terroni di Pino Aprile e della pagina Vento del Sud, Vento Brigante sanno che in Sicilia – Regione a Statuto speciale che precede di un anno e mezzo l’entrata in  vigore della Costituzione italiana (la conquista dell’Autonomia siciliana, ottenuta con le armi, grazie al Separatismo siciliano, è della primavera del 1946) – esiste l’articolo 37 dello Statuto.

Sapete, amici del Sud, cosa prevede l’articolo 37 dello Statuto autonomistico siciliano? Che le industrie del Centro Nord Italia che hanno stabilimenti in Sicilia debbono pagare le imposte – tutte le imposte – alla Regione siciliana! Da dove pensate che Veneti e Lombardi abbiamo preso l’idea dell’Autonomia differenziata? Hanno maturato l’idea leggendo lo Statuto siciliano!

I SOLDI RUBATI ALLA SICILIA – Solo che in Sicilia, dal 1947 – anno in cui si è insediato il primo Parlamento dell’Isola – lo Stato si rifiuta di applicare l’articolo 37 dello Statuto: così i grandi gruppi industriali del Nord pagano le imposte all’Italia!

Avete idea di quanti soldi avrebbero a disposizione oggi i siciliani se le banche che operano in Sicilia – che al 90% sono tutte del Centro Nord Italia – pagassero le imposte alla Regione siciliana? Lo stesso discorso vale per la chimica di Priolo, Melilli, Augusta, Milazzo, Gela.

Nel 2014 è arrivato il Governo Renzi. Già la Regione siciliana era finanziariamente massacrata. Ma il Governo Renzi – con l’avallo del PD siciliano che governava la Regione – ha svuotato ulteriormente le ‘casse’ della Regione (qui trovate tre nostri articoli: raccontiamo, per filo e per segno, come il Governo nazionale di Renzi e il PD siciliano hanno svuotato le ‘casse’ della Regione siciliana contribuendo in modo sostanziale all’emigrazione di migliaia e migliaia di giovani siciliani nel Centro Nord Italia e all’estero).

Cambiamo paradigma: i siciliani sono o no responsabili di non essere mai scesi in piazza per chiedere l’applicazione dello Statuto? Non solo. Ma ancora oggi, siciliani che sarebbero anche scolarizzati, senza avere mai letto lo Statuto, sostengono che in Sicilia “la rovine di tutto è l’Autonomia”.

Chi scrive, nei giorni scorsi, ha cercato di discutere con un ingegnere siciliano che ha perfettamente capito l’imbroglio, ai danni del Sud, dell’Autonomia differenziata di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, ma che, contemporaneamente, sparava a zero sull’Autonomia siciliana.

L’abbiamo invitato a distinguere tra gli ascari che hanno spesso governato la Sicilia e le istituzioni: ma non c’è stato nulla da fare!

RENZI HA DISTRUTTO LA SICILIA? VIVA RENZI! – Sono come i siciliani – tanti siciliani e lo diciamo con dispiacere – che stanno lasciando il PD per aderire a Italia Viva di Matteo Renzi. Credeteci: nella storia della Repubblica italiana non c’è stato un partito politico nazionale più antisiciliano del PD di Renzi (e, forse, anche più antimeridionale).

Il Governo Renzi ha distrutto la Regione siciliana. Oggi interi settori della Sicilia – sanità, beni culturali, Comuni, Province, per citarne solo alcuni – sono rimasti senza risorse finanziarie grazie ai provvedimenti scellerati contro la Sicilia adottati dal Governo nazionale di Renzi (scippi finanziari confermati dal Governo nazionale di grillini e leghisti e dall’attuale Governo Conte bis).

Ebbene, tre, quattro, forse cinque, forse sei, forse sette, forse otto attuali deputati del Parlamento siciliano stanno per passare con il nuovo partito di Renzi. Poi ci sono parlamentari nazionali. Poi consiglieri comunali. E, con loro, migliaia di persone. Tutti pronti per sostenere chi ha penalizzato la Sicilia.

Cos’è che spinge tanti siciliani ad unirsi con il toscano Renzi?

Per noi l’unica spiegazione si può rintracciare nel romanzo I Vicerè di Federico De Roberto. Chi ha avuto la fortuna di leggerlo ricorderà tanti siciliani unici nel proprio genere. Ma ce n’è uno, in particolare, che sintetizza in modo magistrale la Sicilia impossibile e incomprensibile: è Don Blasco, personaggio eccentrico che quando stava benissimo era convinto di dover morire da un momento all’altro, mentre quando stava per passare all’altro mondo si sentiva pieno di vita…

Foto tratta da Ultime Notizie Flash  

 

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