Halloween? Ma per favore! Ricordiamo i nostri Morti e le nostre tradizioni: le Pupaccene e altro ancora

30 ottobre 2019

Ricordiamoci che Halloween è una tradizione anglosassone esportata negli Stati Uniti e reimportata in Europa, come i jeans, per scopi commerciali (ed esoterici) che nulla hanno a che vedere con le nostre tradizioni. A cominciare dalla storia delle ‘Pupaccene’ di zucchero di Palermo e di altre tradizioni presenti in tutta la Sicilia   

di Maddalena Albanese

“Dolcetto o scherzetto?”.

Con queste parole i bambini palermitani festeggiano il 31 ottobre sera, l’inizio del periodo dei Morti, scimmiottando una tradizione di origine celtica, anglosassone di cui, ovviamente, non possono conoscere il significato. La frase “dolcetto o scherzetto”, (“trick or treat”), infatti, non ha proprio nulla di affettuoso, ma rappresenta una sorta di minaccia: se non mi dai qualcosa di buono, ti farò qualcosa di cattivo…

HALLOWEEN? MACABRA E ANGLOSASSONE – Tutta l’atmosfera della festa anglosassone dedicata al mondo dei morti e dell’occulto, chiamata Halloween, è comunque macabra. È difficile capire come a Palermo, in Sicilia e in Italia, con la lunga tradizione culturale cristiano-cattolica che ci appartiene, abbiamo fatto abdicare la nostra commovente ed intima festività dei Morti alla triste e sulfurea ricorrenza di Halloween.

Il culto dei Morti è presente in numerose popolazioni, anche molto antiche e tra di loro geograficamente lontane. L’evento planetario del Diluvio Universale, che ne è stato all’origine rimase nelle memoria culturale dei sopravvissuti, i quali furono, tra l’altro, coloro che popolarono le terre riemerse e che non dimenticarono mai i loro antenati. La memoria diede forma ad una commemorazione che, già al tempo di Mosè, secondo una tradizione orale che a lui faceva capo, ricorreva in un periodo sovrapponibile al nostro Novembre.

TRA GRECI E ROMANI – Ma nel Mediterraneo due grandi Civiltà avrebbero fatto del Culto dei Morti un perno della loro spiritualità: i Greci e, dopo di loro, i Romani. I nomi con cui venivano da loro chiamati gli Spiriti degli Antenati erano molti: Lemuri, Penati, Lari, Mani, ed avevano, peraltro, anche delle sfumature di significato differenti, ma quasi sempre evocavano i Trapassati di famiglia che erano pronti ad accudire, proteggere, beneficare i propri discendenti.

Ad essi i viventi avevano anche dedicato dei giorni di festa: “Le Parentalia”, ad esempio, inizialmente collocate nel mese di febbraio e le “Lemuria” collocate nel mese di maggio.

Nel tempo i Romani, con la conquista della Gallia e della Britannia, entrarono in contatto con la festività celtiche dedicata agli Spiriti soprannaturali: Hallowen, derivata probabilmente dall’antica Samhain, una grande celebrazione “di tutti gli Spiriti”, come appunto indica l’etimologia del nome Hallowen (“Notte di tutti gli spiriti sacri”). Una tradizione anglosassone poi esportata negli Stati Uniti.

Questa festività ricorreva nel giorno del Capodanno Celtico, tra il 31 Ottobre e l’1 di Novembre, momento cruciale dell’anno, in cui finiva il ciclo agricolo della Primavera e dell’Estate e si entrava nel “sonno” dell’Inverno. Momento di oscurità, durante il quale il confine tra questo Mondo e l’Altro si assottigliava fino a scomparire, ed i viventi ed i defunti rimanevano così in un’unica grande dimensione che li metteva in contatto gli uni con gli altri, a meno di non attuare dei rituali liberatori: i falò, la raccolta in gruppi, il nascondimento nelle proprie case durante questa notte “di transizione”, per fuggire alla vista di quelli che tra gli spiriti erano i più malvagi.

Importante era non rimanere soli nel buio delle strade, perché si diceva che gli Spiriti malvagi avrebbero potuto rapire i viventi che si fossero trovati indifesi.

I Romani hanno avvertito la corrispondenza comunque esistente tra questa festività a carattere laudativo ed esorcistico ed alcune proprie Feste: quella dedicata alla Dea Pomona, ad esempio, protettrice dell’agricoltura, ed anche quelle dedicate ai defunti (le Parentalia e le Lemuria), trovando che queste si riflettevano nel Capodanno Celtico e nella commemorazione che i Popoli d’Oltralpe facevano degli Spiriti dell’Aldilà.

INTERVIENE MADRE CHIESA – I secoli passavano ed il culto dei Morti sopravviveva, intenso e pagano, nelle popolazioni dell’ex Impero Romano, che intanto, ormai, si erano convertite al Cristianesimo. Nel IX secolo, quindi, Papa Gregorio IV istituisce la festa di Ognissanti, l’1 Novembre di ogni anno, cercando, come per altre festività arrivate al Medioevo dalla cultura romana, di santificare con un significato cristiano alcune commemorazioni pagane difficili da sradicare dalla cultura dei popoli.

Nel X secolo a questa festa, dedicata alle Anime già Sante nel Paradiso, viene affiancata la Festività-Commemorazione dei Defunti, momento in cui il ricordo dei propri cari diventa suffragio per la liberazione delle loro Anime dal Purgatorio. Il Rito Cristiano Bizantino ha già una propria commemorazione dei defunti nel periodo gennaio-febbraio (probabilmente sovrapponendosi alle Parentalia degli Antichi Romani). I cristiani di Occidente, invece, appunto nel 998 con Sant’Odilone di Cluny, iniziano a commemorare ed a suffragare le anime dei defunti nel giorno dopo la
Festività di Ognissanti.

La Religione Cristiana continuava, così, in se stessa il concetto del suffragio ricevuto dalle Sacre Scritture: nel secondo libro dei Maccabei (12,32) possiamo leggere come Giuda raccolga elemosine per il suffragio delle anime dei suoi soldati caduti in guerra. Gesù , peraltro, nel Vangelo (Matteo, 5,26) parla chiaramente “dell’espiazione del debito verso la Giustizia Divina fino all’ultimo spicciolo”. San Paolo, infine, ne parla ancora nella prima lettera ai Corinzi.

L’esistenza del Purgatorio verrà comunque poi proclamata definitivamente Verità di Fede con il Concilio di Trento (1545-1563).

LE TRADIZIONI POPOLARI – Ma il suffragio religioso, l’anelito alla purificazione per ricongiungersi con i cari defunti nel Paradiso non ha cancellato dalla memoria culturale del popolo il ricordo che quello era il momento in cui le Anime dei Trapassati, una volta l’anno, tornavano sulla Terra per stare ancora con i propri parenti, per godere di ciò che più avevano amato durante la loro vita. Ed allora i vivi si recavano, e tutt’ora si recano, sulle tombe dei propri morti per portare fiori, lumini benedetti (ad indicare la strada ed a fare compagnia al defunto) o ceste di cibo (con le pietanze più amate dal caro estinto) per pranzare, cenare, conversare, ricordare i tempi andati con il defunto, in una “celeste corrispondenza d’amorosi sensi”.

Come dirà qualche secolo dopo Ugo Foscolo “non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente dei suoi?”.

A PRANZO CON I MORTI – L’usanza di portare cibo sulle tombe dei defunti, per passare ancora un giorno con loro, era talmente diffusa che, nei primi secoli dopo Cristo, i fedeli venivano esortati a non portare il cibo nei cimiteri e i custodi dei cimiteri ad impedire questa pratica “pagana”. Ovviamente non ci riuscivano: le madri andavano a pranzare con i figli, le mogli con i mariti, le figlie con i genitori. E chi avrebbe avuto mai il coraggio di scacciare queste donne da quelle tombe che per un giorno all’anno diventavano il desco familiare!

A questo proposito vogliamo ricordare la testimonianza di un nostro coetaneo, che ci ha raccontato commosso di tutte le volte che, da ragazzo, accompagnava la propria nonna, ogni 2 Novembre, sulla tomba del proprio marito e la andava a riprendere solo la sera, quando il cimitero chiudeva. La nonna per tutto il giorno parlava con suo marito, mangiava con lui, pregava per lui, gli dava compagnia e consolazione ed altrettanta ne riceveva nella sua fedele ed amorevole vedovanza.

Mangiare con i propri cari. Già! Il cibo è sempre stato il filo che ha cucito e ricucito le famiglie nel loro allontanarsi e riavvicinarsi ed è sempre stato legato alle offerte ai defunti e per i defunti. Ogni cultura ha declinato questo concetto secondo le proprie usanze, ma il significato è rimasto sempre lo stesso: condividere qualcosa con i propri cari.

Non ci addentreremo nelle tradizioni culinarie delle festività dei defunti degli altri Popoli o anche solo delle altre regioni di Italia, ci concentreremo soltanto sulle nostre.

I REGALI AI BAMBINI – In Sicilia la Commemorazione dei Morti è diventata una festa a tutti gli effetti e con tanto di regali per i bambini. E’ particolarmente commovente che i bambini, simbolo della vita che si rinnova e che porta con sé il futuro dell’umanità, vengano educati al ricordo affettuoso dei propri parenti morti; questi ultimi una volta l’anno ritornano sulla terra per donare qualcosa che mantenga vivo il ricordo: una volta l’anno, così, il passato incontra, arricchisce e tangibilmente protegge il futuro dell’umanità, nella figura dei nipotini, dei figli, dei fratellini più piccoli.

Nella tradizione della Festa dei Morti, i bambini venivano invitati dai genitori a mettere sotto il letto un cesto (‘U cannistru ri Morti) ed a recitare una filastrocca augurale (per ricevere tanti buoni regali!):

Armi Santi, Armi Santi, io sugnu uni, vuatri siti tanti: mentre sugnu ‘ntra ‘stu munnu di guai, cosi di morti mettitiminni assai”.

E così la mattina del 2 Novembre tutti i bambini, felicemente carichi dei doni ricevuti, incontrandosi si chiedevano l’un l’altro:

Chi ti purtaru i morti?”.

Da qui l’immancabile risposta:

“’U pupu cu’ l’anchi torti”.

Ma tralasciando questo lato commovente della festività, vediamo più da vicino ciò che di concreto essa offre a chi vive (ed alla fine i cibi se li mangia!). Cominciamo col dire che queste pietanze sono quasi tutte dolci!

I DOLCI DEI MORTI – Tra i dolci tipici del “periodo dei Morti” abbiamo i biscotti Tetù (detti anche biscotti “Teio e Tetù”: uno io a l’altro tu), i dolci al miele, le Ossa di morto (biscotti bianchi e duri, come ossa di morto appunto), la frutta di Martorana ed in particolare le fave dolci di Martorana (che cristallizzano in se stesse la tradizione romana delle Lemuria di esorcizzare le anime dei defunti disgraziati, vaganti senza pace, gettando fave e altri legumi per terra e recitando contemporaneamente delle litanie di liberazione), ed in ultimo, last but not least, le immancabili regine del Cannistru ri Morti: le Pupe di zucchero o, come si dice a Palermo, “le Pupaccene”.

LE PUPACCENE – Le Pupaccene sono all’apparenza delle semplici statue di zucchero, ma coniugano in se stesse secoli di tradizioni, di riti antropologici, di simbolismi complessi, come solo la nostra cultura siciliana a volte può fare. In passato, per la Festa dei Morti, i bambini poveri ricevevano solo qualche dolcino, i bambini ricchi ricevevano sia dolcini che giocattoli. Le famiglie del ceto di mezzo e che comunque se lo potevano permettere mettevano nel “Canistru ri l’Armi Santi” le Pupaccene, che univano in un’unica spesa il dolcino ed il giocattolo.

All’inizio, le Pupaccene cominciarono ad essere modellate secondo le forme delle antiche dame e degli antichi cavalieri, o anche di vere e proprie bambole, se erano da regalare alle bambine. In tempi più recenti, con l’evoluzione dei giochi e degli eroi dei più piccoli, le Pupe di zucchero hanno preso le forme dei cartoni animati più gettonati o dei calciatori più seguiti (un po’ come accade per i personaggi del Presepe di San Gregorio Armeno).

L’origine delle Pupaccene è antica, ma il preciso periodo storico in cui situare tale origine è sicuramente nebuloso. Almeno due sono le leggende che ne raccontano i natali.

La prima ci narra di un (ex ricco) nobile arabo che, per rallegrare i commensali durante una cena, in mancanza di cibo, fece fare dai propri pasticceri delle statue di zucchero, delle “pupe”, che vennero disposte sulla tavola, “a cena”, appunto, accanto agli stessi invitati.

L’altra leggenda racconta che delle statue di zucchero vennero modellate per la cena in onore di Enrico III a Venezia, nel XVI secolo. Di questi “pupi invitati a cena”, i marinai palermitani, che avevano trasportato tutto lo zucchero necessario per la loro manifattura, ne diedero notizia al rientro a Palermo e, da quel momento, i pasticceri palermitani si sbizzarrirono nell’arte di modellare lo zucchero, appropriandosi, di fatto, di questa tradizione.

Nei secoli e successivi, soprattutto tra le famiglie povere, che non potevano acquistare lo zucchero per i normali usi alimentari, regalare o ricevere una “Pupaccena”, era un modo per far felice un bambino, decorare la casa e alla bisogna avere un po’ di zucchero per le bevande.

Peraltro, nella tradizione siciliana antica che affonda le sue radici nella cultura dell’Impero Romano non si era mai del tutto dimenticata l’usanza di costruire delle bambole di lana a scopo protettivo in onore della dea Mania, madre degli spiriti, in occasione delle Compitalia, altra festività dedicata ai defunti, festività sempre collocata nel periodo tardo autunnale ed i cui dolci dedicati erano a base di miele.

Ma il significato della Pupaccena potrebbe anche essere un altro ancora.
In Sicilia, l’arte di modellare lo zucchero nei secoli scorsi venne richiesto dagli ecclesiastici anche per modellare degli agnelli di zucchero. Questi agnellini, durante la Santa Messa in Cena Domini del Giovedì Santo, dopo l’offertorio, venivano sgozzati e rotti in tanti piccoli pezzi ed offerti ai fedeli dopo la Comunione, a simboleggiare l’Agnello di Dio che si fa Cibo per i fratelli. Tale usanza è tuttora viva in alcuni paesi della Sicilia.

In ultimo, le Pupaccene antropomorfe, apparecchiate sulle tavole festive in onore dei defunti, potrebbero anche intendersi come effigie degli stessi defunti, che rimangono in casa a fare compagnia ai loro familiari viventi e ne diventano anche conforto e nutrimento, in una sorta di retaggio di un’antica “patrofagia”, volta ad arricchire i vivi dei pregi dei loro cari morti.

Come vediamo, le stratificazioni culturali hanno attribuito alle Pupaccene vari significati, probabilmente tutti veri, sovrappostisi l’uno all’altro lungo il corso dei secoli e con l’avvicendarsi delle dominazioni in Sicilia.

I MORTI NELL’AMERICA LATINA – Merita ricordare nel nostro breve excursus sulla Festività dei Morti che in un altro Continente, all’altro capo del Mondo, un Popolo simile al nostro per cultura Latino-cattolica, il Popolo Messicano, celebra una festa simile alla nostra: “El Dia de Muertos”. Una festività che coniuga i riti della cultura precolombiana con le ricorrenze religiose cattoliche. Le usanze sono le stesse: le processioni per visitare i defunti, la condivisone del cibo con loro, l’apparecchiatura di altari e tavole con immagini dei morti, con il Crocifisso posto a loro protezione, con i cibi rutilanti ed abbondanti. Il tutto ovviamente “dopato” dalla baroccheggiante cultura spagnola che l’ha traghettato ai tempi moderni.

Le Pupaccene sono sostituite, in questo caso, dai “Calaveras”: teschi di zucchero, arricchiti da decorazioni multicolore.

A questo proposito ricordiamo di avere letto uno scritto di antropologia in cui questa colorita festosità veniva contrapposta alla sbiadita e cupa festa dei morti nel nostro Paese. Insomma: ma l’avete presente una Pupa di zucchero? I colori sono molteplici, sgargianti e contrastanti e, come se non bastassero, vengono accompagnati da decorazioni di carta dorata, da merletti di glassa reale, da corone ed elmi grondanti di zuccherini luccicanti.

E delle Frutta di Martorana che vogliamo dire? Il più spoglio Novembre diventa una Primavera di colori se solo guardiamo il banco di un pasticcere palermitano addobbato per la Festa dei Morti.

La meravigliosa e singolare tradizione delle “Pupaccene” e del ricordo dei Morti si sta ormai quasi perdendo, anche se da qualche anno, come uno sprazzo di luce nel buio, varie associazioni culturali siciliane hanno cercato di riavvicinare i bambini della nostra Isola con i loro accompagnatori adulti alle tradizioni, ripristinando le “Feste di zucchero” nelle piazze siciliane, la notte tra l’1 ed il 2 Novembre.

Comunque, nonostante questo, le nostre tradizioni rimangono sempre boccheggianti.

A Palermo, per quanto ne sappiamo (speriamo di ottenerne smentita), una sola famiglia di pasticceri, la famiglia Rosciglione, continua ancora la produzione di Pupe di zucchero e ne tramanda i segreti dell’arte di padre in figlio. È un’arte complessa che richiede grande manualità e pazienza per il modellamento della “pupa” e raffinato gusto artistico per la sua decorazione.

Prima si comincia sciogliendo zucchero, acqua e cremor tartaro (per sbianchire lo sciroppo), precisamente dosati, in un “busunetto” (una pentola con un manico lungo). Quando la miscela è arrivata ad ebollizione, fuori dal fuoco si mescola fino a farla diventare biancastra. A questo punto si sposta di corsa il busunetto incandescente nella zona dei calchi (calchi di gesso, costruiti con maestria dai “gessari” palermitani).

I calchi, fatti di una faccia anteriore, cesellata, e di una posteriore, quasi liscia, tenute assieme da forti elastici, preventivamente inumiditi in acqua, vengono riempiti di zucchero fuso, ruotati e capovolti, affinché lo zucchero si incunei in ogni piega del calco e l’eccesso possa colare via per essere riutilizzato. La base dei pupi di zucchero viene quindi limata ed alleggerita ed una quota ulteriore di zucchero ancora morbido viene spalmato dentro la base del pupo per renderlo stabile. Quando la statuetta si è raffreddata, dopo che il pupo ha assunto una consistenza dura, viene tolto dal calco, molto delicatamente per non frantumarlo, e tinto con colori sgargianti, ottenuti naturalmente: il giallo dallo zafferano, il verde dalla clorofilla di alcune verdure, il marrone dal cacao, il nero dalla seppia, il rosso dal pomodoro, e così via dicendo.

Quante belle usanze ormai rischiano di cadere in disuso! I bambini, non più educati al ricordo del passato ed al concetto dell’avvicendarsi di morte e vita, si volgono consumisticamente ad una festa – la citata Halloween – nata in altri Paesi, con ben altri significati, festa che hanno accettato, loro ed i loro genitori, perché è di moda, solo per travestirsi da scheletri, zucche, zombie, vampiri, streghe in uno scimmiottamento macabro del Carnevale.

Ci chiediamo allora: che messaggio spirituale ed intellettuale lascia una tale festa nell’animo e nella mente di chi la vive? E, se un’esperienza di vita, una lettura, un film non lasciano un ricordo, un dono, un messaggio per migliorare se stessi, beh, a cosa sono serviti? Il tempo della vita non è poi così tanto, e la Festa dei Morti ce lo ricorda.

Dolcetto o scherzetto?

Regaliamo ai nostri bambini un racconto, un ricordo dei cari defunti, insegniamogli a recitare una preghiera per chi li ha preceduti e li protegge, affinché, magari, ne abbiano da loro in cambio una bella Pupaccena.

P.s.

Alcune delle notizie riportate in questo articolo sono state approfondite nel libro di Salvatore Farina, ‘Dolcezze di Sicilia’ e dal sito Siciliabella.eu

Foto tratta da Balarm

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