Ecco come i governi nazionali rubano risorse alle regioni

8 novembre 2015

I governi nazionali non solo “non danno” ma “prendono”.  Somme per centinaia e centinaia di milioni che fanno il percorso inverso: dalla periferia al centro. Il dubbio, se non la certezza, è che le risorse che tornano a Roma, prelevate in modo più o meno coattivo, finiscono per finanziare non politiche d’investimento “ordinarie” ma politiche d’emergenza anticongiunturali

Dopo l’interessantissimo articolo sull’Intesa di programma Stato-Regione Siciliana, che in teoria doveva avviare una nuova stagione nei rapporti tra Roma e Palermo portando con sé tutta una serie di interventi ad hoc, ma che è finita nel cestino, Carlo Aragona, analista di politiche istituzionali e dello sviluppo, ci svela i trucchi attraverso i quali i Governi nazionali scippano risorse alle regioni. Parliamo di centinaia e centinaia di milioni che fanno il percorso inverso: dalla periferia al centro.

di Carlo Aragona

Tutti indignati, se non altro a parole: nel disegno di Legge di Stabilità 2015 presentato nelle scorse settimane dal Governo al Parlamento “non c’è niente” – è stato detto – per il Sud. Strana indignazione. Quando c’erano governi di centrodestra si indignava l’opposizione di centrosinistra.

Ora si replica a parti invertite. Ora c’è chi a destra pensa che la “dimenticanza” del Mezzogiorno sia ascrivibile agli “ultimi tre governi: Monti, Letta, Renzi” ed in particolare alla indifferenza personale che Matteo Renzi deve avere nei confronti del Meridione.

La realtà è ben diversa. Sono quasi venti anni – e gli annuali Rapporti Svimez sul Mezzogiorno lo confermano – che la “Questione meridionale” è sparita dall’agenda politica nazionale, sostituita dalla “Questione settentrionale”. Sostituzione che ha visto trasversalmente impegnati esponenti del centrosinistra (da Cacciari a Chiamparino) e del centrodestra (da Berlusconi a Bossi, a Tremonti). Il Sud come zavorra, fastidio ed origine di tutti i mali del paese, dalla criminalità al malaffare, all’incapacità produttiva ed economica.

Gli ultimi tre governi di loro hanno calato il carico da undici: il risanamento delle finanze statali tutto rovesciato sulle Regioni e sugli Enti Locali. Tagli a colpi di motosega, non di forbici, e investimenti e servizi, a partire da quelli sanitari e sociali, che spariscono. Non si provvede più a manutenzioni stradali da anni. E infatti le condizioni delle nostre strade sono sotto gli occhi di tutti. Nei secoli scorsi la viabilità in Sicilia era così precaria che se per affari o commercio occorreva recarsi da Messina a Palermo o viceversa si preferiva farlo navigando sottocosta. Finiremo per tornare a questa modalità visto lo stato disastroso di autostrade e strade isolane?

Il paradosso è che i fondi comunitari scoraggiano la realizzazione di nuove strade e non sono ammissibili per le manutenzioni, per le quali dovrebbero provvedere le cosiddette “politiche ordinarie nazionali” ovvero quelle finanziate con risorse statali e regionali. Da tempo inesistenti. Con fondi europei si potrebbe intervenire sulle tecnologie per la viabilità. Così potrebbe persino andare in scena il paradosso che le nostre autostrade diventino un concentrato spettacolare di cartellonistica elettronica computerizzata, con mille mirabolanti indicazioni piantate ai bordi di arterie nelle quali l’asfalto è un ricordo, con sconnessioni e buche pericolosissime. Allo stesso modo in città potremmo vedere installati avveniristici cartelli elettronici digitalizzati nelle fermate del trasporto pubblico locale che ci informano non entro quanti minuti ma addirittura entro quanti secondi arriverà il prossimo autobus.

Salvo dover constatare rassegnati che in quella linea circola solo un autobus ogni tre ore perché le “politiche ordinarie” non esistono più e non c’è un centesimo per acquistare bus nuovi o riparare quelli che mostrano in pieno il peso di centinaia e centinaia di migliaia di chilometri di percorrenza.

I governi nazionali non solo “non danno” ma “prendono”. Probabilmente non è del tutto chiaro nell’opinione pubblica che le tanto vituperate e spendaccione Regioni debbono assicurare allo Stato la copertura finanziaria del concorso al risanamento della finanza pubblica, per la quale si attinge a piene mani alle risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione (FSC, ex FAS) 2000-2006 e 2007-2013. Trasferimenti all’inverso che per le strutture amministrative delle Regioni hanno né più né meno lo stesso effetto di uccidere un uomo mezzo morto.

In questo contesto la vicenda del PAC (Piano di Azione Coesione) è emblematica. Il PAC, fortemente voluto da Roma ed accettato da Bruxelles, è consistito nella riduzione a metà del cofinanziamento nazionale degli interventi comunitari. Per semplificare: mentre in anni precedenti ogni progetto comunitario si componeva di un 50 per cento del suo costo sborsato dal bilancio dell’Unione Europea e di un 50 per cento sborsato da Stato e Regione (nella misura rispettivamente del 70 per cento il primo e il 30 per cento la seconda) a partire dal 2012 lo Stato, a corto di risorse e con le casse sempre più vuote, ha progressivamente ridotto la quota di cofinanziamento nazionale. Ora in ogni progetto finanziato con i fondi strutturali FESR e FSE le percentuali sono 75 per cento bilancio comunitario e 25 per cento bilancio statale e regionale. Il 25 per cento di quota nazionale che non contribuisce più a cofinanziare interventi comunitari confluisce nel PAC, in teoria un nuovo programma di interventi con tempi meno contingentati per la spesa.

Ma il PAC, meno normato delle politiche comunitarie, rischia di fare la stessa fine del Fondo di Sviluppo e Coesione (FSC) – ex fondi FAS per intenderci – ai tempi di Tremonti quando veniva definito “il bancomat del governo nazionale”: il FAS, destinato ai territori depressi del Sud, finì per finanziare anche iniziative dalle parti dei grandi laghi lombardi!

Ogni motivo è buono per riprendersi risorse del PAC – stornate dai Programmi Operativi comunitari regionali ed assegnate ai PAC regionali – e farle tornare a Roma: dai ritardi realizzativi mai definitivamente concordati nelle scadenze a paradossi che hanno fatto scattare ricorsi a tutto spiano alla Corte Costituzionale e ai Tar da parte di più Regioni. Paradossi come quello di trasferimenti di risorse PAC a qualche Regione dell’Italia centro-settentrionale quasi dimezzati prima ancora di giungere a destinazione (altro che ritardi realizzativi!).

Ricorsi sono stati presentati dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia, Puglia, Sicilia. Per ora. Somme per centinaia e centinaia di milioni che fanno il percorso inverso: dalla periferia al centro. Su 2,1 miliardi di risorse PAC assegnate complessivamente alla Sicilia nei mesi scorsi Roma ha già presentato il conto facendo sapere che – ai sensi della Legge 190 del 2014 – nelle quattro annualità dal 2015 al 2018 si riprenderà diverse centinaia di milioni.

Magari li reinvestisse, gestendoli direttamente, nel Mezzogiorno e in Sicilia in particolare. In realtà l’esperienza insegna che il “faccio da me” di Roma non sempre brilla per tempi di realizzazione, lunghi esattamente come quelli di Regioni ed Enti Locali. E magari li reinvestisse a sua gestione diretta. Il dubbio, se non la certezza, è che le risorse che tornano a Roma, prelevate in modo più o meno coattivo, finiscono per finanziare non politiche d’investimento “ordinarie” ma politiche d’emergenza anticongiunturali (cassa integrazione e simili). Importantissime e necessarie in fasi recessive. Ma sono politiche-tampone e non politiche di sviluppo. Consentiranno alle tante famiglie in debito d’ossigeno di chi è stato licenziato di pagare esose bollette di acqua, luce e gas. Consentiranno di mantenere un livello da sopravvivenza dei consumi.

Ma non faranno crescere il paese, non produrranno interventi, per quanto ci riguarda direttamente non consentiranno alle regioni meno dotate di recuperare il gap infrastrutturale rispetto a quelle più attrezzate.

Con ciò condannandole all’endemizzazione del loro sottosviluppo.

 

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