Quando Mussolini voleva interrare lo Stretto di Messina per unire la Sicilia all’Italia

10 ottobre 2021
  • 45esima puntata della Storia della Sicilia del professore Massimo Costa
  • L’ascesa del Regionismo
  • Il Commissariato Civile del Codronchi, il Memorandum dei “Fasci” e l’Autonomismo cattolico
  • La Rivoluzione Industriale siciliana interrotta dalle politiche protezionistiche italiane
  • … e partono i bastimenti 
  • L’omicidio Notarbatolo
  • Il “Progetto Sicilia” di Ignazio Florio
  • I “popolari” conquistano le amministrazioni delle principali città
  • Il Comitato “Pro Sicilia”
  • L’Autonomismo quasi-separatista di Nasi e del giovane Finocchiaro Aprile
  • Tutto bloccato dalla I Guerra mondiale
  • La Sicilia si mette di traverso all’ascesa del Fascismo
  • … ma alla fine è costretta a piegarsi
  • Il fascismo de-industrializza la Sicilia, chiude la Corte di Cassazione e confisca le riserve auree

di Massimo Costa 

L’ascesa del Regionismo

E la repressione non poteva durare all’infinito mentre i tempi cambiavano. L’estensione del diritto di voto, voluta dalla Sinistra, favoriva alla lunga l’opposizione. Molti enti locali erano stabilmente amministrati dai “regionisti” (autonomisti) che a Roma erano isolati e non ottenevano nulla per la Sicilia ma che costituivano il nerbo della classe dirigente dei tempi. Anche il socialismo – come detto – non poté essere fermato. Catania mandò stabilmente per anni De Felice Giuffrida alla Camera, leader socialista siciliano di cui s’è detto. Nel frattempo anche il mondo cattolico si andava riorganizzando dopo la vera e propria dittatura liberale che datava dall’Unità d’Italia.

Il Commissariato Civile del Codronchi, il Memorandum dei “Fasci” e l’Autonomismo cattolico

Crispi stesso, poco prima di essere sconfitto elettoralmente, stava pensando di metter mano ad una qualche forma di moderato decentramento amministrativo e di riforma del latifondo, quando la battaglia di Adua e il successivo crollo del suo governo fecero passare la mano sulla Questione Siciliana al suo successore. Nel 1896 ritornarono al potere i moderati, dopo un ventennio di opposizione. Ma la
nuova destra, del Di Rudinì, siciliano, era piuttosto diversa dalla vecchia Destra Storica. Intanto era “trasformista” non meno della Sinistra che aveva governato in precedenza. E poi era meno caratterizzata in senso nordista della prima. Di Rudinì, anche se era stato campione dell’Unità ai tempi del “Sette e mezzo”, era pur sempre un siciliano, non insensibile nei confronti dei problemi dell’Isola. Tentò un decentramento nel 1896, sostituendo ai Commissari militari dello stato d’assedio, un Alto Commissariato Civile che coordinasse l’amministrazione pubblica in Sicilia, un po’ come gli antichi Luogotenenti, un po’ anche per rispondere alle pressanti esigenze di decentramento. A questo Commissario i Socialisti di Palermo, eredi dell’esperienza dei Fasci, presentano un celebre memorandum per la soluzione della Questione Siciliana, che era sì sociale ed economica, ma anche politica. I socialisti chiedono Autonomia per la Sicilia, dopo più di 30 anni di occupazione militare nordista e di continue repressioni, l’introduzione del suffragio universale e la nazionalizzazione
dell’industria zolfifera. L’autonomismo dei socialisti siciliani, però, fu ancora una volta sconfessato da quelli italiani, in Parlamento a Roma, determinando tra le due formazioni una progressiva frattura. Solo i cattolici moderati diedero ascolto alle richieste che venivano dalla Sicilia, ma naturalmente non se ne fece nulla. Il Commissariato Civile del resto durò solo un anno (1896-97), sia perché era nato come un esperimento provvisorio, sia per la fiera opposizione parlamentare, che vide in questo esperimento una sorta di attentato all’Unità d’Italia.

La Rivoluzione Industriale siciliana interrotta dalle politiche protezionistiche italiane

Gli anni ’90 avevano visto la Sicilia, e soprattutto Palermo, protagonista di una piccola rivoluzione industriale, partita da lontano, e guidata soprattutto da capitale straniero e dai settori dei trasporti navali, del vino e dello zolfo. Principali protagonisti di quest’epoca furono i Florio, famiglia industriale locale, proveniente dalla Calabria. La Sicilia della Belle Epoque è segnata dallo stile Liberty e dall’illusione di creare un polo di sviluppo economico contrapposto a quello del Triangolo industriale, culminato nell’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-92. Ciò che mancò all’industria siciliana fu, ancora una volta, il sostegno di uno stato, mentre quello italiano era sistematicamente rivolto a difendere gli interessi dell’economia nordista e ciò, sulle lunghe distanze, avrebbe fatto la differenza. È pur vero che con il Regno d’Italia la Sicilia conobbe finalmente le ferrovie, quando il Regno delle Due Sicilie aveva appena licenziato un “progetto” nel 1860, che poi sarebbe stato continuato dal nuovo regime. Ma la realtà è che la Sicilia, come nel passato regime, era sempre la “retroguardia” del Paese, dove gli investimenti e le innovazioni arrivavano, certo, ma buone ultime dopo che tutte o quasi le altre aree del paese erano state servite. Così, il regime borbonico era arrivato a introdurre i francobolli in Sicilia solo nel 1859, un anno prima del suo collasso. Così, dopo un lungo progetto che era portato avanti da decenni, e dopo la liquidazione definitiva dei vecchi “banchi comunali”, nel 1860, si diede vita alla prima Cassa di Risparmio siciliana (la “Vittorio Emanuele”) che poi nel tempo sarebbe diventato il secondo istituto di credito nell’Isola. Ma nel complesso gli investimenti in infrastrutture siciliane erano sempre particolarmente lenti. Solo nel ’900 inoltrato poté essere completata la ferrovia Palermo- Messina. Solo nel 1919 fu istituita la prima “Scuola superiore di commercio” a Palermo (antenata delle Facoltà di Economia e Commercio), quando a Venezia era stata istituita già nel 1869. E così potrebbe dirsi per qualunque altra branca dell’amministrazione o degli investimenti pubblici.

… e partono i bastimenti…

Nel frattempo l’emigrazione, soprattutto verso “le Americhe” raggiungeva proporzioni mai conosciute prima d’allora. La Sicilia, da sempre e soltanto terra d’immigrazione nella sua lunghissima storia, dopo l’Unità d’Italia diventava terra di emigrazione, anzi di vero e proprio esodo. Qualche beneficio tuttavia si ebbe da questa ondata di emigrazione: l’innalzamento dei salari agricoli per il rarefarsi della
manodopera rurale, il ritorno e il reinvestimento terriero degli “americani”, agli inizi del XX secolo, con una progressiva erosione dell’eterno latifondo.

L’omicidio Notarbatolo

Gli ultimi anni del secolo e i primi del nuovo videro una polarizzazione autonomista della politica siciliana, e per la prima volta una aggressione mediatica italiana nei confronti della Sicilia in quanto tale, accusata in blocco di essere mafiosa o comunque terra dell’illegalità. In effetti la mafia ormai dominava incontrastata, e lo aveva dimostrato con l’uccisione dell’integerrimo Cav. Notarbartolo che aveva rilanciato il Banco di Sicilia facendone una grande banca nazionale, ma impermeabile alle pressioni di certo potere locale. Dell’uccisione fu ed è considerato storicamente responsabile il deputato crispino Raffaele Palizzolo, referente politico della mafia, ma non si arrivò mai a una condanna definitiva, essendo questi assolto per insufficienza di prove, forse per immancabili appoggi nella Roma che
contava.

Il “Progetto Sicilia” di Ignazio Florio

Il capitalismo nascente siciliano, l’unico presente a sud di Roma, non solo non era facilitato dal Governo italiano, ma addirittura era osteggiato. Fu il più importante degli industriali siciliani del tempo, Ignazio Florio, a comprendere che per difendere la Sicilia occorreva un’azione politica. Fondò a tale scopo il giornale “L’Ora” a vocazione apertamente meridionalistica, e riuscì a creare un fronte comune
con gli agrari, intorno al “Progetto Sicilia”, contro le politiche liberticide e antimeridionali del Pelloux. Nonostante la stragrande vittoria elettorale alle elezioni politiche del 1900, i deputati siciliani non si rivelarono determinanti per le maggioranze nazionali, e quindi l’Italia continuò a perseguire le sue politiche protezionistiche antisiciliane. La Sicilia stava pagando ora, ancora una volta, l’assenza di uno
stato proprio a difendere la spontanea rivoluzione industriale che aveva conosciuto, e veniva così condannata al regresso economico. L’uccisione di re Umberto I, e la strategia della tensione che ne derivò, fecero sfilare gli agrari dalla coalizione, facendo deflagrare il progetto politico così difficilmente imbastito.

I “popolari” conquistano le amministrazioni delle principali città

Nelle grandi città, ancora, le sinistre “popolari” (essenzialmente socialiste, ma anche radicali, repubblicane, etc.) avevano preso il potere, tanto a Palermo (con il principe “rosso” Alessandro Tasca di Cutò), quanto a Catania, quanto a Messina. La Sicilia sembrava una polveriera. Nel fronte “popolare” si segnala ora un nuovo impegno dei cattolici in politica, guidati da Luigi Sturzo; questi non sono più notabili o clericali, ma ormai sensibili alle esigenze sociali dei ceti più deboli e avviati a costituire una nuova formazione di massa, man mano che la partecipazione alle elezioni si estendeva sempre più (nel 1913 le prime elezioni a suffragio quasi universale).

Il Comitato “Pro Sicilia”

Ci furono altri conati sicilianisti, anzi indipendentisti, nella Sicilia della Belle Epoque. Uno fu quello legato al citato processo di mafia contro Raffaele Palizzolo. Il linciaggio mediatico che avvolse la Sicilia nel caso ebbe sostanzialmente l’effetto di fare solidarizzare gran parte della classe dirigente siciliana con il poco raccomandabile deputato “di sinistra” (sinistra liberale naturalmente, la sinistra “vera”, di
Colajanni, peraltro anche lui sicilianista, lo avversò sempre), attaverso il comitato “Pro Sicilia”. Ma fu un’agitazione di breve durata, anch’essa a suo modo spia dell’insoluta Questione Siciliana.

L’Autonomismo quasi-separatista di Nasi e del giovane Finocchiaro Aprile

Più seria e diffusa fu la sollevazione politica a favore del Ministro trapanese Nunzio Nasi, accusato per motivi sostanzialmente futili, e “reo” in realtà di opporsi al blocco di Giolitti tra l’industrialismo del Nord e gli agrari del Sud, contro gli interessi dell’industria e del commercio estranei a questo accordo, in particolare a quelli dell’imprenditoria siciliana, proprio dal Nasi rappresentata. Di questi anni è la
nascita di un primo partito sicilianista organizzato: il Partito Siciliano, nel 1908, ma in realtà più “lobby interpartitica” che non partito vero e proprio nel senso moderno del termine. La dura esperienza giudiziaria fece maturare a Nasi un forte orientamento autonomistico, che culminò in un programma politico nel 1913. Il “nasismo”, tra i cui sostenitori troviamo un giovane Andrea Finocchiaro Aprile, attirava molti esponenti politici siciliani di varie estrazioni, ma non arrivò mai forse a raggiungere quella massa critica necessaria ad influenzare stabilmente gli equilibri nazionali.

Tutto bloccato dalla I Guerra mondiale

L’entrata dell’Italia nella I Guerra mondiale congelò infatti questa ventata di autonomismo e
popolarismo, sospendendo la vita politica normale e mobilitando tutto il Paese per la Grande Guerra.
La Sicilia diede decine di migliaia di morti per una guerra lontana e incomprensibile, dove molti coscritti
neanche comprendevano gli ordini perché dati in una lingua, l’italiano, ancora poco intelligibile per la
maggioranza dei Siciliani.

La Sicilia si mette di traverso all’ascesa del Fascismo

La vittoria – come è noto – non vide se non per pochi anni la ripresa di una vera vita politica liberale. Le elezioni a suffragio universale del 1913, quelle con il proporzionale nel 1919 e nel 1921, videro stabilmente in maggioranza le varie correnti del sicilianismo liberale di centro-sinistra, seguite dai socialisti riformisti (ex “fascisti siciliani”) e dai popolari sturziani, che declinarono anche loro l’autonomismo, ma questa volta di segno cattolico. Furono anni molto “caldi” dal punto di vista politico e sociale, caratterizzati da agitazioni e occupazioni di terre e di fabbriche. Gli agrari, anche loro con toni sicilianisti, forse addirittura separatisti, si organizzarono in un partito a sé. Nonostante la crisi politica, il liberalismo rimase egemone, soprattutto intorno alla figura di Vittorio Emanuele Orlando, almeno fino alle consultazioni amministrative del 1925, le ultime parzialmente libere. Più resistenti di tutti al fascismo si dimostrarono i democratico-sociali di Antonio Colonna di Cesarò, singolare figura di aristocratico antifascista, anticlericale e di ispirazione esoterica e teosofica: fu tra i protagonisti dell’Aventino e del fallito attentato a Mussolini del 1926.

… ma alla fine è costretta a piegarsi

La Sicilia, ad ogni modo, non ebbe il tempo di far sentire la propria voce dopo la Grande Guerra giacché fu schiacciata nuovamente dal Regime fascista (che nulla ha in comune con i Fasci siciliani, se non il nome e una vaga origine socialista). Regime alla cui nascita e diffusione la Sicilia non partecipò più di tanto, salvo poi essere costretta ad accettarlo senza per contro troppe reazioni, almeno in
superficie. Nei due plebisciti, del 1929 e del 1933, con le buone o le cattive, i Siciliani di sesso maschile furono costretti a dire SI ad una rappresentanza parlamentare in cui gli interessi territoriali erano quasi azzerati: 99,9 % di SI nel 1929, 100,00 % di SI nel 1933. Poi, dal 1937, non furono neanche più interpellati. Anzi i Siciliani escono del tutto dalla “Camera dei Fasci e delle Corporazioni” che prese il
posto della Camera dei Deputati, all’infuori degli 8 segretari federali del Partito Nazionale Fascista. Sotto il fascismo ogni barlume di attività politica in Sicilia fu divelto. Le uniche opposizioni clandestine che riuscirono a sopravvivere furono quelle del partito comunista, assai minoritaria e settaria, e di alcuni circoli sicilianisti che – poco a poco – avrebbero preso per reazione un colore definitivamente
separatista. Il fascismo portò avanti una politica di autarchia, come è noto. Questa comportava l’esistenza di un solo polo industriale in Italia. Per la Sicilia, che era l’unica regione del Mezzogiorno ad avere avuto una sorta di piccola rivoluzione industriale alla fine del secolo, questo significò lo smantellamento del sistema industriale e il ritorno alla retorica del “granaio dell’impero”. La posizione del regime sul
latifondo era quella di non spezzarne la proprietà, ma di favorirne la “colonizzazione”: si voleva cioè riportare la massa contadina, da secoli concentrata in borghi agricoli, dispersa nelle campagne. Ma tale politica fu un totale fallimento.

Il fascismo de-industrializza la Sicilia, chiude la Corte di Cassazione e confisca le riserve auree

Già Crispi aveva costretto a spostare da Palermo a Genova il centro dell’attività portuale italiana, costringendo la Flotta Florio a fondersi con la Rubattino di Genova, nella nuova Navigazione Generale Italiana. Le politiche industriali avevano da sempre favorito il Nord, ma sotto il fascismo questa politica fu accelerata e non fu consentita alcuna dinamica di segno opposto, per quanto debole. Il divario tra Nord e Sud accelerò durante il fascismo come mai era accaduto in più di mezzo secolo di storia unitaria. Gli ultimi residui di sovranità siciliana (la Corte di Cassazione e l’Istituto di Emissione) furono aboliti, le riserve auree siciliane confiscate e trasferite in Banca d’Italia senza alcun indennizzo. Pure va detto che, come in tutta Italia del resto, furono introdotte in Sicilia infrastrutture moderne, come la rete delle strade statali, o i primi aeroporti, o innovazioni sociali che andavano emergendo in tutta Europa, come le tutele previdenziali obbligatorie o la costruzione di nuovi insediamenti di edilizia popolare.

Aboliti i circondari, vengono create due nuove Province e sono cambiati i nomi di molti Comuni

Si deve al fascismo anche un cambiamento interno geopolitico stabile della Sicilia. Furono aboliti i circondari, che riflettevano ancora i vecchi distretti del Regno di Sicilia, e in cambio, oltre ad accentrare i poteri nei prefetti a capo delle Province, ne furono create due nuove: Ragusa (per trasformazione del vecchio distretto di Modica, già appartenente a Siracusa), ed Enna (per accorpamento dei distretti di
Nicosia e Piazza Armerina, già appartenenti, rispettivamente, a Catania e Caltanissetta). Notevole fu il ritorno dei nomi di molti Comuni per superare la presunta “barbarie” araba o medievale a quelli antichi greci: Monte di San Giuliano divenne Erice, Girgenti divenne Agrigento, Adernò divenne Adrano, Castrogiovanni divenne Enna, Terranova divenne Gela, e così via. Queste ridenominazioni sarebbero
state destinate a permanere oltre la caduta del regime, ma non così Ionia, tentativo di fusione tra Giarre e Riposto. Non fu possibile cambiare il nome invece a Caltanissetta, araba nel nome sin dalla fondazione e priva di precedenti classici.

La lotta alla mafia del Prefetto Mori e l’ossessione antisiciliana di Mussolini

Anche la mafia, come strumento di intermediazione tra Stato e Sicilia, da sempre organica alla politica del nuovo stato italiano, non fu più tollerata, giacché il regime non poteva dominare la Sicilia accettando poteri o mediazioni locali. Si diede inizio ad una spettacolare repressione del fenomeno, inviando in Sicilia il “Prefetto di ferro” Cesare Mori. I metodi di sradicamento furono brutali, ad esempio interrompendo le forniture di acqua a interi paesi, e forse colpendo più i contadini che i mafiosi. In realtà il sistema mafioso era stato inglobato nelle strutture di partito e della milizia e, quando il ‘Prefetto di ferro’ toccò i santuari di questa collusione, il suo lavoro fu dichiarato terminato ed egli fu trasferito altrove. Con tutto ciò la Sicilia non pareva del tutto pacificata. Mussolini ne era forse ossessionato. In un’affermazione si lasciò scappare che ne aveva affidato la gestione al “Ministro per le Colonie”, in altre che avrebbe voluto riedificare tutte le città siciliane, secondo un modello rinascimentale italiano, in modo da divellere ogni traccia dell’arte e della cultura siciliana, in altre ancora espresse il proposito di “interrare” lo Stretto di Messina, perché non si parlasse più di Isola. Il regime, in altri termini, percepiva l’alterità della Sicilia come una potenziale minaccia all’unità nazionale, ma non sapeva trovare altri strumenti che quelli della repressione. Come nei più bui giorni borbonici, lo stesso uso del termine “Sicilia” era mal sopportato se non riferito strettamente al dato geografico.

Fine 45esima puntata/ Continua 

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29 settembre 2021

 
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  • Storia della Sicilia del professore massimo Costa 44
  • La rivolta separatista del “Sette e mezzo” e la sua repressione
  • La Sicilia sotto il commissariato militare del Medici
  • Con la soppressione dell’Apostolica Legazìa (1871) la Chiesa di Sicilia perde la sua millenaria autonomia
  • Con la caduta della Destra Storica la mafia va saldamente al potere
  • Introduzione di un sistema scolastico moderno e declassamento politico del Siciliano a “dialetti”
  • L’inchiesta di Franchetti e Sonnino
  • L’irrisolta Questione Agraria
  • La “colonizzazione” siciliana del Nordafrica
  • Arrivano i Socialisti
  • I Fasci Siciliani
  • Al primo Congresso i Fasci divisi tra “Italianisti” e “Sicilianisti”
  • La repressione di Crispi e nuovo commissariamento militare sotto il Morra di Lavriano
  • Il misterioso “Trattato di Bisacquino”

STORIA DELLA SICILIA DEL PROFESSORE MASSIMO COSTA 44

La soppressione degli enti ecclesiastici occasione per la più grande rapina di risorse ai danni della Sicilia

di Massimo Costa

 

La Sicilia, dalle elezioni politiche del 1865 a quelle del 1876, dà la maggioranza dei seggi all’opposizione e sempre più con il passare degli anni. Il 1865 vede la spoliazione del colossale patrimonio accumulato nei secoli dagli enti ecclesiastici, i quali avevano sino ad allora svolto funzioni di previdenza e assistenza sociale, soprattutto per i ceti artigianALi urbani. Questo patrimonio verrà reinvestito solo in minima parte in Sicilia. Si trattò di una vera e propria rapina, che tra l’altro lasciò nella disperazione migliaia di famiglie isolane. In pochi anni il governo “moderato” era riuscito a mettere tutti d’accordo: repubblicani, sinistra moderata, indipendentisti o autonomisti, clericali, borbonici. D’accordo sul fatto che “si stava meglio quando si stava peggio”.

La rivolta separatista del “Sette e mezzo” e la sua repressione

Il 1866, proprio durante la III guerra d’Indipendenza italiana, a Palermo scoppia una rivolta separatista, che presto dilaga in altri centri dell’Isola. Fu chiamata “del Sette e mezzo” per la sua durata. Protagonisti delle barricate sono in gran parte le stesse persone che sei anni prima avevano fatto le barricate per Garibaldi. Si costituisce un Governo provvisorio guidato dal Principe di Linguaglossa. La repressione italiana, guidata dal generale Raffaele Cadorna, è spietata, a capo di un corpo di spedizione di ben 30.000 uomini. Palermo è cannoneggiata dal mare. I morti si contano innumerevoli e sono poi registrati come “morti per colera”. Solo il sindaco di Palermo, il Marchese Di Rudinì, resta fedele allo Stato italiano, asserragliato nel Palazzo di Città. Alcuni storici sospettano che tanta capacità di
resistenza sia stata favorita da interferenze straniere, ma a noi non pare un’interpretazione credibile. Il “Sette e mezzo” fu soltanto una risposta disperata, spontanea e acefala della Sicilia alla barbara invasione, a una delle più dure dominazioni mai subite durante la propria lunga storia.

 

La Sicilia sotto il commissariato militare del Medici

La Sicilia è nuovamente sotto stato d’assedio. Segue una nuova amministrazione militare dell’Isola, affidata ora al generale Medici. Per placare l’opinione pubblica internazionale, si dispone una commissione d’inchiesta parlamentare. Ma questa arriva a conclusioni che la storiografia considera come minimizzanti rispetto ai veri drammi dell’Isola, giacché lo Stato italiano non avrebbe potuto mai
mettere sé stesso sul banco degli imputati. Va dato tuttavia al Medici il merito di avere iniziato a migliorare la viabilità dell’Isola, attraverso un programma di costruzioni di strade e ferrovie. Probabilmente le comunicazioni erano allora viste come funzionali agli spostamenti delle truppe italiane d’occupazione, ma indirettamente favorivano la modernizzazione della Sicilia. Passato il primo trauma, del resto, sia pure faticosamente e piegato dal colonialismo interno, il Paese riprendeva un proprio cammino verso la modernizzazione e lo sviluppo economico, inarrestabile ovunque nell’Europa del secondo XIX secolo.

Con la soppressione dell’Apostolica Legazìa (1871) la Chiesa di Sicilia perde la sua millenaria autonomia

Dopo la presa di Roma, nel 1870, il piccolo partito borbonico svanisce del tutto, confluendo parte nel regionalismo siciliano, parte nel clericalismo. Lo Stato italiano, nella successiva “Legge delle Guarentigie” fatta per tentare di non esasperare i rapporti con il Papato, rinuncia (1871) all’antichissima Apostolica Legazìa sulla Sicilia, alla quale neanche l’Italia unita aveva sino ad allora rinunciato. Già il Papa nel 1864 con un suo “Breve”, non ancora riconosciuto dall’Italia, l’aveva ritirata cogliendo l’occasione della ormai definitiva scomparsa del Regno delle Due Sicilie; così la Chiesa romana, pur non riconoscendo la Legge delle Guarentigie, tornava in possesso del controllo sulla Chiesa siciliana dopo più di mille anni (da quando, nel 733, Leone III Isaurico, l’aveva tolta alla giurisdizione papale, poi restando autocefala anche nel periodo di dominazione musulmana, e sotto l’autorità del Gran Conte Ruggero alla “riconquista”, fino a quando, nel 1098, Urbano II, appunto con l’Apostolica Legazìa, si limitò a riconoscere la condizione di fatto per cui la Chiesa Siciliana era dipendente dal Re, in quanto Legato apostolico “nato”).

Con la caduta della Destra Storica la mafia va saldamente al potere

Negli anni ’70 non finiscono i provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza, militari e di polizia, contro la Sicilia, trattata ancora come un paese straniero occupato. Nel 1876, infine, la Destra storica è rovesciata alle elezioni. Ma la Sicilia che ora va al potere con la Sinistra è ormai una Sicilia “malata”: una classe dirigente più o meno apertamente mafiosa, in piena collaborazione con lo Stato. Le successive elezioni confermano questa maggioranza, già “azionista” e crispina, e ora trasformista. L’opposizione invece è ora rappresentata dalla destra dei moderati del Di Rudinì, e dalla sinistra estrema dei radicali.

Introduzione di un sistema scolastico moderno e declassamento politico del Siciliano a “dialetti”

Vi è però anche da dire che con la Sinistra viene resa obbligatoria e gratuita l’istruzione elementare; l’antico progetto della Costituzione siciliana del 1812 diventa realtà solo 70 anni dopo circa, dopo un indubbio, seppur lento, miglioramento generale della pubblica istruzione che data dall’Unità, quando venne estesa alla Sicilia la Legge Casati del 1859 che regolava la pubblica istruzione nel Regno di
Sardegna. Tale obbligo resta però in gran parte teorico, giacché è affidato alle esangui casse comunali, e la scolarizzazione, come la penetrazione della lingua italiana parlata, fa solo lentissimi progressi durante tutta l’epoca monarchica, essenzialmente grazie al servizio militare obbligatorio, alla scuola, alla I Guerra mondiale, con la sua leva di massa, e infine, sul finire di quest’epoca, durante il Fascismo, alla diffusione della radio. Man mano che l’italiano lentamente avanza, il siciliano arretra, soprattutto nella considerazione sociale, restando comunque il principale strumento di comunicazione tra siciliani nella vita di tutti i giorni. Dopo l’Unità d’Italia, esso viene politicamente e ideologicamente relegato a dialetto, e in quanto tale combattuto, o al più tollerato, ma evidenziandone le differenze di pronuncia e di grafia da distretto a distretto, tentando di far perdere quella tradizione letteraria unitaria che, nonostante il declassamento già subito in era borbonica, non si era fin lì perduta.

L’inchiesta di Franchetti e Sonnino

Fece scalpore in quegli anni l’inchiesta indipendente di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, molto meno ottimista di quella parlamentare. Segnata da taluni pregiudizi razziali e antropologici contro l’Isola, esprime pessimismo sull’integrazione della Sicilia con l’Italia e arriva paradossalmente ad individuare come unica soluzione alla Questione Siciliana l’indipendenza. «La Sicilia lasciata a sé troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari, e ce ne assicurano l’intelligenza e l’energia della sua popolazione, e
l’immensa ricchezza delle sue risorse».

L’irrisolta Questione Agraria

La Sicilia rientra ancora nella storia per la irrisolta Questione Agraria. Gli agrari sono ancora in possesso di vastissimi e improduttivi latifondi, non troppo diversamente dai tempi del feudalesimo. In Sicilia penetrano le idee socialiste, e queste hanno successo tanto tra gli operai e gli artigiani delle città, quanto soprattutto nelle campagne. Altro settore portante nel “primario” è lo zolfo. La Sicilia arriva ad estrarre i tre quarti dello zolfo mondiale, con metodi di produzione primitivi e rapporti di lavoro ai limiti della schiavitù (celebre il caso dei “carusi”, ragazzi di famiglie povere letteralmente venduti ai minatori, e che raramente arrivavano alla maggiore età); come nelle classiche colonie, tuttavia, la Sicilia non aveva quasi alcun ruolo nelle fasi successive di raffinazione dello zolfo o della realizzazione dei prodotti finiti.

La “colonizzazione” siciliana del Nordafrica

L’occupazione francese della Tunisia, nel 1881, rappresentò un duro colpo per il commercio siciliano, che si era molto espanso sulla sponda opposta; questo non arrestò però il flusso migratorio, da vera colonizzazione demografica, che si era spinto verso quel paese. Le speranze che l’Italia prendesse un’iniziativa coloniale su quel versante però erano venute meno, e la conquista, circa 30 anni dopo,
della Libia, non avrebbe avuto lo stesso effetto economico per la Sicilia, a parte il ruolo privilegiato che sarebbe stato assegnato al Banco di Sicilia, attraverso la controllata “Banco di Tripoli”, per l’emissione di moneta bancaria nel nuovo possedimento italiano.

Arrivano i Socialisti

Gli anni ’80 però vedono un’altra novità politica. Il mondo “socialista” si distingue ora nettamente dalla sinistra radicale estrema o repubblicana o anarchica e acquisisce una propria identità. Con il socialismo entrano in politica masse popolari che prima ne erano sempre state ai margini. È vero che, sin dai tempi dell’Antico Regime, il popolo era spesso intervenuto nelle rivolte, ma per “popolo” si
intendeva spesso soltanto le corporazioni artigiane o i borgesi dell’entroterra, non il vero proletariato. Questo era progressivamente entrato in gioco nelle diverse rivoluzioni ottocentesche, fino al “Sette e mezzo”, ma sempre in una posizione subalterna, consegnando la guida politica alla fin fine alle solite élite, più o meno aristocratiche. Adesso il popolo più minuto, artigiano, ma ora anche operaio, diventa un soggetto sociale e politico autonomo. Dapprima, già subito dopo l’Unità d’Italia, si erano costituite diverse “società di mutuo soccorso”, soprattutto dopo lo scioglimento delle corporazioni religiose che in passato avevano svolto funzioni assistenziali, ma progressivamente queste assunsero anche una dimensione sindacale. Il punto di fusione si ebbe quando questo mondo operaio e popolare, ma a poco a poco anche contadino, prese a incontrarsi con le idee socialiste.

I Fasci Siciliani

Lo strumento politico-sindacale di questo nuovo mondo fu il “Fascio”, cioè la riunione in unica associazione di più organizzazioni appartenenti a varie categorie produttive. In questi Fasci, per la prima volta assoluta nella storia, molte iscritte donne, sia pure con una loro sezione, che inaugurano così la loro partecipazione attiva alla vita pubblica siciliana. Se il primo “Fascio” ad essere costituito fu quello di Catania, nel 1891, ad opera del socialista (ma anche un po’ eclettico “cambiacasacca”) De Felice Giuffrida, più volte deputato, con finalità anche di tipo assistenziale, il più importante, dal punto di vista degli eventi successivi, fu quello di Palermo (aperto nel 1892, ad opera di Garibaldi Bosco), che divenne in breve il centro dell’agitazione “fascista” in tutta l’Isola. Se all’inizio questo si rivolgeva alle comunità operaie, ormai presenti un po’ in tutta l’Isola, ben presto il “fascismo siciliano” penetrò nelle campagne, tra i braccianti e i minatori dell’industria zolfifera, quasi sfuggendo di mano agli stessi organizzatori e diventando un fenomeno di massa. Ciò avvenne soprattutto dopo l’eccidio di Caltavuturo, nel 1893, quando l’esercito sparò su contadini colpevoli di avere occupato le terre demaniali di cui si era impadronita illegalmente la borghesia agraria del paese. Fu come una scintilla. In pochi mesi i Fasci in Sicilia contavano più di 70.000 iscritti, diventando così una minaccia per l’ordine costituito. Curiosamente, ma fino a un certo punto, il socialismo siciliano non aveva in sé nulla di materialistico o antireligioso, essendo tutt’al più anticlericale; si pensi che in tutte le sedi dei Fasci immancabile era l’immagine del Cristo e del santo protettore del paese. Intorno a questa massa contadina, intellettuali, ma anche borghesi illuminati e
aristocratici “pentiti” si convertivano alla bandiera rossa.

Al primo Congresso i Fasci divisi tra “Italianisti” e “Sicilianisti”

A maggio del 1893 si tenne Congresso e i Fasci si diedero un’organizzazione più stabile, sotto il coordinamento del Fascio di Palermo. Il Bosco voleva inserire stabilmente i Fasci nel nascente Partito Socialista dei Lavoratori Italiano; De Felice voleva invece creare un partito autonomo siciliano. Si arrivò al compromesso di avere una sorta di partito proprio, con tanto di Comitato Centrale, bensì federato e integrato nel socialismo italiano. Furono costituite federazioni provinciali. Del Comitato centrale fecero parte un rappresentante per ogni federazione provinciale, più tre per la sola federazione di Palermo, la più organizzata e potente. All’inizio i Fasci facevano solo scioperi e manifestazioni sindacali, senza alcunché di sovversivo o rivoluzionario. Ma ai tempi lo stesso sciopero era in sé un fatto percepito come sovversivo.

La repressione di Crispi e nuovo commissariamento militare sotto il Morra di Lavriano

I “borghesi” e gli “aristocratici” erano spaventati da questa presenza e chiesero aiuto al Governo, allora guidato dal siciliano Francesco Crispi. Questi impose lo stato d’assedio (1894) e affidò ancora una volta la Sicilia all’amministrazione militare, questa volta del generale Morra di Lavriano. I Fasci furono sciolti e i principali capi arrestati. Nonostante alcuni tumulti e la scelta, forse irresponsabile, del De Felice di puntare sull’insurrezione, il Governo ebbe la meglio. In Sicilia fu sospeso il diritto di associazione e riunione garantito dallo Statuto Albertino. Va anche detto che, nel momento decisivo, il Partito Socialista dei Lavoratori Italiano sconfessò i Fasci siciliani, determinandone il totale isolamento.

Il misterioso “Trattato di Bisacquino”

Crispi accusò in Parlamento i Fascisti di tramare con le potenze dell’Intesa (e in particolare con la Francia e la Russia) per “staccare la Sicilia dall’Italia”; ciò che sarebbe avvenuto in un misterioso “Trattato di Bisacquino”. Le opposizioni, a partire dall’autonomista Colajanni, ridicolizzarono l’accusa e ad essa gli storici oggi non danno molto credito. Sta di fatto che, ogniqualvolta la Sicilia alzasse la testa, arrivava implacabile l’accusa “infamante” di “separatismo”.

Ma la repressione non può sradicare la “Questione Siciliana”, che ormai non è solo più agraria ma politica

Degno di nota, segno di cambiamento dei tempi, fu il fatto che i dirigenti non vennero impiccati o fucilati, come sarebbe avvenuto solo trent’anni prima, ai tempi della Guerra al Brigantaggio, ma solo arrestati. Il processo, presso il Tribunale militare di Messina, si rivelò un boomerang mediatico per il Governo, che fu accusato di processare le idee, di essere ingiusto, di attaccare persone oneste colpevoli solo di difendere la povera gente. Nonostante le pene severissime comminate (fino a 18 anni di carcere), le questioni sociali e politiche poste restavano in agenda politica, né il socialismo era stato sradicato dalla Sicilia.

Fine 44esima puntata/ Continua

 

 
 

 

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