La strage di Piatrarsa del 6 Agosto 1863 e la storia del polo siderurgico di Mongiana

7 agosto 2021
  • Un post sulla pagina Facebook di Movimento 24 Agosto per l’Equità Territoriale ci fornisce l’occasione per raccontare non soltanto un eccidio odioso perpetrato dai Sabaudi, ma anche un pezzo di storia dell’industria e della siderurgia del Sud Italia prima della disgraziata unificazione italiana 
  • La storia di Pietrarsa
  • La storia di Mongiana
  • La tradizione ferriera calabrese
  • Il distretto siderurgico alla catalana
  • L’intervento statale
  • La parentesi napoleonica
  • Gli ultimi anni prima della conquista del Sud da parte dei piemontesi

Un post sulla pagina Facebook di Movimento 24 Agosto per l’Equità Territoriale ci fornisce l’occasione per raccontare non soltanto un eccidio odioso perpetrato dai Sabaudi, ma anche un pezzo di storia dell’industria e della siderurgia del Sud Italia prima della disgraziata unificazione italiana 

“All’indomani dell’Unità d’Italia, la borghesia settentrionale alla guida dello Stato unitario, non usò mezze misure e strinse un cappio al collo della promettente industria meridionale. È in questo contesto che il 6 agosto 1863 si compie il primo sciopero e il primo eccidio di operai dell’Italia unita, a Pietrarsa, nello stabilimento metalmeccanico che produceva locomotive e molteplici opere in ferro “di perfettissima qualità e di grosse dimensioni” voluto dall’amato Ferdinando II di Borbone. Un opificio che occupava oltre mille persone. Un gioiellino, il più importante nell’Italia di allora, che venne sacrificato per favorire l’Ansaldo di Genova alla quale andarono tutte le commesse pubbliche. Pietrarsa fu svenduta a uno speculatore privato, Jacopo Bozza, che licenziò un po’ alla volta oltre la metà degli operai, ridusse i salari e aumentò l’orario lavorativo. Alla prima protesta, peraltro pacifica, intervennero i bersaglieri sabaudi e lasciarono sul selciato i corpi di almeno quattro operai: Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso, Aniello Olivieri, i martiri di Pietrarsa, di fatto fucilati e poi dimenticati per via di una censura politica che mise a tacere giornali e testimoni”. Così scrive Pietro Fucile in un post ripreso dalla pagina Facebook del Movimento 24 Agosto per l’Equità Territoriale. Per noi è l’occasione per riprendere un articolo scritto da Domenico Iannantuoni. In realtà, non è uno scritto, ma un capitolo di un libro – Fegato – dove Domenico Iannantuoni racconta il Sud Italia poco prima della disgraziata unificazione italiana visto con gli occhi di un bambino. E ci racconta di Pietrarsa, in Campania, e del polo siderurgico di Mongiana, in Calabria.

La storia di Pietrarsa

Prima ricordiamo cos’era Pietrarsa: “Le officine di Pietrarsa, o Reale Opificio – leggiamo su Wikipedia vennero concepite nel 1840 da Ferdinando II di Borbone come industria siderurgica in grado di produrre materiale bellico e civile utilizzando anche il ferro proveniente dal Polo siderurgico di Mongiana. Una prima fabbrica era stata realizzata tra San Giovanni a Teduccio e Portici nel 1832, utilizzando il suolo precedentemente occupato da una batteria costiera. Il 22 maggio 1843 Ferdinando II emanava un editto nel quale era detto tra l’altro: È volere di Sua maestà che lo stabilimento di Pietrarsa si occupi della costruzione delle locomotive, nonché delle riparazioni e dei bisogni per le locomotive stesse, degli accessori dei carri e dei wagons che percorreranno la nuova strada ferrata Napoli-Capua. L’obiettivo era quello di affrancarsi dalla dipendenza estera nella produzione dei rotabili necessari al piano di costruzioni ferroviarie richiesto da più parti che prevedeva l’estensione fino allo Jonio e all’Adriatico delle linee iniziate sulla sponda tirrenica. Nel 1844, il 28 giugno, veniva iniziata la grande riparazione delle prime due locomotive a vapore denominate Impavido e Aligero che erano state costruite in Inghilterra. Nel 1845 iniziava la produzione di locomotive a vapore progettate e parzialmente costruite in Inghilterra ma montate in loco. Si trattò di 7 locomotive, che utilizzavano parti componenti costruite in Inghilterra, analoghe ai precedenti modelli acquistati nel 1843 che avevano inaugurato la prima linea ferrata italiana, la Napoli-Portici: erano la Pietrarsa, la Corsi, la Robertson, la Vesuvio, la Maria Teresa, la Etna e la Partenope… L’espansione della fabbrica continuò costantemente fino alla fine del Regno delle Due Sicilie fornendo materiale di ogni genere alle ferrovie del regno. Nel giugno 1860 Pietrarsa giunse ad occupare 1125 persone (850 operai stabili a cui si aggiungevano 200 operai occasionali e 75 artiglieri per il controllo dell’ordine) rimanendo (ma ancora per poco) la maggiore fabbrica metalmeccanica italiana”. Ci avrebbe pensato la ‘presunta’ unità d’Italia a distruggere lo stabilimento industriale di Pietrarsa.

La storia di Mongiana

Adesso Domenico Iannantuoni ci racconta cos’era Mongiana: “ … Discorrendo di Gioia Tauro (1), si richiamava Mongiana e il complesso di attività intercorrenti tra il suo stabilimento metallurgico e l’area circostante, dal cuore dell’aspra montagna appenninica ai centri vicini (Serra, Pazzano, Stilo, Bivongi) e agli approdi jonici e tirrenici (Squillace, Monasterace, Siderno, Pizzo e Nicotera). Mongiana!… Ma la vita, che del resto era molto dura altrove, anche fuori dalla Calabria e dal Regno borbonico, pulsava in molte direzioni, sicché dalla ferriera si irradiavano stimoli economici, sociali e tecnici e, com’era naturale, impulsi politici e culturali. Lo “statino” degli addetti alla ferriera … dà 762 unità: 250 “carbonieri”, 90 “minatori”, 100 “armieri”, 110 “mulattieri” e “bovari”; e con essi tecnici e operai specializzati, dai “capi officina” ai “macchinisti” ai “forgiari” ai “limatori” agli “accieri” ai “fornaceri” agli “staffatori” ai “ribattitori” ai “raffinatori” ai “magliettieri”: un’occupazione di buona dimensione per quei tempi e talora di ottima capacità tecnica alla quale deve sommarsi lo stuolo di artigiani, di piccoli commercianti, di manovali generici che vi era collegato nei mesi di più forte produzione. …E in ogni caso, non deve essere sottaciuto il fatto che, nel cuore dell’appennino calabrese, funziona… la più importante industria metallurgica borbonica, e per di più legata a materie prime locali. E che fosse statale, come quella meccanica, più robusta, di Pietrarsa, è certo un fattore da considerare ove se ne intendano esaminare i costi e la produttività; e in questo caso si dovrà comunque inserirla nel complesso sistema economico
borbonico e, in particolare, nel cosiddetto “protezionismo ferriero”…

La tradizione ferriera calabrese

“Ma quando, perché e come nacque lo stabilimento di Mongiana? …Una tradizione ‘ferriera’ esisteva … in Calabria e se ne parla in memorie antiche come di attività precedenti alla venuta dei Saraceni. Tommaso Campanella ricorda uno stabilimento della sua Stilo, e il suo riferimento, e i molti altri che si ricavano da descrizioni, memorie e documenti di archivio, confermano che il territorio attorno a Stilo costituiva la più ricca zona mineraria del Regno di Napoli e che in esso furono attive, in secoli diversi, numerose ferriere. Si può ricordare, ad esempio, che alcune di esse (a Stilo e in zone non distanti, come Spadola) furono cedute da Carlo V a Cesare Fieramosca; che, nei primi due decenni del ‘600, esse avevano aumentato la produzione rispetto al secolo precedente, toccando i 1200 quintali nel 1618 con lavorazione di ferramenti per la marina e ferri speciali per usi civili; e che, nei primi decenni del ‘700, nel periodo austriaco, quel governo imperiale mostrò molto impegno alla loro ripresa. Queste ferriere non ebbero tutte una continuità produttiva. A metà ‘700 si ebbe un primo spostamento in zone più vicine alla città, nel cuore del bosco demaniale e la costruzione di una nuova ferriera lungo il corso del fiume Assi; sicché il precedente gruppo fu chiamato le ‘Ferriere Vecchie’, le quali corrispondono al complesso della Ferdinandea costituito dopo quello di Mongiana. Tali spostamenti possono essere spiegati soprattutto con la progressiva riduzione dell’area boschiva, attesa la grande quantità di combustibile richiesto dalla tipologia produttiva; e fu, in sostanza, per questo motivo che il loro amministratore, Massimiliano Conty, propose al governo il progetto di una nuova ferriera. La località prescelta era detta, appunto, Mongiana, posta nel cuore della montagna, a 5 miglia da Serra S. Bruno, in mezzo alla selva di proprietà del principe di Roccella, feudatario di Fabrizia”.

Il distretto siderurgico alla catalana

“Nasceva così un vero e proprio ‘distretto siderurgico’ Calabrese, comprendente Mongiana e Ferdinandea; e nel settore privato, la ferriera di Razzona (Cardinale) costruita dai Filangieri col metodo ‘alla catalana’ e capace, secondo il Grimaldi, di una produzione di circa 2.500 cantaia l’anno. Oltre che sui boschi e i molti corsi d’acqua, quel sistema metallurgico statale si fondava sui minerali di ferro della miniera di Pazzano. Rispetto alle ferriere antiche, tutte ubicate a poca distanza da questa miniera, il processo di concentrazione si attuava in località più lontane, il che, mentre aumentava la disponibilità delle risorse carbonifere e facilitava il trasporto dei prodotti sulla via carrettiera che, lungo l’Angitola, portava a Pizzo, rendeva più arduo il rifornimento dei minerali da Pazzano alla Ferdinandea e a Mongiana, distanti rispettivamente 18 e 29 chilometri da percorrere su strade appena abbozzate. Benché sfruttata con procedimenti poco
evoluti, quella miniera impegnava mediamente 140 unità, tra nadulti e bambini; e in certi anni, come tra il 1803 e i1 1854, si estraevano 14.000 quintali di minerali a servizio di un solo altoforno attivo 5-6 mesi l’anno o, come dopo il 1854, 50.000 quintali annui per l’alimentazione di 3 altoforni”.

L’intervento statale

“La struttura di quel polo siderurgico è descritta in varie memorie della prima metà dell’800 sebbene con giudizi diversi
sulla sua capacità produttiva. Luigi Grimaldi ne offre una sommaria idea nei già ricordati “Studi statistici”. Più recentemente documenti importanti sono stati utilizzati dal Caldora e dal Petrocchi, rispettivamente per il decennio napoleonico e per… il periodo borbonico. Riunendo varie notizie, il Petrocchi così riassume lo stato dello stabilimento di Mongiana dal 1848 al 1859. Mongiana contava “due altoforni per la produzione della ghisa, sei raffinerie, due fornelli Wilkinson ed altre officine minori. Era diretto da un tenente
colonnello di artiglieria, assistito da un consiglio di amministrazione composto di ufficiali della medesima arma.
Oltre agli ufficiali e agli impiegati dello Stato, occupava 280 carbonieri, 100 mulattieri e 100 artefici e manuali. Dal 25 novembre a tutto marzo era in attività un solo altoforno che produceva 40 cantaia di ghisa al giorno cioè 5000 cantaia per tutto il periodo di lavoro; si ottenevano inoltre 2.700 cantaia di ferro. I materiali venivano impiegati per gli usi della guerra e marina… si forn[ivano] pezzi per ferrovia… si costruivano, tra l’altro, “metraglie” di ferro fuso, ferro maglio, ghisa in lingotti, lastre per moschettoni, palle e bombe. La Mongiana dunque, continuando una lunga tradizione e utilizzando materie prime ed esperienze locali, rispondeva ad esigenze del governo specie per le produzioni dell’esercito e nasceva in una fase politica riformista fondata sull’intervento statale. Negli ultimi due
decenni del ‘700 e nei primi dell’800 gli interventi del governo si susseguirono sia nel settore più propriamente amministrativo e di gestione (e in questo senso si pose già allora il problema della direzione militare), sia nel settore tecnico.

La parentesi napoleonica

Su questo ultimo aspetto, così scrive il Caldora: “Gli amministratori napoleonici… giunsero ad un adeguamento delle paghe, ottennero per gli operai un medico, un farmacista, un giudice di pace, l’esenzione della leva militare e pensarono persino di istituire una Cassa degli Operai, con la trattenuta di un grano a ducato, per l’assistenza agli invalidi, ai vecchi, alle vedove, agli orfani e per i maritaggi”. La produzione aumentò progressivamente: dalle 3.297 cantaia del 1808 si giunse alle 10.065 cantaia del 1812, cosi divise: 3.885 cantaia di “proiettili pieni e vuoti”; 3.900 “cantaia di pani di zavorra”; 152 cantaia di “utensili per uso dello stabilimento”; 1.091 cantaia di “ghisa”; 1.035 cantaia di “granaglia”. Il preventivo della produzione per il 1814 era ancora più alto: ghisa cantaia 16.000; ferro battuto 3.000; mitraglia di ferro battuto 1.000; aste diverse a palanchetti 100; piombo 700; proiettili pieni 5.333; proiettili vuoti 5.333; granaglia 1.334. La fine della decennale parentesi murattiana e il lungo periodo d’inerzia seguito alla restaurazione borbonica, durato almeno fino al 1830, crearono tuttavia una profonda stasi, solo episodicamente interrotta da isolati tentativi innovativi (ad esempio, la costruzione di una grande fabbrica “per tirare ferri e lamine tra cilindri”). E se, da un lato, l’avvento di Ferdinando II e l’inizio di una fase dominata dalI’“industrialismo nazionale” segnò una ripresa anche per Mongiana, dall’altro lato la linea generale protezionistica, che subordinava lo
stabilimento alla produzione militare, impose vincoli fortemente negativi rispetto al mercato e ne soffocò, in sostanza, le potenzialità effettive”.

Gli ultimi anni prima della conquista del Sud da parte dei piemontesi

“Nei trenta anni precedenti il … 1859… le attenzioni per il complesso siderurgico calabrese non mancarono. Furono bensì episodici, ma tra quegli interventi ve ne erano di conducenti allo scopo. Ad esempio, la costruzione del tratto di strada Angitola-Serra S. Bruno, completato nel 1849 e del tratto successivo da Serra a Pazzano, ordinato nel ’52, in modo da poter fruire di un’indispensabile infrastruttura interna, tra la miniera e lo stabilimento, e esterna, fino a Pizzo, per il più rapido trasporto dei prodotti. E ancora la costruzione di due nuove ferriere, in una delle quali furono inserite i due fornelli “alla Wilkinson”, l’ampliamento delle fonderie e l’introduzione di una moderna macchina a vapore di 50 HP importata dall’Inghilterra. Sul piano della potenzialità produttiva…, il complesso comprendente ormai tre altoforni, capaci di una produzione globale giornaliera di 120 cantaia, avrebbe potuto dare 24.000
cantaia di ghisa all’anno, coprire cioè una quota rilevante del consumo interno… In una relazione dell’istituto d’incoraggiamento si legge che “la ghisa di prima fusione è di tal pregio da non temere il confronto con quella di Bofort, quanto il ferro malleabile tirato a trafila, di diversa dimensione, tondo e rettangolare, e di cui se n’è veduta ed accuratamente osservata la spezzatura a freddo; il quale è di ottima qualità: e medesimamente dovete dire delle banderelle e lamine stagnate a foglie. Inoltre si voglion bellissimi i saggi dell’acciaio di cementazione, che nulla lasciano a desiderare”.

Foto tratta da Libero Pensiero

 

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