Come gli inglesi scipparono alla Sicilia l’isola di Malta/ Storia della Sicilia del professore Massimo Costa 39

5 agosto 2021
  • Malta si separa per sempre, diciamo in breve come è andata a finire con questo pezzo di Sicilia
  • Un “Luogotenente” a Palermo (sorta di Viceré, ma meno autonomo) e un “Ministro per gli Affari Siciliani” a Napoli
  • La Sicilia in Unione monetaria con Napoli
  • Uno Stato censorio e poliziesco, dove fiorisce fatalmente la “protomafia”
  • La Carboneria ha più successo della Massoneria come opposizione
  • Il naufragio del Giure Siculo: la Sicilia conquista postuma di Napoleone
  • Tentativi persino di colonialismo interno

di Massimo Costa 

Malta si separa per sempre, diciamo in breve come è andata a finire con questo pezzo di Sicilia

Il Regno delle Due Sicilie, da un punto di vista amministrativo era un Regno dualistico. Aveva cioè un’unica corona, e rappresentanza estera, uniche leggi, ma tutta l’amministrazione e la giustizia era duplicata “al di qua” e “al di là” del Faro. Probabilmente questo stato era provvisorio, nell’attesa di una più stretta unità voluta dai suoi vertici che non ebbero mai il tempo di realizzare. Era anche un po’ più piccolo dell’Unione di Napoli e Sicilia del Settecento, avendo perso lo staterello dei Presìdi in Toscana, integrato ora nel Granducato di Toscana, e le Isole Maltesi, cedute alla Gran Bretagna. Su queste dobbiamo interrompere quindi la trattazione unitaria con la storia siciliana che abbiamo condotto sin dalla Preistoria. Diciamo solo che il possedimento inglese mantenne a lungo lingua e ordinamenti burocratici siciliani/italiani, per essere anglicizzato solo molto lentamente. Ancora dopo il Congresso di Vienna il Re delle Due Sicilie tentò una volta di far valere i propri diritti sulla Chiesa maltese, per effetto dell’Apostolica Legazìa, con il pretesto che la cessione delle Isole non includeva l’abdicazione del Re di Sicilia (ormai “delle Due Sicilie”) ai diritti ecclesiastici sull’arcipelago. La Gran Bretagna naturalmente ricusò il diritto e da allora non se ne parlò più. Anche una certa integrazione tra il sistema postale siciliano e maltese tardò molto a recidersi. Lo sviluppo della lingua maltese, come lingua nazionale, già dialetto sopravvissuto del siculo-arabo, fu favorito dalla dominazione inglese in chiave anti-italiana, e finì per soppiantare del tutto l’italiano come lingua ufficiale, dopo una progressiva ritirata di questa dall’amministrazione e dalla scuola, ma ufficialmente soltanto nel 1936 per ritorsione contro il Fascismo (un po’ come con la Corsica aveva fatto Napoleone III nel 1859, dopo l’annessione
al Piemonte della Lombardia). In quel momento, e da lungo tempo infatti, il “Partito Nazionalista” maltese era un partito sostanzialmente irredentista italiano. I legami storici della Sicilia si erano – per così dire – traslati all’Italia, con la quale in verità Malta non aveva mai avuto grandi rapporti diretti. È pur vero che dal 1530 i Cavalieri avevano fatto rapidamente scomparire il siciliano dagli atti ufficiali a
favore dell’italiano, anche nei rapporti con la corte viceregia. E quindi il filo-italianismo dei nazionalisti era visto in chiave anticoloniale. Il Fascismo non fece che esasperare questi rapporti e quindi ebbe per reazione inglese l’unico effetto dell’anglicizzazione definitiva dell’arcipelago. Ottenuta una prima forma di autogoverno dopo la I Guerra Mondiale, Malta si sarebbe aperta al multipartitismo. Dopo la II Guerra mondiale il Partito Nazionalista si trasformò da irredentista in indipendentista. Il partito laburista invece era per un’integrazione più stretta con la Gran Bretagna. Il rifiuto dei Britannici nel concedere cittadinanza, diritti e finanziamenti alla piccola colonia ex-siciliana, determinò la volontà compatta di tutte le forze politiche verso l’indipendenza. Così nel 1964 Malta divenne indipendente, come monarchia nell’ambito del Commonwealth, nel 1974 divenne una repubblica, per poi conoscere una prodigiosa crescita economica, ed entrare infine nell’UE (2004) e nell’eurozona (2008). Ma questa storia è ormai la storia di una vera e propria Nazione a sé, simile, vicina e amica della Sicilia, da cui è gemmata, ma ormai in tutto e per tutto una storia propria, e quindi al di fuori del nostro oggetto.

Un “Luogotenente” a Palermo (sorta di Viceré, ma meno autonomo) e un “Ministro per gli Affari Siciliani” a Napoli

Tornando al Regno delle Due Sicilie e alle conseguenze del Congresso di Vienna, dopo qualche tempo anche Francesco Borbone abbandonò la Sicilia e questa fu governata per mezzo della Luogotenenza, erede istituzionale dei vecchi viceregni, ma senza più alcuna autonomia. I luogotenenti erano funzionari degli interni, essenzialmente poliziotti, non certo esponenti della casa reale. A Napoli sedeva
un Ministro per gli affari siciliani con cui corrispondeva il Luogotenente siciliano. La Luogotenenza rilevava l’antica Segreteria viceregia e veniva riorganizzata in alcune ripartizioni, in cui, tra le funzioni “nuove”, osserviamo la “terza”, dedicata ai lavori pubblici, istruzione pubblica, agricoltura e commercio, salute pubblica, mentre le altre due erano dedicate alle funzioni più tradizionali di giustizia,
finanze, ecclesiastico.

La Sicilia in Unione monetaria con Napoli

Dall’Unione in poi non furono più coniate monete siciliane, ma l’onza continuò ad aver corso legale e i conti continuarono ad essere segnati in onze e tarì per molti anni, prima che i ducati duosiciliani ne prendessero il posto, nonostante una legge del 1818 che ne rendeva obbligatorio l’uso. Abolita ogni autonomia municipale, la Sicilia divisa in Intendenze (Province), altre imposizioni. Le autonomie municipali furono sciolte e i Comuni affidati a funzionari di polizia nominati dal governo borbonico. Anche i distretti furono sciolti, accorpati in 7 Intendenze, cioè Prefetture, che accentravano tutti i poteri, sul modello francese, già sperimentato da Murat nel Regno di Napoli: Palermo, Messina, Catania, Siracusa, Trapani, Girgenti e Caltanissetta. I distretti furono declassati a circondari, con funzionari di secondo livello. I tentativi di estendere l’obbligo di leva alla Sicilia fallirono per la generalizzata renitenza dei Siciliani. Il sistema di imposte fu completamente cambiato e aggravato, rimanendo tuttavia relativamente moderato. L’unica cosa che fu mantenuta della Rivoluzione del 1812 fu l’abolizione dei diritti feudali che non furono restaurati. Anzi, ma era nello spirito dei tempi, alcuni ultimi residui furono aboliti negli anni seguenti con un contenzioso che ne seguì che sarebbe durato decenni e fin oltre l’Unità d’Italia, soprattutto per quel che riguardava l’appropriazione dei “diritti promiscui” (cioè gli usi civici su alcuni terreni o le terre “demaniali”, cioè dei comuni, di cui aristocratici e borghesi si erano di fatto impadroniti).

Uno Stato censorio e poliziesco, dove fiorisce fatalmente la “protomafia”

Il governo borbonico, nell’abolire ogni libertà di pensiero non tornò all’Antico Regime, ma sottopose la società siciliana alla cappa di una ben più severa censura. Il nuovo regime fondamentalmente impedì la naturale evoluzione della società siciliana da feudale a moderna, decapitando lo Stato e la società siciliane in un colpo solo. Il regime poliziesco che fu insediato non riuscì a coprire il vuoto che ne derivò. La società siciliana, soprattutto nelle campagne, prese a organizzarsi con un ordine parallelo, e illegale, rispetto a quello ufficiale, anche se allo stato si sa ben poco di questo mondo misterioso che andava covando nella Sicilia del XIX secolo.

La Carboneria ha più successo della Massoneria come opposizione

L’opposizione politica non aveva alcuna voce legittima nella quale farsi sentire. Per fare “opposizione” ora non restavano che le società segrete e la cospirazione. La massoneria era indifferente alle vicende politiche siciliane, al pari della diplomazia britannica, che aveva voltato le spalle alla Sicilia, e poi il suo carattere illuministico ed elitario, più o meno esplicitamente anticattolico, mal si adattava allo spirito dell’Isola. Più fortuna, specie tra i ceti medi, ebbe per questo la Carboneria, venuta dall’Italia, meno antireligiosa e più animata da spirito espressamente politico. I carbonari siciliani avevano aspirazioni politiche vaghe e contraddittorie, di tipo liberale, e più o meno indipendentiste.

Il naufragio del Giure Siculo: la Sicilia conquista postuma di Napoleone

Nel frattempo a poco a poco tutte le istituzioni del Regno di Sicilia venivano smantellate e sostituite da cloni di analoghi istituti napoletani. Con il 1819 – piace notarlo seppure come curiosità – l’anno amministrativo e contabile diventava quello solare, abbandonando quello indizionale che datava dai tempi dell’imperatore romano Diocleziano. Naturalmente l’ultimo anno indizionale fu una frazione di anno (1 settembre – 31 dicembre 1818). La Sicilia diventava in tutto e per tutto una “conquista postuma di Napoleone”; dove non erano arrivate le armi dei francesi arrivarono le riforme borboniche copiate da quelle napoleoniche. I codici ferdinandei, insieme all’anagrafe, entravano l’1 gennaio 1820. In quel momento non si stava solo pensionando il Corpus Juris di Giustiniano ma di colpo tutte le Costituzioni, Capitoli, Prammatiche, Giurisprudenza del Regno – che si erano stratificate per secoli – erano abrogate con un tratto di penna. Di un ordinamento sovrano rimanevano poche tracce qua e là, come il vuoto titolo di “Pretore” per il sindaco di Palermo, funzionario governativo come tutti gli altri del resto, o i “Senati” di Palermo, Messina e Catania, anch’essi nominati dai “poliziotti” napoletani. Veri relitti di un naufragio politico e istituzionale che non ebbe pari nella storia siciliana.

Tentativi persino di colonialismo interno

Negli anni ’20 sono abolite le dogane tra Napoli e Sicilia, ma attraverso i dazi comunali Napoli favorisce l’industria continentale, relegando l’economia siciliana a fornitrice di materie prime, quali il grano e lo zolfo, questo sempre più importante nell’economia siciliana. L’industria siciliana era colpita anche dalle commesse statali, riservate esclusivamente al Napoletano.

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