Il monologo interiore di Mrs. Clarissa Dalloway, storia di una felicità inespressa nella Londra degli anni ’20

25 aprile 2021
  • ‘La signora Dalloway’ protagonista di un romanzo di Virginia Woolf
  • I personaggi velati di nebbia e la caducità del tempo
  • “…quanto sa essere antipatica la ragione quando incontra la benedizione di un peccato mai usato…” 

di Sara D’Angelo 

‘La signora Dalloway’ protagonista di un romanzo di Virginia Woolf

La Londra del primo Novecento assiste alla liturgia della clessidra intima di Mrs. Clarissa Dalloway, una donna occupata a passeggiare nel labirinto del tempo avuto in dono. Clarissa Dalloway – protagonista del romanzo La signora Dalloway di Virginia Woolf – ostenta una vanità appannata dai suoi cinquant’anni, forse molti per dare avvio all’arresa della femminilità felice agli sguardi, forse pochi per avventurarsi in una guerra con la crudeltà del tempo. Virginia Woolf veste di poesia la sosta terrena di un esiguo elenco di vissuti solo apparentemente comuni. È una giornata come le altre, ma in fondo quale giornata lo è? Emozioni e sensazioni salgono e scendono sul podio della consuetudine quotidiana, la vittoria e la sconfitta così vicini e così mai complici. Il fascino di Mrs. Clarissa Dalloway riscuote ancora l’applauso del passante, sebbene la donna sia lontana dalla giovinezza del nuovo giorno da qualche minuto emerso dal suo sonno, lei c’è, viva e virtuosa, moglie e madre, cornice pittoresca di un ritratto ambizioso di essere ancora un vanto. La mattinata londinese affrescata da Virginia Woolf è un contenitore di consuetudini e rituali. I singoli eventi rimangono sullo sfondo, opacizzati dalla definizione trasparente del romanzo, ben in evidenza allo sguardo del lettore già fin dal suo esordio. Il protagonista è il Tempo, innamorato di se stesso e tanto, tanto avaro con chi ha profonda venerazione del rito che scandisce il suo passaggio.

I personaggi velati di nebbia e la caducità del tempo

Mrs. Clarissa Dalloway fasciata nel suo vestito verde, passeggia assorta nel limbo di ricordi e privazioni. La sua non più fresca età non le impedisce di silenziare l’esuberanza radiosa di una giovane donna. Clarissa è moglie di Richard Dalloway, un alto funzionario del governo inglese, trent’anni prima ha scelto di abitare le pareti dell’equilibrio noioso di un matrimonio già apparecchiato piuttosto che tuffarsi libera nelle maree della passione con Peter Walsh, un giovane avventuriero bramoso di diventare cittadino del mondo. Trent’anni non sono bastati per dimenticare le sue intimità e i suoi segreti a nessuno mai rivelati. Il malessere mal sotterrato esplode sotto forma di scheletro nel ricordo di un tempo in cui fu carne. Le ossa del tempo mai consumato sono state addentate dai vermi avidi di godere del pasto che non ha mai saziato nessuno. Intanto sotto lo sguardo indiscreto del Big Ben scorrono indistinti lo scampolo di stoffa sgualcito del passato e il vestito di alta sartoria ben confezionato e indossato dal presente. Un alone di memoria con il bagaglio di una felicità inespressa investe la Londra degli anni ’20, risorta dalle ferite della guerra ma ancora convalescente e alleata paladina di se stessa. Ore, giorni e anni come fili di seta intrecciati per vestire la coscienza del futuro quasi sempre ingombrata da maschere, quasi mai sgombra da rimpianti e speranze appassite per sempre. Un coro di personaggi circondano il romanzo velati da una nebbia con il compito di assolvere all’illustrazione del protagonista assoluto, la caducità del Tempo.

“…quanto sa essere antipatica la ragione quando incontra la benedizione di un peccato mai usato…” 

Il monologo di Virginia Woolf si avvale di semplici forme per raggiungere la complessità dei contenuti, una carnalità da vestire con merletti di sensi ricamati dagli anni, oh quanto sa essere antipatica la ragione quando incontra la benedizione di un peccato mai usato.
Vita e morte, gioia e lutto, Virginia Woolf svela il sipario di una Londra ferita a morte dalla prima guerra mondiale, violentata nella profondità della carne e dell’anima, ed ecco la figura di Septimus, un giovane reduce di guerra con un patrimonio di chilometri di vene pulsanti e dalla psiche aggrovigliata nei meandri di fiumi di sangue innocente e dalla mente mai più cancellato. Septimus Smith è un uomo sensibile, culla perfetta per il disordine mentale benevolmente accudito dal troppo sentire, uno stato umano incomprensibile alla vacuità assordante delle menti deserte. Il suicidio di Septimus è l’unico guizzo di lucidità in soccorso alle lacune della scienza in possesso dei medici consultati. Clarissa e Septimus sono estranei l’uno all’altra, distanti come tutti i passanti del corso, teatro del loro incontro, per un attimo il passo rallenta innanzi all’incrocio di uno sguardo indiscreto, poi la vita riprende la sua corsa decisa a dissolvere il caso. Il Big Ben regna sulla città con l’esibizione delle sue poderose lancette impegnate a dettare la severità del tempo, incapace di camminare all’indietro e nessuna voglia di imparare a farlo. “Era mezzogiorno in punto: mezzogiorno secondo il Big Ben, i cui rintocchi si espandevano insieme a quelli di altri orologi, e si fondevano in modo etereo, impalpabile, con le nuvole e le strisce di fumo, per morire, lassù, tra i gabbiani”.

Foto tratta da Il Post

 

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