Covid: i vaccini che non proteggono dall’infezione possono favorire la selezione di varianti più virulente

4 marzo 2021
  • Questo scenario è confermato dagli studi di medicina veterinaria che, per ovvi motivi, sono più completi degli studi di medicina umana
  • Anche lo studio della patogenesi di una malattia infettiva è più precisa di quanto possa avvenire con gli studi nell’uomo
  • L’esempio della malattia di Marek nei polli
  • In veterinaria, per affrontare alcune epidemie, non si ricorre ai vaccini che non proteggono dall’infezione 

di Marco Lo Dico
veterinario, specialista in Malattie Infettive, Profilassi e Polizia Veterinaria

Questo scenario è confermato dagli studi di medicina veterinaria che, per ovvi motivi, sono più completi degli studi di medicina umana

Normalmente un patogeno che circola in natura, convivendo con il suo ospite, attenua la sua virulenza adattandosi all’ospite. Per le varianti che si selezionano sotto pressione vaccinale, con vaccini che non proteggano dall’infezione, può essere il contrario… Ci sono numerosi lavori in medicina veterinaria che lo dimostrano! La pressione selettiva di vaccini che proteggono dalla malattia, ma non dall’infezione può causare un adattamento inverso. Nell’adattamento naturale i più fragili e i virus più patogeni divengono un limite alla diffusione del virus. Il soggetto morto esaurisce in sé la diffusione del virus, come il ceppo più virulento uccide l’ospite ,ma anche se stesso riducendo la sua possibilità di circolare nella popolazione. Nei vaccini che non proteggono dall’infezione, invece, i soggetti vaccinati sono protetti dalla malattia o comunque fanno forme “frustre” e meno gravi, ma consentono la circolazione del virus e, continuando a circolare senza esaurirsi nell’ospite, possono favorire la selezione di varianti più virulente. Non è un dogma, ma una probabilità. Probabilità che è evidente ed evidenziata in forme epidemiche in veterinaria e confermata da studi in medicina veterinaria, che in ambito virologico sono, per ovvi motivi, più complete di quanto possa avvenire in medicina umana.

Anche lo studio della patogenesi di una malattia infettiva è più precisa di quanto possa avvenire con gli studi nell’uomo

In veterinaria non si hanno le stesse difficoltà a eseguire studi valutando ciò che avviene durante l’infezione sperimentale e valutando efficacia o di un vaccino o di un farmaco, prima in situazione di laboratorio e poi di campo. Anche lo studio della patogenesi di una malattia infettiva è più precisa di quanto possa avvenire dagli studi nell’uomo, infettando sperimentalmente i soggetti e valutando il decorso della malattia o, per lo meno, può avvenire in un tempo più breve di studio. Così come associare un agente eziologico ad una forma di malattia. La malattia infettiva classica deve rispondere al requisito secondo il quale all’infezione sperimentale segua la malattia e che questo fenomeno possa essere riproducibile e trasmissibile. In medicina veterinaria la possibilità di eseguire l’infezione sperimentale aiuta molto nello studio e nell’approfondimento della conoscenza del patogeno e della malattia che induce. Ci sono altre forme infettive nelle quali la patologia è condizionata, cioè non necessariamente a infezione corrisponde malattia, ma sono necessarie una serie di circostanze e condizioni perché questo si verifichi, in questo caso ci troviamo davanti a malattie condizionate.

L’esempio della malattia di Marek nei polli

Studi sulla possibilità che una pressione vaccinale con un vaccino che non previene dall’infezione e che quindi possa contribuire all’insorgenza di forme più virulente sono stati effettuati e sono ben noti da tempo. Un esempio può essere la malattia di Marek nei polli, patologia che determina danni economici ingenti quando entra in un pollaio. Ebbene, l’uso di vaccini che proteggono dalla malattia e non dall’infezione utilizzati in massa nei pollai ha evidenziato la selezione di ceppi sempre più virulenti. La mia non è una ipotesi, ma una evidenza scientifica conosciuta da chi conosce le malattie infettive. Spesso, sentendo parlare alcuni esperti infettivologi umani dubito che le conoscano o, se le conoscono, fanno finta di non conoscerle. Non so se sono riuscito a illustrare il fenomeno, ma i dati scientifici in altre circostanze hanno dimostrato questo e, nel rispetto del principio di precauzione, se ne dovrebbe tenere conto.

In veterinaria, per affrontare alcune epidemie, non si ricorre ai vaccini che non proteggono dall’infezione 

In veterinaria, per affrontare alcune epidemie, si è preferito non ricorrere a vaccini del genere quando il dato epidemiologico nella popolazione era basso e, soprattutto, se non vi era poi la garanzia di distinguere un soggetto vaccinato da uno asintomatico con infezione in corso; questa possibilità ci fa capire che l’eventuale controllo e tracciamento del contagio risulterebbe difficoltoso se non improponibile. Questo lo avevo scritto, per chi vuole avere il tempo di approfondire, già tempo fa, prima che il vaccino venisse commercializzato. “La convivenza del virus con l’ospite potrebbe anche avere un altro effetto, quello di favorire la mutazione del virus e la necessità ciclica di riallestire vaccini stagionali come nell’influenza, ma esponendo sempre la popolazione fragile a vivere nell’incubo o a essere ‘selezionata’ dai cicli epidemici” (QUI L’ARTICOLO PER ESTESO).

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