Palermo e la lunga storia di acqua e zammù, dagli arabi ai nostri giorni

15 settembre 2020

Ripercorriamo la storia di un’antica tradizione di Palermo e della Sicilia: l’acqua e zammù. Anice. Sambuco. Gli Acquavitari. Gli Acquaioli di Napoli e del Regno delle Due Sicilie. I chioschi Liberty. E l’avventura dei fratelli Tutone (Anice Unico Tutone) che arriva fino ai nostri giorni 

di Maddalena Albanese

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Ogni goccia caduta dal beccuccio della bottiglia sprigionava una nuvola lattescente sulla superficie dell’acqua nel bicchiere. Questo guardavo, affatata, ogni volta che, da piccola, osservavo papà o mamma che preparavano l’acqua e anice. Ancora non sapevo nulla di terpeni, olii essenziali o di ‘effetto ouzo’ che sono alla base di questo affascinante fenomeno presente in alcuni liquori, mi bastava che il mio stupore infantile, che oggi definirei pascoliano, rimanesse lì a guardare.

Da quando ho memoria ricordo che ogni pomeriggio alle tre, per mio padre, quando tornava dal lavoro, dopo avere fatto anche la spesa, il relax consisteva nel bere un bicchiere di acqua e anice. Durante la preparazione io chiedevo:

“Cosa è, papà?”.

E mio papà rispondeva:

“Acqua e anice, figlia mia. Sai, a Palermo si chiama anche ‘acqua e zammù”.

E lì giù con le decine di domande che i bambini fanno sempre:

“Cos’è l’anice?”, “Cos’è ‘il’ zammu”’?, “Come hai detto papà?”e così via dicendo, finché non svaniva sia il bicchiere di acqua e anice che il breve relax di mio padre.

L’altra domanda che inevitabilmente venne fuori, quando cominciai a leggere fu:

“Papà, perché si chiama Anice Unico Tutone?”.

E mio padre:

“Anice, perché è fatto con l’anice, Tutone perché è il nome di chi lo fa e Unico perché… non ce n’è un altro”.

Anche la tautologia era ancora fuori della mia portata, ma papà mi aveva semplicemente detto ciò che era vero: l’anice Tutone è unico. La sua preparazione è basata su una ricetta messa a punto dai fratelli Tutone nel 1813 e, da allora, tenuta gelosamente segreta, tramandata solo di padre in figlio a colui che prende a in mano le redini dell’Azienda.

La conferma di questa unicità l’ho avuta qualche giorno fa. Cercavo la mia solita bottiglia di anice, senza trovarla, peraltro in due supermercati sempre ben forniti. Alla fine ho ripiegato su un altro liquore che recava una etichetta con su stampigliato “Anice” a caratteri cubitali. L’ho comprata, portata casa e ne ho versato qualche goccia nel solito bicchiere di acqua per prepararmi una bevanda dissetante e digestiva. Era anice, era anche buona, ma non c’era niente da fare: non era la stessa cosa! Ho toccato con mano (anzi con il palato), perché L’anice Tutone si chiama “Unico”.

Ma andiamo per gradi.

LA STORIA DI UNA LUNGA TRADIZIONE – A Palermo l’acqua e anice (foto tratta da sapori di Sicilia Magazine) è una tradizione legata alle afose giornate estive e alla necessità di avere una bevanda fresca dissetante e…a buon mercato (cosa che il palermitano non disdegna mai).

Tutto è cominciato con i soliti Greci e con i soliti Arabi (mi chiedo cosa rimarrebbe della nostra cultura senza di loro!). I greci avevano portato in Sicilia, come in tutto il Mediterraneo, i semi di anice. Come già avevano fatto gli Egizi, e come impareranno a fare i Romani, utilizzarono i semi di anice per preservare ed aromatizzare i cibi.

Con gli Arabi, invece, arriverà da noi l’abitudine di disinfettare i pozzi d’acqua con un distillato di fiori e semi di sambuco. Si dice che l’invenzione dell’antenato dell’acqua e anice sia dovuta ad un arabo-siracusano di nome Sogehas Ben Ali’.

Poiché ne derivò un gusto apprezzabile per l’acqua, le famiglie siciliane continuarono a mantenere questa abitudine nel tempo. Forse a questo deve il suo nome la città siciliana di Sambuca di Sicilia. Si racconta infatti che le zone vicino a quello che oggi è il lago Arancio fossero rigogliose di piante di sambuco.

Il sambuco può essere utilizzato a scopo alimentare/medicamentoso nei fiori, nei frutti e nelle corteccia, mentre semi e foglie sarebbero tossici per la presenza di un alcaloide, la Sambunigrina. Comunque gli estratti erboristici del sambuco vengono tutt’ora utilizzati ed hanno proprietà antinfiammatoria, diaforetica, antireumatica, antinevralgica e depurativa.

Nel corso del tempo forse la primigenia infusione di acqua e distillati di parti del sambuco venne integrata o sostituita da acqua e distillato di anice (di anice verde prima e di anice stellato poi)? Fatto sta che la tradizione popolare trasferì tout court il nome di acqua e zammu’ (zammu’- zambut- sambuco) all’acqua e anice.

Un’altra spiegazione plausibile per il nome acqua e zammu’ legato ad acqua e anice potrebbe essere legato alla pronuncia araba del sostantivo “anice” (che qui scriviamo con l’alfabeto occidentale): “yansun”. Questa pronuncia, o una simile di un vocabolo più arcaico, storpiato magari dal popolo autoctono della Sicilia, potrebbe aver dato vita al termine “zambut” >zammut>zammu’. Peraltro anche l’Anice possiede delle proprietà benefiche in parte sovrapponibili a quelle del Sambuco.

GLI ACQUAVITARI – Nelle case siciliane e del Sud Italia l’uso di bere acqua arricchita da estratti di piante rimase ben radicata e, come spesso succede nelle famiglie povere che devono escogitare qualcosa per sbarcare il lunario, le ricette più apprezzate cominciarono ad essere vendute fuori casa. Probabilmente il capo famiglia prese il frutto del lavoro della donna di casa e, armandosi di orcio in terracotta per avere sempre acqua fresca, di una bottiglia con una storta per versare le gocce (poche!) del liquore e qualche bicchiere, cominciò a girare per le strade in cerca di clienti, dando vita così al mestiere dell’Acquavitaro.

Del suddetto mestiere abbiamo già delle tracce certe nel XVII secolo grazie ad una incisione di Annibale Carracci (1560-1609) sui mestieri popolari di Bologna e grazie ad un dipinto del XVII secolo, intitolato per l’appunto “Acquavitaro”, sui mestieri della Roma del 1600, attribuito ad Anonimo Bambocciante. Ricordiamo che i “Bamboccianti” erano i seguaci dello stile del pittore Pieter Van Laer detto il “Bamboccio”, olandese, vissuto a Roma tra il 1625 ed il 1639. I suoi soggetti erano legati alla vita quotidiana, ispirati al realismo quotidiano e bozzettistico con carattere aneddotico (foto tratta da Mixer Planet).

Risale, inoltre, al 1620 il dipinto “l’Acquaiolo di Siviglia” del Velasquez, raffigurante il rivenditore di acqua fresca per le strade di Siviglia, che rendeva omaggio a questo mestiere povero ma utile per la comunità.

A Roma fu un mestiere presente dal XVI ad almeno il XIX secolo. Il medico ed umanista Pietro Andrea Mattioli addirittura elogiava il mestiere dell’Acquavitaro, perché estraeva dal vino l’acquavite che possedeva effetti benefici per l’organismo.

L’Acquavitaro era all’inizio nomade, “cassettante”, perché camminava con una cassetta di legno appesa al collo grazie ad una cinghia di cuoio, con su i bicchieri (“gotti” a Palermo, “pressa” a Napoli e “cicchetto” a Roma), bottiglie con il beccuccio per erogare oculate quantità di liquore, qualche confettino o qualche chicco di caffè per accompagnare la bevanda, e un orcio di creta in mano per avere sempre acqua fresca.

A Roma gli Acquavitari erano anche chiamati “Porrazzieri”, poiché uno dei loro distillati era tratto da alcune delle parti meno tossiche dei Porrazzi (nome popolare che sta ad indicare la pianta di Asfodelo), di cui era infestata la campagna romana è un po’ tutta la campagna pedemontana dell’Italia.

Alcuni di questi Acquavitari, più intraprendi di altri, con clienti già fidelizzati, diventarono stanziali, aprendo dei chioschi in materiale posticcio prima, in marmo successivamente, dove continuarono a vendere i loro estratti alcolici insieme anche a prodotti del tabacco (v. Leggende Romane gruppo pubblico-Facebook).

A Roma, e poi vedremo a Napoli, l’Acquavitaro, esercitava prevalentemente durante le ore notturne (secondo il nostro computo delle ore dalle 19 di sera alle 10 del mattino dopo). Il servizio era a favore dei lavoratori della notte che dovevano riscaldarsi le membra e rinfrancare il cuore ed a favore, soprattutto, dei “clienti cicchettari” delle prime ore del mattino, i quali, ammanniti dal grido “Vi conforta lo stomaco, me udite, se bevete al mattino l’acquavite!”, si facevano “un cicchetto” mattutino per trovare coraggio bastante all’intera giornata (ibidem).

Abbiamo detto che gli Acquavitari erano anche detti Porrazzieri per il distillato di Porrazzo o Asfodelo. Quest’ultimo, come molte piante selvatiche (non ultimo il Sambuco e l’Anice) oltre che per distillati a buon mercato, era utilizzato come nutrimento (le sue bacche, in tempo di carestia, erano cibo per i poveri). Anche nel Sud Italia ed in Sicilia ne era noto l’uso a scopo commestibile.

I PORRAZZI DI PALERMO – In particolare, a Palermo, vi è una contrada che si chiama “Porrazzi”, e si trova tra il Corso Calatafimi, via Pisani e la zona dei Danisinni. E qui crescevano le piante di Porrazzo o Asfodelo.

Nella tradizione antica, greca in particolare, il Porrazzo, o per meglio dire l’Asfodelo, pianta infestante, resistente anche al fuoco, quindi quasi immortale, era simbolicamente legata al culto dei morti. I greci infatti la lasciavano crescere sulle tombe. Ed infatti, guarda caso, l’attuale contrada “ai Porrazzi” di Palermo corrisponde all’antica area cimiteriale dei vari insediamenti urbani di Panormus. Sarà solo una coincidenza? O il nome è rimasto perché tramandato dalla memoria di un’enorme distesa di asfodeli presente in quell’area extraurbana?

Comunque chiudiamo la digressione e torniamo alla nostra storia dell’acqua e anice. Negli Annali Civili del Regno Borbonico viene citato l’Acquavitaro, uomo dal lavoro notturno, ambulante, con la già nota cassettina al collo contenente il solito orcio di acqua , i soliti bicchieri (‘la presa’, da cui la frase “ ‘a pres ‘r ann’- il bicchiere grande), liquori, distillati, rosoli, mistra’ dai nomi tipici: ‘Stomateca’, antenato del nostro amaro digestivo di fine pasto, ‘Annese’, liquore a base di anice e cumino, ‘Sambuchelle’, liquore di solo anice stellato, ‘Rumma’, ‘Acquavite’, ‘Centerbe’.

Gli Acquavitari producevano i loro liquori a partire dall’alcol acquistato presso le Distillerie del Regno e che univano a erbe, agrumi e spezie. Oltre ai liquori più pregiati vi era poi un miscuglio di tutti i residui di liquore rimasti invenduti, mescolati in una botte di legno, che dava luogo ad una miscela che chiamavano “ ‘a vott ‘a società” (che probabilmente potremmo tradurre come la “botte del miscuglio” – ci correggano pure i napoletani-). Questo liquore veniva venduto ad un minor prezzo ed era destinato ai clienti meno abbienti.

AQUAVITARI PRECURSORI DEI BARMAN – Gli Acquavitari napoletani furono anche un po’ i precursori degli attuali barman, artisti della formulazione di nuovi cocktails; infatti preparavano le ‘ammiscanze’, liquori di propria invenzione per incontrare il gusto dei clienti più raffinati ed eclettici (v. storiediNapoli.it).

Per le vie di Napoli era talmente diffusa l’abitudine alle bevande addizionate ai liquori aniciati che lo scrittore Alessandro Dumas, si racconta, fossa nauseato da questo odore per lui dolciastro e fastidioso (e dire che le taverne francesi diventeranno famose per Assenzio, Pastis e Pernod!).

Tra queste invenzioni alcoliche si annovera la Sambuca Manzi, da cui nel secondo dopoguerra ha tratto inspirazione Angelo Molinari per mettere a punto la propria, autonoma ‘Sambuca Extra Molinari”.

Luigi Manzi era un Acquavitaro ischitano con bottega a Civitavecchia, dove nel 1851, inventò un liquore aniciato, a base di anice verde, che divenne famoso: la Sambuca Manzi. Anche Garibaldi a quanto pare ne era ghiotto ed il Manzi, che era un garibaldino convinto (nessuno è perfetto!), schierato a favore dell’Unità di Italia, disse di avere avuto uno dei momenti più felici della propria vita quando il Camicia Rossa gli ordinò una cassettina intera del rinomato distillato a base di anice (lo scrisse egli stesso a sua moglie in una lettera!).

Il nome del liquore venne dato in omaggio ai “Sambuchelli”, acquaioli/acquavitari di Ischia, che lavoravano nelle campagne ischitane portando acqua fredda e anice agli agricoltori nelle afose giornate estive. Peraltro le navi avevano già importato a Civitavecchia una bevanda mediorientale chiamata ‘Zammut’ (v. www.isclano.com).

Come vediamo il nome dell’antica bevanda, Zammut/Zambut, nel tempo era rimasto ad indicare liquori o bevande a base più che altro di anice. La stessa Sambuca Extra Molinari è un liquore a base di anice stellato.

EFFETTO OUZO – In tutto il Bacino del Mediterraneo abbiamo la tradizione di liquori a base di anice: in Francia, ad esempio, il Pastis, il Pernod e l’Assenzio (quest’ultimo molto diffuso in tutta Europa), in Turchia il Raki, l’Ouzo in Grecia, l’Arak in quella che venne chiamata la Mezzaluna fertile, il Mistra’ nella zona della Marche, l’Anice in Sicilia, le Sambuche nel Centro Italia.
E tutti hanno in comune la capacità di creare quell’effetto nebuloso nel bicchiere chiamato, appunto, “effetto ouzo”.

L’effetto ouzo o effetto louche (in francese ‘torbido’) si ottiene quando un olio essenziale fortemente idrofobico, quale l’Anetolo dei vari liquori aniciati, che disciolto in alcol è trasparente, appena mischiato all’acqua precipita in macromole visibili ad occhio nudo formando nuvolette lattiginose.

L’Anetolo è una molecola a struttura aromatica che ha di suo una capacità dolcificante tredici volte maggiore del saccarosio.

GLI ACQUAIOLI – Gli Acquaioli, che si inseriscono nella tradizione degli Acquavitari, producevano e rivendevano anch’essi dei distillati alcolici, ma erano più propriamente dei fornitori di acqua e dissetanti, quale il distillato di anice. Esercitavano il loro mestiere un po’ in tutte le campagne e le città del Centro Sud Italia, ma prevalentemente di giorno, lungo le passeggiate, per le strade, vicino agli uffici o ai teatri, nelle fiere, e si annunciavano al tipico ‘abbanniu’ (grido):

Acqua fresca ca’ è bella gilata, e si n’un è frisca tirate ‘u bicchiere ‘ntall’aria”. (v. acqua e zammu’: l’antico rituale che profuma di anice di Manuela Zanni).

L’acqua doveva essere rigorosamente “gilata’, anzi ‘atturrunata’, che significa più che gelata. L’abitudine all’acqua gelata in estate a Palermo non si è mai perduta.

Gli Acquavitari si erano anche assegnati una protettrice nella Madonna della Mercede, la cui festa è il 24 settembre, a fine estate. Esisteva verosimilmente anche la confraternita degli Acquavitari, se è vero che a Palermo vi era “la vanella degli acquavitari collaterale la Chiesa degli Acquavitari “. (v. Marco Spata studioso su salvare Palermo.it).

È noto il disegno del Mongitore del 1724 che raffigura l’Acquaiolo con il banchetto, la cantimplora con l’acqua fredda, le bottiglie e i gotti, intento ad assistere in Piazza Marina, a Palermo, ad un’autodafe’, probabilmente servendo acqua e anice agli spettatori (a quanto pare dagli spettacoli nell’arena degli antichi Romani ai fight club dei nostri giorni, attraverso gli spettacoli degli autodafe’ dell’Inquisizione, sono cambiati solo i modi ma non la sostanza dell’animo umano).

Ancora nel 1759 l’abate Meli celebrava il mestiere dell’acquaiolo in una sua poesia:

Pri ‘ddu chianu chianu, giranno cu ‘na bozza picciridda, jia’banniannu cu li gotti ’mmanu: acqua cu zammu’ chi l’hajiu fridda” (“per tutto il piano, andando in giro con una piccola cantimplora, andava con i bicchieri in mano gridando: acqua con anice veramente fresca”). (v. Sicilia nel mondo.com).

Ed infine ad inizio del XX secolo il nostro illustre concittadino Fulco di Verdura in “Estati Felici” descrive la figura ed il mestiere dell’Acquavitaro:

“Una figura familiare per le strade della città era quella dell’Acquavitaro. In un lungo grembiale blu se ne stava accanto a un tavolo costruito apposta per sorreggere, conficcati in una specie di reticolato, dei lunghi bicchieri. L’acqua era in un vasto orcio di terracotta. Con una destrezza sorprendente aveva modo, bilanciandosi su un ginocchio, di riempire i bicchieri ad uno ad uno, senza mai versarne una goccia. Da una storta schizzava due o tre getti di ‘zambu’ ‘ e la bibita era pronta. Il tavolo era dipinto a vivi colori con decorazioni di rame e un mazzo di fiori di stagione. I palermitani non erano gran bevitori, ed era raro vedere un ubriaco per strada, però, specie tempo d’estate, erano grandi consumatori di limonate, aranciate, latte di mandorle o semplicemente acqua e zambu’, che è un derivato dell’anice…”.

LA STORIA DEI FRATELLI TUTONE – Su questa scia di Acquavitari/Acquaioli imprenditori si innesta la vicenda dei nostri concittadini, i fratelli Tutone, la cui storia imprenditoriale arriva fino ai giorni nostri. Anche loro avevano inventato una loro personale e fortunata ricetta. Ormai da circa sette generazioni hanno conservato e tramandato questa ricetta dell’Anice Unico Tutone, scritta in un piccolo quaderno a quadretti con la copertina nera, gelosamente custodito in cassaforte.

Le prime notizie di una famiglia Tutone o Titone, probabilmente originaria di Ventimiglia di Sicilia o di Baucina, si hanno in alcuni atti notarili in cui si cita Tommaso Titone, acquavitaro e produttore di ‘petrafennula’ (1760), e Giuseppe Titone (1761), interessati nella gestione di affari relativi alla vendita di liquori nella zona della “Panneria” a Palermo. Andando più avanti negli anni , dai registri civili si estrapolano le qualifiche professionali di quelli che verosimilmente furono i discendenti di questi acquavitari che abbiamo già citato: acquavitaro/acquaiolo, cioccolatiere, caffettiere, sambucaro, friggitore e cantiniere. (v. la famiglia di acquavitari Tutone e l’invenzione dell’Anice Unico Tutone Bruno De Marco studioso, esperto di ricerche archivistiche. salvare Palermo.it).

Al 1813 risalgono le prime notizie della nota distilleria di liquore all’anice da utilizzare come additivo rinfrescante nell’acqua, sita in Piazza della Fieravecchia (oggi Piazza Rivoluzione), con un chiosco dove le bevande rinfrescanti potevano essere facilmente acquistate dagli avventori con le loro signore sia in carrozza che a piedi. Ed al suono del ritornello che gli amici si scambiavano affettuosamente “acqua e zammu’, prima io e poi tu”, i passanti, provenienti da una passeggiata pomeridiana alla Marina o da uno spettacolo del vicino Teatro Santa Cecilia (il più importante teatro palermitano fino al 1892), tutti si mettevano in fila per gustare la rinfrescante bevanda, a volte arricchita dalla “Mosca”, un chicco di caffè lasciato cadere sul fondo del bicchiere.

LA MODA DEI CHIOSCHI – Già a quel tempo i chioschi erano diventati strutture fisse, a volte di pregevole architettura, ma sempre rutilanti di colori ed accattivanti per i clienti. Lo stesso esimio nostro concittadino, il medico, scrittore, entnologo Giuseppe Pitrè ha descritto questi chioschi come ”fantastici, per i giganteschi bicchieri con pesci color oro e argento, per i limoni in mezzo all’acqua o contornanti l’edicola medesima, per le foglie verdi sparse qua e là”.

Ai primi del Novecento uno dei discendenti Tutone a capo dell’impresa di famiglia, Francesco Tutone, diede incarico ad Ernesto Basile di disegnare un chiosco per la propria attività, seguendo la moda, tutta palermitana, di far costruire splendidi chioschi in stile Liberty con della tettoie artistiche, a volte prodotte in ferro battuto presso la Fonderia Oretea, per proteggere dal sole gli avventori che acquistavano bevande o prodotti di tabacco.

A Palermo sono rimasti alcuni esempi in Piazza Verdi, in Piazza Politeama, in Piazza Principe di Camporeale e lungo Via Messina Marine. Per motivi di cui non è rimasta traccia in documenti scritti, questo chiosco di splendida fattura non venne mai realizzato e ne rimane viva la memoria solo grazie ad un disegno fatto dall’architetto Antonino Lo Bianco, allievo di Ernesto Basile. (Mettere foto del chiosco).

Il pregio, che ha reso “Unico” l’Anice Tutone è stata l’alchimia di sapori ottenuta da alcune spezie, si dice tra esse il cumino, e l’anetolo, il principio aromatico estratto dall’anice stellato e acquistato, all’inizio, in farmacia. Ancora oggi quest’olio essenziale è il cardine del prodotto e viene importato direttamente dalla Cina (v. Anice Unico Tutone su Tutone.it). L’aggettivo di Unico venne aggiunto dagli stessi Fratelli Tutone per l’aggiunta di questo particolare ingrediente, in maniera da distinguere il proprio distIllato da tutti gli altri concorrenti.

Vi è a questo proposito un inserto pubblicitario dei Fratelli Tutone sul Corriere dell’Isola (21-22 giugno 1898):

“Per l’estate raccomandasi alle famiglie di usare per l’acqua il rinomato Anice Unico Tutone dell’antica fabbrica fratelli Tutone. Casa fondata nel 1832-Palermo- Piazza Rivoluzione (Fieravecchia), i soli che ne posseggono il vero segreto di fabbricazione. Detto Anice (Zambu’), per sua natura gustosissimo, apprezzato da celebrità mediche, prestasi mirabilmente ai diabetici, non contenendo alcuna sostanza zuccherina. La stessa ditta Fratelli Tutone-dietro cartolina vaglia di L.5- spedisce in tutto il Regno pacchi postali di numero 4 bottiglie Anice distillato di grammi 300 circa, franco di porto. Vende pure la vera essenza di finocchio nostrale-fabbricazione propria- a lire 28 rotolo(800gr). Anice litro L.2,10-Bottiglia grande
L.1- Piccola cent.30. Guardarsi da contraffazioni”. (Ibidem)”.

L’Anice Unico Tutone era venduto, come abbiamo visto, in poche gocce in acqua ai passanti ed alle signore in versione rinfrescante e tonico-digestiva, ma era fornita anche all’esercito per la distribuzione ai soldati grazie alle sue virtù corroboranti se bevuto in purezza.

All’Esposizione Agraria e della Villeggiatura di Como del 1909 L’ Anice Unico Tutone vinse la medaglia d’oro nelle propria categoria.

Il Ministro e poi Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, che ne era un affezionato consumatore, ne promosse l’uso anche nei punti di ristoro di Montecitorio, dove, si dice, l’uso di acqua e Anice Unico Tutone sia ancora una consuetudine. (V. Anice Unico Tutone).

L’attività aziendale divenne sempre più florida e gli spazi non bastavano più, quindi, nel 1948, la produzione dell’Anice Unico Tutone si trasferì in un locale del Palazzo Ajutamicristo, prima di soli 16 metri quadri, poi di circa 400 metri quadri.

Questa transizione venne salutata da una accattivante pubblicità del prodotto in piccole bottigliette di Anice Unico Tutone distribuite nei bar di via Ruggero Settimo (v. ibidem).

Nel tempo la produzione liquorale divenne variegata, proprio come nella migliore tradizione dei maestri Acquavitari: l’Amaro, il Cuor di Limone, il Mistra’, il Maraschino cominciarono ad allietare le serate dei clienti.

Insomma  ormai da oltre 200 anni, i palermitani e non solo, a Palermo e nel Mondo, si dissetano, si rilassano, si offrono l’un l’altro un bicchiere “annivato” da una nuvoletta di Anice Unico Tutone, che non è una semplice bevanda, ma un orgoglio palermitano e siciliano di cui andare fieri e da difendere dalla globalizzazione e dalla spersonalizzazione rappresentate dalle tante bevande tutte più o meno uguali che il mercato ci offre con assillanti pubblicità.

Ma soprattutto rappresenta un insieme di ricordi, di tradizioni della propria città e della propria cultura, diventando così ogni volta un vero e proprio “confort drink” non solo e non tanto per il corpo quanto per la memoria e per lo spirito.

Foto tratta da Pinterest

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