Il Palazzo Reale di Palermo? Va aperto a tutti, tranne che ai Savoia

22 luglio 2020

Il dibattito che ha aperto il professore Massimo Costa sulla visita di un principe discendente dei Borbone si arricchisce di un altri intervento: quello di Ignazio Coppola. Che ricorda che la Sicilia, al tempo del regno delle Due Sicilie, non era economicamente depressa. Anzi

 

La notizia che Don Jaime, erede del casato dei Borbone, ha scelto la Sicilia per convolare a Settembre a giuste nozze ha sconvolto a tal punto il Prof: Massimo Costa da scrivere una lettera di protesta al presidente dell’Assemblea regionale siciliana, onorevole Gianfranco Miccichè, reo di avere messo a disposizione dei nubendi per il lieto evento i locali del Palazzo Reale di Palermo, motivando il fatto che i Borbone nella loro storia, nei confronti dei siciliani, si sono lasciati andare a compiere le più grandi nefandezze.

Il Prof. Costa, insigne economista, ma di corta memoria dimentica che la Sicilia sotto i Borbone, da lui tanto detestati, a quei tempi, al pari dei territori continentali del Regno di Napoli, era tutto un fiorire di iniziative economiche. La Sicilia, alla condizione di regione depressa venne condannata non prima ma dopo l’Unità d’Italia.

La favola di una Sicilia e del Sud irrimediabilmente negati a ogni forma di sviluppo industriale faceva parte di un alibi tendente, successivamente, a giustificare una politica di asservimento del Mezzogiorno e della Sicilia all’esclusivo ruolo di mercato e sbocco dei consumi dei prodotti agricoli e industriali del Nord.

Ancora prima dell’Unità fioriva, nelle due maggiori città dell’Isola, Palermo e Catania, l’industria della seta esportata con successo, per la qualità dei suoi prodotti, nei mercati europei e mediterranei. L’industria del tabacco produceva migliaia di tonnellate di manufatti all’anno, occupando tra operai e indotto, diverse migliaia di unità lavorative.

Fiorenti, a quei tempi, erano anche le attività cantieristiche, navali, metalmeccaniche, chimiche, della lavorazione del cotone e del lino, l’industria conserviera, la produzione e la commercializzazione dei vini e l’estrazione e la lavorazione dello zolfo, quest’ultima la più importante e ricca d’Europa.

Vero fiore all’occhiello, poi, dell’economia isolana era la flotta mercantile con la compagnia Florio che gareggiava con le principali marinerie del Mediterraneo. Nel decennio che va dal 1850 al 1860 era stato varato, dal punto di vista amministrativo, un notevole numero di provvedimenti, a salvaguardia dell’economia isolana, di innegabile portata. Fu costituito un debito pubblico con un immediato risveglio nel movimento dei capitali. Fu creato il Banco Autonomo di Sicilia, due Casse di sconto e numerose Casse di risparmio.

E, ancora, costituita la redimibilità dei censi degli enti morali, ripristinato il libero cabotaggio tra l’Isola e il continente e istituito il fido doganale. Istituito il porto franco di Messina, riorganizzato e aggiornato il catasto fondiario e creato ex novo il Genio civile.

Con l’Unità d’Italia di tutto questo non rimase più nulla. Il nascente sistema industriale e le risorse del Sud furono progressivamente smantellate e trasferite al Nord. Di tutto questo il Prof. Costa ne dovrebbe avere memoria, soprattutto dei vantaggi di cui la Sicilia beneficiò con i Borbone.

Nell’antico Regno di Napoli il debito pubblico era piuttosto leggero. La Sicilia, nel 1858, pagava ai Borbone 40 milioni circa di tasse. Con l’unificazione del debito pubblico nazionale, i siciliani versarono nelle casse dello Stato italiano ben 187 milioni di lire.

Nel regime borbonico, compresa la Sicilia, liberi da ogni peso erano, fra l’altro, la ricchezza mobile e le successioni, molto tenui le tasse di registro e bollo. Ed ancora la Sicilia, sotto i Borbone, era stata tradizionalmente esente dall’obbligo del servizio militare che veniva svolto da truppe mercenarie e da volontari. Ciò aveva permesso ai nuclei familiari dell’Isola di utilizzare i propri figli e i giovani per lavorare la terra, svolgere i lavori quotidiani e portare avanti con profitto una sana economia familiare.

Con l’Unità d’Italia tutti i benefici di cui si giovarono i siciliani con i Borbone scomparvero. Ed è in memoria di tutto questo che il prof Massimo Costa, accecato dal suo eccessivo e pervicace sicilianismo, farebbe meglio anziché scrivere al presidente dell’Assemblea regionale siciliana di vietare l’ingresso a Palazzo Reale ai nubendi si rivolgesse alla commissione toponomastica di Palermo – e non ci risulta che l’abbia mai fatto – per togliere dalle strade della città i nomi di tutti i conquistatori che, sotto il segno di casa Savoia, ridussero la Sicilia alla condizione di colonia, compresi gli stemmi della casa reale sabauda che ancora esistono all’interno del Palazzo Reale di Palermo. Farebbe un buon servizio a se stesso e ai siciliani.

Foto tratta da Nexus Edizioni

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