La Regione siciliana vuole valorizzare Borgo Bonsignore. La storia dei Borghi rurali della Sicilia

3 luglio 2020

Voluti dal fascismo per combattere il latifondismo, i Borghi rurali della Sicilia – previsti da una legge nazionale del 1940 – vennero appena realizzati perché poi scoppiò la Seconda guerra mondiale. Da allora ad oggi sono stati dimenticati. Oggi si prova a rilanciarli. La loro storia è comunque interessante

Uno stanziamenti di poco più di 2 milioni di euro da parte del Governo regionale siciliano per riqualificare Borgo Bonsignore – luogo che si trova dalle parti di Ribera, in provincia di Agrigento – ci dà l’opportunità di tornare sulla storia dei Borghi rurali della Sicilia che il fascismo iniziò a realizzare – in realtà con molto ritardo rispetto al dibattito di quegli anni – per porre fine al cosiddetto latifondismo, che è stato, nella stragrande maggioranza dei casi, una sorta di ‘cancrena’ che ha condizionato per tanti anni la vita economica siciliana.

Gli otto Borghi rurali pensati tra il 1939 e il 1940, sono nati sotto l’egida dall’Ente per la colonizzazione del latifondo siciliano. Con l’entrata in guerra dell’Italia tutto si interruppe, anche se, bene o male, i Borghi vennero realizzati secondo lo stile architettonico del tempo.

Dopo il secondo conflitto mondiale vennero ripescati e assegnati all’Ente per la riforma agraria siciliana che il Parlamento dell’Isola approverà nel 1950. Una riforma che, in buona parte, non sortirà effetti positivi, tant’è vero che in quegli anni, dalle campagna siciliane, saranno in tanti a partire per cercare fortuna nel cosiddetto ‘Triangolo industriale’ rappeesentato da Milano, Torino e Genova.

Nei primi anni ’60 del secolo passato la Regione siciliana liquiderà l’Eras per sostituirlo con l’Esa, sigla che sta per Ente di sviluppo agricolo. Non ci crederete ma, per oltre 50 anni, questi Borghi rurali – che avrebbero potuto benissimo essere recuperati e utilizzati per finalità turistiche, sono stati abbandonati.

Per la cronaca, il regime fascista per combattere, almeno sulla carta, il latifondismo, si era rivolto a due grandi economisti agrari del tempo, i professori Arrigo Serpieri Giuseppe Tassinari.

Serpieri, nella seconda metà degli anni ’30, si era occupato della bonifica, in un’Italia dove era molto diffusa la malaria. Di latifondismo si occupò il professore Tassinari, non a caso la legge che sancì la nascita dei Borghi rurali porta il suo nome.

Sempre per la cronaca, va precisato che in Sicilia il fascismo aveva iniziato ad occuparsi di pianificazione di nuovi insediamenti tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30. Lo Stato italiano, allora, aveva avviato la bonifica di vaste aree incolte e malsane sulla scorta della legge n. 3134 del 1928, nota come “Provvedimenti per la bonifica integrale”.

Vennero costruiti allora i primi borghi destinati ad accogliere gli operai che si occupavano, per l’appunto, delle opere di bonifica, anche se, in seguito, alcuni di questi borghi diventeranno insediamenti agricoli o piccoli centri. Tra questi ricordiamo Pergusa, in provincia di Enna, che risale al 1935: un insediamento realizzato attorno al lago di Pergusa, oggi Riserva naturale della Regione siciliana (istituita, si racconta, per bloccare la pista automobilistica).

Tornando ai Borghi rurali, l’obiettivo che il regime fascista si proponeva di raggiungere, come già accennato, era l’eliminazione del latifondo, metodo di conduzione delle aziende agricole tipico del Sud e, in particolare, della Sicilia.

In quegli anni i contadini non vivevano nelle campagne, ma nei centri piccoli e grandi. Al lavoro si recavano spesso a dorso di mulo. Era una gestione contrassegnata dalla presenza di tante diseconomie.

La ‘filosofia’ dei Borghi rurali puntava a portare i contadini siciliani a vivere a contatto con l’azienda agricola. Erano, i borghi, delle città in miniatura dove spiccavano non soltanto le abitazioni, ma tutto quello che serviva alle persone per vivere, compresa la chiesa.

Va ricordato che nell’Italia di quegli anni le differenze, in materia di struttura e, soprattutto, di gestione delle aziende agricole tra Nord, Centro e Sud erano molto marcate.

Nel Nord Italia prevaleva la conduzione capitalistica delle aziende agricole, mentre nel Centro brillava la mezzadria. In Sicilia e in alcune aree del Sud dominava il latifondo.

Era un fatto negativo? In molti casi sì, perché i proprietari di grandi appezzamenti di terreni, che erano quasi sempre nobili (che piano piano verranno sostituiti da “iene”, come racconta ne Il Gattopardo Giuseppe Tomasi di Lampedusa), si disinteressavano della conduzione delle aziende, delegando tutto ai gabelloti. I quali organizzavano lo sfruttamento dei braccianti agricoli con metodi quasi schiavistici, terrorizzando e ammazzando chi osava ribellarsi.

Proprio attorno alla figura dei gabelloti nasce la mafia del feudo, cioè la mafia delle campagne che solo dopo il secondo dopoguerra si trasferirà in alcune città siciliane, Palermo in testa.

C’erano eccezioni? Sì. Qualche nobile illuminato c’era: per esempio, Lucio Tasca Bordonaro che, contrariamente a tanti altri nobili della Sicilia, non solo conduceva la propria azienda agricola, ma la fece diventare un esempio in tutta la Sicilia e, perché no?, nel Sud Italia.

“Rese l’azienda agricola di famiglia, Tasca d’Almerita, casa vinicola fra le più avanzate tecnologicamente di tutta la Conca d’oro, intorno a Palermo. Dal 1922 gestì il feudo Regaleali, triplicando la superficie dei vigneti e ingrandì le cantine. Nel 1932 venne nominato Cavaliere del Lavoro per l’agricoltura”.

Le accuse di latifondismo, nel senso deteriore del termine, non potevano nemmeno sfiorare Lucio Tasca, autore anche di un libro che, visto dalla sua parte – alla luce della sua esperienza – era corretto: “Elogio del latifondo siciliano”.

Ma l’azienda Tasca era un’eccezione: la realtà, nella stragrande maggioranza dei latifondi della Sicilia, era un’altra: grandi distese di territorio dove l’uomo si vedeva solo per la semina e la raccolta del grano, la gente che non viveva nelle campagna per sfuggire alla malaria, braccianti sfruttati, produzioni basse e gabelloti che si arricchivano vessando i braccianti agricoli e derubando i nobili proprietari che nella stragrande maggioranza dei casi si disinteressavano delle proprie aziende agricole.

Come già accennato, tra gabelloti e campieri, la mafia prosperava. Resosi conto di persona i quello succedeva in Sicilia, dove una sorta di ‘potere parallelo’ conviveva e talvolta insidiava lo Stato, Mussolini dichiarò guerra alla mafia e al latifondo.

Per la mafia spedì in Sicilia Cesare Mori, “Il Prefetto di ferro”, come lo chiamò lo storico Arrigo Petacco. E, in effetti, nei primi anni, Mori assestò colpi durissimi alla mafia, utilizzando, in alcune occasioni, i metodi che avevano utilizzato dopo l’unità d’Italia (o presunta tale) i generali dei Savoia nel Sud per combattere i patrioti che si opponevano all’invasione dei piemontesi: patrioti – come Carmine Crocco – che la cialtroneria italiana ha definito “briganti”, quando in realtà i briganti erano, appunto, i generali di casa Savoia.

Il fascismo sconfisse la mafia? No. Gettò in galera tanti mafiosi e costrinse alla fuga verso gli Stati Uniti altrettanti mafiosi. Ma quando Cesare Mori arrivò – era inevitabile che ci arrivasse – alla borghesia mafiosa, il regime fascista richiamò subito a Roma il ‘Prefetto di ferro’: lo Stato italiano, anche allora, non poteva distruggere se stesso…

Mussolini e i suoi legislatori riuscirono a eliminare il latifondo? Nemmeno. Perché la legge sulla ‘Colonizzazione del latifondo siciliano’ è del 1940: l’anno in cui l’Italia entra nel secondo conflitto mondiale, dichiarando guerra a Francia e Gran Bretagna.

Anche se, nonostante questo – e nonostante quello che successe negli anni subito successivi con la guerra e i danni di guerra – il regime fascista come già ricordato, riuscì bene o male a completare gli otto Borghi rurali. Dopo quasi 80 anni di abbandono, la Regione siciliana oggi prova a valorizzarne alcuni. Vedremo come finirà.

Foto tratta da Wikipedia

 

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