Ricordi di un cronista a Palermo1/ L’assessorato all’Edilizia pericolante e gli abusivi dello ZEN 2

4 giugno 2020

Quarant’anni fa o giù di lì. Il ricordo di come nelle abitazioni cadenti dislocate tra la Vucciria e la Cala le famiglie venivano ‘stanate’ e ‘deportate’ nei quartieri satellite della città, regalo amaro dell’urbanistica ‘di sinistra’. Una notte tra gli abitanti della ZEN 2 asserragliati nelle palazzine occupate abusivamente 

L’estate stava cominciando. O forse era appena cominciata. Fino a quel momento avevo ‘scrivacchiato’ per le pagine di economia. Improvvisamente era arrivato il primo contratto, o quasi: 300 mila lire al mese per tre mesi. Ma dovevo occuparmi di cronaca: cronaca di Palermo, ovviamente, perché il giornale presso il quale collaboravo – il giornale L’Ora – aveva sede a Palermo.

La cosa non mi convinceva proprio. Ma Vittorio era stato categorico:

“Lo devi fare. E basta”.

La notizia di questo incarico mi era arrivata dopo una veloce convocazione nel tardo pomeriggio. Capo servizio della cronaca era Tano Gullo, un tipo che andava a tremila.

L’indicazione che mi diede sembrava generica:

“Tra la Vucciria e la Cala domani mattina ci saranno un paio di sgomberi. Vai a vedere che succede. Voglio novanta righe più un appoggio di quaranta righe”.

“Ma…” provai ad obiettare.

“Ma qui non ce ne sono”, mi rispose secco. “Domani la cosa durerà un paio di ore. Devi essere lì alle sette e mezza del mattino. Ci vediamo in redazione all’una”.

La sera stessa scoprì che a Palermo c’era un assessorato comunale all’Edilizia pericolante.

“Ma di cosa si occupa?”, avevo chiesto a mio padre.

“Di rompere la min…a alla gente”, mi aveva risposto.

Così l’indomani mattina, alle sette, ero sul posto. L’indicazione del luogo che mi era stata fornita era giusta. C’erano quattro addetti con tute azzurre, due scale, un signore che dirigeva le operazioni e due vigili urbani o militari.

Dovevano convincere due famiglie a lasciare le abitazioni. Operazione non facile, perché papà, mamma, figli e nonni erano tutti barricati in casa. Il portone era sbarrato. Gli addetti dovevano arrampicarsi: a questo servivano le scale.

Grida, parolacce in palermitano strettissimo con i dittonghi allungatissimi (le “i” e soprattutto le “u” nel linguaggio panormita sembrano ululati).

“Ma se vanno via di qui dove andranno ad abitare”, avevo chiesto al capo della squadra.

“Dovrebbero andare alla ZEN 2”, era stata la sua risposta.

“Perché dovrebbero?”, chiesi.

“Perché la cosa è complicata”, mi rispose.

“In che senso?”.

Il caposquadra mi fissò un po’ stranito. Poi disse:

“Vabbé che lei è giovane. Ma sempre giornalista a Palermo, è! Non lo sa, non gliel’hanno spiegato come funzionano a Palermo le assegnazioni delle case popolari?”.

Un signore – che doveva essere un collega del caposquadra – mi disse sorridendo:

“Può succedere che la casa che è stata assegnata, per esempio, alla famiglia che stiamo per fare uscire da qui è già occupata”.

“Occupata abusivamente?”, chiesi.

“Ha visto che c’è arrivato? Bravo!”, mi rispose il caposquadra.

“E in questi casi che si fa?”, tornai a domandare.

“E’ un gran casino”, replicò. “Quello che le possiamo dire è che il nostro compito è convincere le famiglie a lasciare le abitazioni pericolanti. Poi se la vedono lo IACP e altri uffici comunali. Ad ognuno la sua croce”.

Lo IACP era e dovrebbe essere ancora l’Istituto Autonomo Case Popolari.

Insomma, quella mattina tra grida e parolacce, le due famiglie vennero “sgomberate”, come diceva il caposquadra.

Al capo servizio l’articolo era andato a genio. Due giorni dopo mi disse:

“C’è bordello allo ZEN 2. Tante famiglie hanno trovato le case loro assegnate occupate. Occupatene tu che ormai conosci la storia”.

L’assessore comunale del tempo voleva fare chiarezza. Voleva buttare fuori le famiglie che avevano occupato le abitazioni per dare la casa agli “sgomberati” dal Centro storico di Palermo che ne avevano diritto.

Risultato: a barricarsi erano gli abitanti abusivi di alcune palazzine dello ZEN 2.

“Vai a intervistare gli abusivi dello ZEN 2”, mi disse il capo servizio.

Gli ordini non si discutevano. Bisognava trovare il modo di entrare nelle palazzine occupate. La possibile soluzione me la fornì Vittorio:

“Una volta mi hai detto che giocavi a calcio da allievo con un ragazzo della ZEN 2. Contattalo”.

Avevo smesso di giocare a calcio già da qualche anno, ma l’idea si rivelò giusta. Il mio ex compagno di squadra faceva il muratore a Borgo Nuovo. Mi diede un’indicazione un po’ vaga. Contattai un signore che mi disse:

“Ti manda un mio caro amico. Posso provare a contattare uno di loro. Ti telefono”.

Prima di salutarmi mi chiese:

“Con che auto ti sposti?”.

“Con quella di mia madre: una 500 rossa”, risposi.

“Bene”, mi disse stringendomi la mano.

Allora non c’era il telefono cellulare. Bisognava farsi trovare sul posto, accanto al telefono, all’ora prestabilita. Cioè a casa alle otto e mezza di sera.

La telefonata arrivò puntuale:

“Un mio amico ti aspetta tra mezz’ora in piazza Pallavicino”.

“Addio cena”, pensavo, sbagliando.

Alle nove di sera ero in piazza Pallavicino. Un signore di una trentina di anni scese dall’automobile – una Fiat 124 sport – e mi disse:

“Seguimi”.

Da Pallavicino c’è una stradina – che non conoscevo – che passa dietro via Castelforte e che arrivava allo ZEN 2.

Giunti allo ZEN 2 c’era una sorta di posto di blocco:

“E’ con me”, disse il signore dopo aver abbassato il finestrino.

A me sembrava di vivere una scena surreale: ma era divertente.

Dopo un po’ arrivammo in una piazzetta, o quasi tale, deserta.

La 124 si fermò. Il signore scese dall’auto e mi disse:

“Parcheggia qui”.

“Mi sembra un po’ deserta, sa la macchina è di mia madre…”.

“Tranquillo – mi disse – qui di macchine ne trovi due”.

Cinque minuti dopo ci trovavamo sotto una palazzina con il portone guardato a vista da una decina di persone.

“E’ con me”, disse il signore.

Non ricordo se c’erano quattro o cinque piani. Ma ricordo che finimmo in terrazza dove era in corso una ‘arrustuta’ di salsiccia e carne di ‘crasto’.

“Prima mangiamo”, mi disse quello che sembrava il capo della rivolta che coinvolgeva centinaia di persone.

Mi arrivò un bel piatto di salsiccia e carne di ‘crasto’, forchetta, coltello, una mafaldina fresca e un generoso bicchiere di vino. La cena – molto buona – era stata rimediata.

La chiacchierata durò un’ora. Mi spiegarono che avevano occupato le case “per bisogno”.

Lui, anzi loro parlavano e io prendevo appunti.

Erano fiumi in piena. Avevano ragione? In parte, sì. A me i ribelli sono sempre piaciuti. Se fossi vissuto a Palermo nel 1866 sarei stato di certo sulle barricate del ‘Sette e mezzo”.

Domande? Qualcuna. Una, in particolare, era quella che mi interessava:

“Avete avuto a che fare con intermediari?”.

Meno di un secondo dopo aver pronunciato questa domanda il silenzio era diventato tombale. Ho avuto paura? Un po’ sì, l’ammetto. Ma il capo scoppiò a ridere e tutti iniziarono a ridere con lui:

“‘U picciutteddu ‘nni sta dicennu si nuautri pigghiamu ordini da ‘u zu’ Totò”, disse il capo ridendo.

“Ca’ un comanna nuddru e comannamu tutti”, disse ridendo.

Ci salutammo con abbracci e baci, alla Totò Cuffaro.

L’articolo andò bene? Suppongo di sì.

Infatti l’indomani a mezzogiorno, quando il giornale stava andando in rotativa, Tano Gullo mi disse:

“Buono. Visto che hai trovato una bella storia stanotte sei al Pronto soccorso di Villa Sofia. Ci vediamo domani mattina alle sei e mezza. Torna con una bella storia”.

Era la prima volta che mi mandavano in un Pronto Soccorso di notte.

“E se non dovesse succedere niente?”.

“Sono problemi tuoi. Una cosa domani la devi scrivere”.

Foto tratta da Repubblica Palermo  

 

 

 

 

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