Brevi considerazioni circa l’irrazionalità e l’inutilità delle udienze in modalità da remoto

12 maggio 2020

Giunti finalmente al momento destinato nel disegno del decreto legge n. 18/2020 (conv. con mod. nella l. n. 27/2020 e succ. mod.) alla parziale ripresa dell’attività giudiziaria “ordinaria” (c.d. periodo cuscinetto), è tuttavia fondato il timore che almeno dal 12 maggio al 31 luglio 2020 non si tratterà affatto di riprendere – sia pur in misura ridotta – proprio la stessa attività che ognuno degli operatori del diritto, per la sua parte, svolgeva prima della pandemia

da Luigi Tramontano
avvocato del Foro di Palermo
riceviamo e pubblichiamo

L’impianto normativo, davvero incerto e disordinato che si è venuto giorno dopo giorno stratificando, è il seguente.

Il comma 6 dell’art. 83 d.l. cit. assegna ai capi degli uffici giudiziari – che all’uopo devono previamente sentire il consiglio dell’Ordine degli Avvocati e l’autorità sanitaria regionale – il compito di adottare “le misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, …. al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”.
Fin qui, dunque, tutto (apparentemente) logico. Si tratta, all’evidenza, di un potere amministrativo: la norma assegna un potere e ne fissa l’obiettivo. Se si deve far ripartire la macchina della giustizia è infatti evidente che occorre predisporre adeguatamente il luogo in cui tale attività deve svolgersi – l’interno dell’ufficio giudiziario, appunto – (in modo da poter rispettare le indicazioni igienico-sanitarie vigenti (distanziamento sociale, uso di dispositivi di protezione, ecc.) e la finalità indicata dalla norma lo conferma: il potere organizzativo è conferito ai capi degli uffici giudiziari al fine di contenere al minimo il rischio, per le persone che dovranno accedere nel luogo in cui si amministra giustizia, di contrarre ivi il virus che ha messo in ginocchio una buona fetta del nostro pianeta.
Invero, salta subito agli occhi che questa poderosa incombenza amministrativa, che all’evidenza attiene all’organizzazione dei servizi relativi alla giustizia, avrebbe dovuto essere lasciata al relativo ministero (cui è espressamente attribuita, com’è noto, dall’art. 110 Cost.), invece che essere conferita ad un organo giudiziario. Ma tant’è.

Le misure organizzative da assumere al riguardo sono comunque elencate al comma 7 dell’articolo, e consistono nella possibilità per i presidenti e i capi di corte, in via alternativa o congiunta, di disporre: “la limitazione dell’accesso del pubblico agli uffici giudiziari” con salvezza delle attività urgenti (lett. a), “la limitazione dell’orario di apertura al pubblico degli uffici” – e persino “per gli uffici che non erogano servizi urgenti, la chiusura al pubblico” (lett. b); la “regolamentazione dell’accesso ai servizi, previa prenotazione, anche… telefonica o telematica” (lett. c); ed ancora, nell’ottica appunto del carattere solo parziale della ripartenza, il “rinvio delle udienze a data successiva al 31 luglio 2020 nei procedimenti civili e penali” (lett. g).
Le misure organizzative che attengono specificamente “alla trattazione degli affari giudiziari” sono in particolare quelle previste alle lettere d) ed e), comma 7, dell’art. 83: la prima consiste nella “adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze (come il prevedere, ad esempio, che ogni giorno, per ciascuna sezione, non tengano udienza più di un certo numero di giudici, e che ogni giudice, per ogni giornata di udienza, non fissi più di un certo numero di procedimenti). La seconda, invece, è “la celebrazione a porte chiuse… di tutte le udienze penali pubbliche o di singole udienze e… delle udienze civili pubbliche”.
Ora, il comma 7 inserisce però tra le misure organizzative adottabili dai capi degli uffici, anche la possibilità di stabilire che si celebrino in modalità telematica le “udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, (…)” (lettera f), nonché di svolgere – attraverso il c.d. contraddittorio cartolare – le udienze civili “che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti…” (lettera h) .

È evidente dunque, fin qui, che la norma considera lo svolgimento dell’udienza civile nelle modalità del collegamento da remoto o del contraddittorio meramente cartolare, delle misure di contenimento del rischio di contagio relative al luogo in cui si amministra la giustizia – e quindi per tale ragione le inserisce tra le misure organizzative adottabili – pur riconoscendo, nei fatti, che si tratta comunque di misure che afferiscono alla “trattazione delle udienze”, e quindi, nella buona sostanza, di regole che finiscono per comportare un modo diverso di regolare lo svolgimento del processo (civile). Anche la regolamentazione del processo è ridotta, dunque, a misura organizzativa, “ai tempi del coronavirus”. E in ragione di tale etichetta che le si attribuisce, la scelta sul se e quali udienze debbano celebrarsi con modalità telematiche è demandata ai capi degli uffici giudiziari. Tenuti ad adottare in proposito “linee guida vincolanti” – a quanto pare ultimo arrivo tra le fonti del diritto – dunque obbligatorie per i singoli giudici, e per chicchessia.

Va comunque rilevato che, seguendo la gerarchia non solo letterale ma anche logica delle dette misure – quasi tutte presuppongono invero lo svolgimento dell’attività nei locali del palazzo di giustizia – l’udienza civile è prevista, in via normale, come da celebrarsi a porte chiuse, limitandosi soltanto a quelle appartenenti alle species di cui alla lettera f del comma 7 dell’art. 83 la possibilità (non l’obbligo) di svolgerle in via telematica (e a quelle di cui alla lettera h con contraddittorio solo scritto). Il fatto che le udienze civili considerate dalla lettera f sarebbero in realtà quasi tutte le udienze possibili, ad eccezione soltanto di quelle in cui debbano essere escussi testimoni, non contraddice tale ordine, anzi: se ogni tipo di udienza civile può essere celebrata a porte chiuse, solo quelle in cui non devono svolgersi prove orali possono essere trattate “da remoto”. È un minus, non un plus. E del resto, sarebbe del tutto irragionevole la lettura invertita della norma: che senso potrebbe mai avere, se lo scopo è quello di proteggere la salute delle persone, ritenere che tutte le udienze che coinvolgono solo le parti e i rispettivi difensori si dovrebbero celebrare con collegamento telematico, mentre quelle che prevedono la presenza di almeno una persona in più (un testimone) non potrebbero che celebrarsi in un’aula del tribunale?

E dunque: la norma demanda ai capi degli uffici giudiziari la responsabilità di predisporre la ripresa dell’attività nel luogo in cui si amministra giustizia, al dichiarato fine di evitare assembramenti e contatti ravvicinati tra le persone. E quindi, presuppone che le udienze (per ora consideriamo le sole udienze civili) si continuino a tenere all’interno del palazzo di giustizia nella misura in cui ciò non impedisca di evitare tali assembramenti e contatti ravvicinati. Laddove ciò non fosse possibile assicurare, e comunque per le udienze (civili) che eccedano la misura di quelle che è possibile tenere senza rischio nelle aule di giustizia (considerando anche gli spazi adiacenti, per l’attesa), si prevede che si possa disporre di celebrarle con collegamento telematico tra i relativi partecipanti.

Ed è qui, però, che la norma di origine governativa finisce per oltrepassare i limiti del consentito, dacché l’udienza celebrata attraverso il collegamento da remoto non è, appunto, un’attività che si svolge nel luogo in cui si amministra giustizia (la sede del tribunale), ossia nel luogo in cui è legittimamente esercitabile la potestà organizzativa – già straordinaria – conferita ai capi degli uffici giudiziari. Sotto tale profilo, ad esempio, già il solo imporre (sia pur indirettamente) al singolo che debba partecipare all’udienza, di installare nel proprio dispositivo elettronico il programma che gli consenta di prendere parte alla piattaforma sulla quale si svolgerà l’udienza, è una misura che, fisicamente, esce dai confini del palazzo di giustizia, per ricadere su un bene privato altrui. Altra faccenda sarebbe invece, se glielo si proponesse, ed egli accettasse.

Per le udienze penali, il disegno normativo è completamente diverso. La previsione originaria del decreto legge n. 18/2020 seguiva infatti la via corretta: come visto, invero, il comma 7 dell’art. 83 disponeva chiaramente e semplicemente – e dispone tutt’ora – che “tutte le udienze penali pubbliche”, o solo alcune di esse, devono essere celebrate a porte chiuse (lettera e), quindi nelle aule del palazzo di giustizia. L’alternativa significa, evidentemente, che la disposizione di celebrare le udienze penali dibattimentali a porte chiuse può essere assunta in chiave generale, se lo spazio a disposizione è sufficiente ad evitare assembramenti e contatti tra le persone, oppure per singole udienze, nel caso opposto. Ma in quest’ultima eventualità, il comma 7 dell’art. 83 non prevede che i capi degli uffici possano fare nient’altro, se non appunto fissare il numero massimo di udienze (penali) che si possano giornalmente tenere nei locali del palazzo di giustizia, a porte chiuse. Tutto ciò che esorbita da tale possibilità, non si tratta, e va rinviato (art 83, comma 7, lettera g, come ricordavamo).
La previsione della possibilità di celebrare anche le udienze penali in modalità da remoto è stata successivamente e proditoriamente inserita, com’è noto, in sede di conversione del decreto legge in parola, mediante l’aggiunta di un comma 12-bis all’art. 83.

Oltre che porsi in palese quanto invincibile contrasto con la previsione del comma 7 (che sul punto è rimasta inalterata), deve ribadirsi comunque che tale disposizione, a differenza che per le udienze civili, non conferisce ai capi degli uffici giudiziari alcun potere al riguardo, piuttosto si limita a disporre direttamente che le “udienze penali” – in cui non debbano partecipare altri soggetti al di fuori del pubblico ministero, delle parti private e dei rispettivi difensori, nonché degli ausiliari del giudice, ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, interpreti, consulenti o periti – “possono essere tenute mediante collegamenti da remoto…” .

La scelta se tenerle o meno in detto modo sembra dunque affidata, in questo caso, direttamente ai singoli giudici. Non pare invero sussista altra possibilità di lettura se non quella che la norma consideri l’opzione di tenere l’udienza penale in modalità da remoto un semplice aspetto del potere di programmazione dell’udienza stessa che compete ad ogni organo giudicante (faccio riferimento a tutte le norme del codice di procedura che stabiliscono il compito del giudice di citare gli attori di un processo con un’ordinanza in cui siano indicati giorno, ora e luogo in cui devono essi comparire).

Il che denota un evidente, quanto difficilmente comprensibile, mutamento di prospettiva rispetto a quanto previsto per le udienze civili.
Ciò che conta sottolineare, comunque, è che in nessuno dei due casi è il decreto legge a disporre in modo diretto alcunché. Perché, come visto, tanto per le udienze civili quanto per quelle penali la celebrazione delle stesse in modalità da remoto è prevista come mera possibilità, e la scelta se adottare tale modalità in concreto è demandata, nell’un caso, ai capi degli uffici giudiziari, e nell’altro ai singoli magistrati giudicanti.

Ora, l’udienza, di per sé, è un momento indistinto di un processo. Può accadere che non si faccia nulla di rilevante, oppure che si svolga una qualsiasi attività processuale. La norma del “cura Italia” non distingue. La considera unicamente come motivo per cui le persone devono recarsi in tribunale. Ebbene, non è questa, bisogna pur dire, la sua natura. È importante non smarrire il fatto che l’udienza è il momento cruciale che scandisce il procedere del processo, di qualsiasi processo, il momento e il luogo in cui, di norma, gli attori sollevano eccezioni, pongono questioni, obiettano, postulano: in una parola, combattono . Per convincere chi deve emettere una decisione: “la libertà del convincimento… vuole l’aria e la luce dell’udienza”, scriveva mirabilmente un grande maestro.

Ebbene, se così è, tale è davvero la distanza che separa la celebrazione fisica di un’udienza con la sua fictio di celebrazione telematica, da far venire subito in mente che le modifiche introdotte dal decreto in esame non già delle mere misure organizzative siano, quanto piuttosto delle vere e proprie regole (aggiuntive) di svolgimento del processo medesimo, tanto civile quanto penale.

Questione certamente di non poco momento, dacché ove il dubbio sulla natura processuale di tali regole si rivelasse fondato, il concreto esercizio del potere come sopra attribuito dal decreto ai capi degli uffici per le udienze civili, e ai singoli giudici per quelle penali, sarebbe da ritenersi per ciò stesso illegittimo, in quanto le norme processuali, com’è noto, possono essere dettate solo da una legge (art. 111, comma primo, Cost.). E la legge, nel caso di specie, non le ha dettate. Ha finto soltanto di farlo, lasciando invece la scelta nei singoli casi se introdurre o no le regole nuove di celebrazione del processo, all’autorità giudiziaria (unilateralmente).

Qui tuttavia non è il luogo per addentrarsi in tale delicatissima questione, potendo bastare condurre innanzitutto una riflessione, ancora più a monte, sul se, ed eventualmente in che limiti, la concreta scelta di celebrare un’udienza in via telematica potrebbe dirsi innanzitutto ragionevole, e in secondo luogo effettivamente utile allo scopo per cui è stata (invero, assai frettolosamente quanto confusamente) pensata dal legislatore d’urgenza.
E allora occorre partire, come d’obbligo, ab ovo, ossia dall’esame della disciplina costituzionale.

Perché invero giusto l’emergenza di tipo sanitario – qual è quella che evidentemente ha dettato le disposizioni legislative temporanee ed eccezionali in esame – trova una specifica considerazione nella nostra Costituzione. La quale consente, però, laddove ricorra una simile emergenza, unicamente il sacrificio della sola libertà di circolazione degli individui (art. 16 Cost.). La carta costituzionale espressamente esclude dunque, per ragioni attinenti alla salute pubblica, il sacrificio di altri diritti, ed è pacifico che tra i diritti costituzionalmente garantiti all’individuo vi sia, ad esempio, quello a un giusto processo, o alla difesa.

Non troverei di meglio, per esprimere questo concetto basilare, che riportare le parole usate dalla presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia in calce alla sua relazione sull’attività della Consulta nel 2019 (pubblicata il 28 aprile 2020): “La nostra Costituzione non contempla un diritto speciale per lo stato di emergenza sul modello dell’art. 48 della Costituzione di Weimar o dell’art. 16 della Costituzione francese, dell’art. 116 della Costituzione spagnola o dell’art. 48 della Costituzione ungherese. Si tratta di una scelta consapevole. Nella Carta costituzionale non si rinvengono clausole di sospensione dei diritti fondamentali da attivarsi nei tempi eccezionali, né previsioni che in tempi di crisi consentano alterazioni dell’assetto dei poteri”.
Vero è che, per inevitabile conseguenza, limitandosi la libertà di circolazione dell’individuo si finisce per pregiudicargli l’esercizio di tanti altri diritti. Ma non si cada nell’equivoco: il pregiudizio in questi casi, implicato “a cascata” di necessità, riguarda appunto il concreto esercizio di un diritto, non il diritto stesso. Si tratta, cioè, della eventuale (e comunque temporanea) compromissione della possibilità di esercitare a pieno un diritto (quello allo studio, al lavoro, all’impresa, al culto, e via dicendo), ma il diritto non può venir meno e neppure può essere trasformato in un diritto di minor ampiezza. Il diritto allo studio, ad esempio, non possiede, quale suo necessario connotato, un particolare luogo fisico in cui si debba necessariamente svolgere l’attività di apprendimento. Lo stesso dicasi per il diritto al lavoro, per il diritto a professare una certa confessione religiosa, per il diritto alla libera manifestazione del pensiero, e così via. Tutti casi in cui, per l’esistenza del diritto, un luogo vale un altro.

Per il diritto ad un giusto processo, invece, non è così. Il luogo dove si svolge il processo è essenziale, è un preciso connotato di tale diritto: “Ogni processo si svolge…. davanti a giudice terzo e imparziale”, recita l’art. 111 Cost., al comma secondo, e l’art. 25 Cost., esordisce proclamando che “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale….”, tale essendo, secondo la lettura più ovvia, quello che siede giusto nel luogo in cui si è svolto il fatto che deve essere giudicato. Detto banalmente, nello stesso modo in cui tante volte l’ho giustamente sentito dire anche a molti magistrati: i processi non si fanno nelle piazze. Si fanno nei tribunali.

In termini razionali, dunque, la ricaduta sull’attività giurisdizionale della limitazione imposta alla libertà di circolazione (per ragioni di salute) non può essere tale da ridurre – né tanto meno eliminare – le garanzie assicurate dalla Costituzione al cittadino in tema di giusto processo e di diritto di difesa. Tali garanzie si radicano tutte, e presuppongono, che il luogo in cui si amministri giustizia sia il tribunale. La situazione di emergenza sanitaria può, al massimo, determinare – com’è di fatto avvenuto finora – una interruzione temporanea o una notevole riduzione dell’attività giurisdizionale, ma non potrebbe di certo legittimare la trasformazione del diritto a un giusto processo in quello a un processo non giusto, né comunque trasformare l’attività giurisdizionale in qualcosa di profondamente diverso.

Non potrebbe legittimarla, si badi, in nessun caso: ossia, tanto se la modifica peggiorativa venisse disposta da una norma espressamente proclamatasi processuale, quanto da una norma che invece dica, pudicamente, di dettare una mera misura organizzativa, la cui concreta attivazione finisca tuttavia ugualmente per incidere sulle garanzie assicurate dall’art. 111 Cost. È ovvio infatti, che se nemmeno la legge potrebbe dettare una disciplina processuale in deroga alle garanzie costituzionali sul giusto processo , a maggior ragione potrebbe mai farlo una norma di altra natura o addirittura un atto neppure normativo ma solo amministrativo/organizzativo, emesso da un’autorità giurisdizionale.
La pandemia, in verità, non solo non può giustificare alcuna limitazione delle garanzie (né delle caratteristiche) proprie della giurisdizione, ma – vorrei aggiungere – neppure deve farlo: il miglior modo di affrontare un’avversità è proprio quello di resistere alla stessa, rimanendo il più integri possibile. Vale la pena di ricordare che sotto la dittatura fascista, all’indomani della emanazione delle leggi razziali, vi sono stati parecchi magistrati che, sensibili al sopruso, non lo hanno voluto applicare nelle loro decisioni, ritenendo non passibile di deroga l’art. 24 dello Statuto albertino che solennemente sanciva il principio di uguaglianza di tutti gli appartenenti al regno di fronte alla legge. Tanti altri, pur non ferventi fascisti, si sono invece piegati, scegliendo la più comoda via del rispetto della legalità formale, e obbedendo così a quelle disposizioni diseguali e razziste . Ma quei pochi magistrati (e quei pochi giuristi) che non l’hanno fatto hanno consentito appunto che la giustizia, la cultura della giurisdizione, non si smarrisse del tutto, non morisse per sempre. E così ne hanno reso possibile la rinascita, già all’indomani della caduta del regime dittatoriale.

L’esercizio della giurisdizione, così profondamente fondamentale in uno Stato di diritto, non deve perdere nemmeno un aspetto della sua intima essenza sol perché si verifichi un’emergenza, di qualsiasi natura, e meno che mai un’emergenza soltanto sanitaria.

E dico questo pensando non solo alle parti del processo, ma soprattutto ai giudici chiamati a juris dicere: proiettato da uno schermo che lo ritrae invertendone gli estremi cardinali come in uno specchio, un giudice non può davvero essere considerato come colui “davanti” al quale le parti si presentano (come vuole l’art. 111 Cost.), perché in realtà le parti si trovano piuttosto al cospetto dell’immagine, persino ridotta, del loro giudice. E un giudice che tenga udienza da casa sua, e persino da un’aula vuota del palazzo di giustizia , non offre di certo l’autorevolezza che la sua figura deve invece necessariamente trasmettere, anche visivamente, a coloro che – uomini come lui – sono sottoposti al suo giudizio. Inoltre, disponendo la regola processuale da seguire nel suo processo (anche se limitata al come e dove svolgerlo, pur sempre di regola del processo da lui stabilita si tratta), e per di più la regola di un segmento del processo fino a quel momento svoltosi secondo le (diametralmente opposte) regole predefinite dal codice di procedura, il giudice penale finisce per dettare lui stesso le regole del processo da celebrare davanti a sé. E non può essere dimenticato che il potere degli organi giudicanti di stabilire da sé stessi le regole del proprio operare appartiene, precisamente, al medio evo del diritto, e durò in Francia fino alla famosa Ordonnance criminelle del 1670 promulgata dal re Luigi XIV che, avocando a sé il potere nel nome della justice retenue, oltre che di creare ad hoc il giudice, anche di regolare la procedura criminale, inaugurò il processo penale dello stato assoluto. Ossia, il fenomeno della regolamentazione del processo da parte dello stesso organo giudicante risale, nella storia dell’evoluzione giuridica, addirittura al periodo precedente l’ancièn regime.

Ebbene, le considerazioni appena svolte trovano, mi pare, un adeguato riscontro nel seguente rilievo. Entrambi i codici di procedura, invero, sia quello civile che quello penale, contengono già un’apposita norma che contempla proprio l’ipotesi della emergenza sanitaria, e la regolano: il giudice o il presidente del collegio giudicante deve disporre che si proceda a porte chiuse. Ecco tutto. È quindi espressamente previsto, in casi del genere, il sacrificio (anch’esso parziale, peraltro) del solo principio di pubblicità delle udienze (per quelle che, comunque, si tengono in camera di consiglio, alla sola presenza delle parti, il problema neppure si pone, ovviamente). Sono, com’è noto, le norme previste, rispettivamente, dagli artt. 472, comma terzo, c.p.p., e dall’art. 128 c.p.c.
E vale la pena sottolineare che il principio di pubblicità non è tra quelli che l’art. 111 Cost. impone debbano assistere la regolamentazione di qualsiasi processo.

Il che conduce alla seguente riflessione: se il modo in cui svolgere l’attività giudiziaria pur in caso di pericolo per la salute pubblica è già contemplato dalle norme processuali, ed è ivi regolato con la eccezionale previsione di procedere a porte chiuse, la necessità di decidere, oggi, di aggiungere limitazioni ulteriori, rinunciando alla celebrazione reale dell’udienza per sostituirla con una sua celebrazione virtuale – anche a prescindere, per ora, dal rischio di compromettere in tal modo le garanzie del giusto processo – dovrebbe invero fondarsi sulla sussistenza di una situazione di pericolo per la salute pubblica assai più intensa di quella che, in generale, è già contemplata dalle norme processuali e regolata di conseguenza. E però, a leggere il testo del decreto emanato dal Governo non sembra proprio che si tratti di questo, dacché, come visto, esso specifica che le misure da adottare devono essere volte ad “evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”. Ossia, esattamente la stessa esigenza considerata rispettivamente dagli artt. 472 c.p.p. e 128 c.p.c.

Evitare assembramenti non significa, con tutta evidenza, non fare entrare nessuno nel palazzo di giustizia. Basta non fare entrare il pubblico in aula.
E vale per le udienze penali quanto già segnalato per le udienze civili. Come potrebbe invero giustificarsi, nell’ottica del contenimento del rischio del contagio, che debba necessariamente trattarsi nelle aule del tribunale, ad esempio, un’udienza in cui vada sentito un testimone (ipotesi esclusa da quelle celebrabili da remoto dall’art. 83, comma 12-bis, del decreto, anche prima della interpolazione operata dal decreto legge n. 28/2020), mentre un’udienza in cui debbano partecipare solo pubblico ministero e difensore dell’imputato possa invece trattarsi con collegamento degli stessi in via telematica?

Seguendo l’assetto costituzionale e la disciplina processuale vigente, dunque, sembrerebbe inevitabile concludere che, in costanza di una situazione sanitaria come quella in corso, dovrà necessariamente darsi una risposta di giustizia ai cittadini più limitata quantitativamente, ma non ci si deve assolutamente lasciare trascinare nella strada di dare una risposta di giustizia diversa, una giustizia parziale o monca, sotto qualsiasi profilo.
Per proteggere la salute pubblica, in effetti, non c’è affatto bisogno di pensare a modalità alternative di celebrazione dei processi, perché allo scopo è più che sufficiente ridurre il numero giornaliero di procedimenti da trattare rispetto a quello pregresso, celebrandoli a porte chiuse e interdire l’accesso del pubblico. L’esigenza di non fermare del tutto la macchina della Giustizia può essere senz’altro assicurata in questo modo, senza cedere nulla al giusto processo.

È del resto abbastanza evidente che da remoto potrebbero svolgersi un numero molto inferiore di udienze rispetto a quante se ne potrebbero svolgere con gli attori del processo tutti presenti, nelle immediate vicinanze della stessa aula. Il che, con altrettanta evidenza, discende proprio dal fatto che il “luogo” di svolgimento dell’udienza, anziché essere il medesimo per tutti i processi da trattare, diventa, nel caso del collegamento telematico, diverso per ogni processo.

Valga un solo esempio per tutti, che data la mia specifica materia di elezione rivolgo ancora al settore penale: una prima udienza dibattimentale (c.d. udienza di distribuzione) dinanzi al tribunale in composizione monocratica.

In tali udienze, anche nei casi in cui si svolga una qualche attività ulteriore rispetto alla mera “distribuzione”, ad esempio si apre il dibattimento o la persona offesa si costituisce parte civile, etc., diversi magistrati del nostro tribunale sono in grado di assolvere i relativi incombenti in non più di dieci minuti. Ciò consente loro di trattare anche dieci di questo tipo di udienze in poco più di un’ora e mezza.

Svolgere la stessa attività da remoto, e quindi dovendo attivare per ogni processo il collegamento, raggiungere almeno tre soggetti (pubblico ministero, imputato e difensore), ma a volte anche cinque (la persona offesa e il suo difensore), accertarsi dell’identità di ognuno, verificare la regolarità degli avvisi, attestare il funzionamento audio e video di tutti i collegamenti, girare la parola a ciascuna delle parti e spesso subire il sovraccarico della linea che fa momentaneamente cessare l’audio o blocca l’immagine di chi stia parlando, e così dovendosi ripetere da capo quanto non si è potuto sentire, e via esemplificando, può fare perdere anche un’ora. È esperienza che tutti quanti, più o meno, abbiamo provato in questi giorni di clausura, collegandoci telematicamente con amici o per lavoro. Ed allora, se per celebrare una semplicissima prima udienza dibattimentale in modalità da remoto il giudice potrebbe metterci anche un’ora, in una giornata ne potrà al massimo svolgere – considerando anche gli inevitabili tempi morti tra la fine di un collegamento e l’avvio del successivo – quattro o cinque. Anche a prescindere dalla velocità ed efficienza in dotazione al singolo magistrato, non si potrà certo dire, innanzitutto, che le parti coinvolte in non più di quattro o cinque processi di questo tipo siano un numero di persone che ponga davvero una questione organizzativa di particolare impegno, quanto alla disciplina del loro accesso a turno nell’aula di udienza. Ma, neppure il doppio di questo numero la porrebbe, in tutta franchezza. E però, con le parti presenti fisicamente in aula, un giudice di media laboriosità riuscirebbe a trattare questo numero doppio di processi, come detto, in poco più di un’ora e mezza (invece che la metà di essi, in un’intera mattinata).

Dov’è allora il vantaggio di collegarsi da remoto, se lo scopo è quello di far ripartire la macchina della giustizia nella misura più ampia possibile pur nella costanza della attuale situazione sanitaria, sì da alleggerire il carico di arretrato che altrimenti diventerebbe fatalmente ingestibile?

Concludo, dunque, che anche senza bisogno di addentrarsi nel dettaglio dell’evidente frizione tra la disciplina temporanea dettata dal “cura Italia” e le norme pregresse, la celebrazione delle udienze da remoto non mi pare né costituzionalmente razionale né comunque, in prevalenza, assolutamente proficua ai fini di una ripresa significativa dell’attività giudiziaria.
Il discorso sin qui svolto non riguarda, appositamente, le regole dettate per la partecipazione a distanza al processo del solo imputato che si trovi per qualsiasi causa in vinculis, eventualità ben diversa da quella che qui si è scelto di considerare – dacché in questi casi non si ha un processo celebrato in modalità telematica – e che solleva problemi di ben diversa natura.

1 La norma in commento scarica in effetti la responsabilità del compito sui capi degli uffici giudiziari. Il punto è, però, che quello richiesto ai presidenti di tribunale è uno sforzo organizzativo davvero enorme, che probabilmente esula dalle loro forze. Occorrono risorse, uomini, mezzi e fondi per riuscire a far sì che in un luogo come il palazzo di giustizia, destinato ad essere frequentato giornalmente da migliaia di persone, non si creino “assembramenti… e contatti ravvicinati”. E il presidente del tribunale non ha a disposizione nulla di tutto ciò. A cominciare dal personale amministrativo delle cancellerie, che non è ovviamente alle sue dipendenze, e che, quasi a beffa, è stato comandato a casa in virtù dell’art. 87 dello stesso D.L. n. 18/2020 (c.d. opzione del “lavoro agile”) e che tuttavia da casa non ha accesso ai registri penali e civili. L’organizzazione di cui ordinariamente si occupa un presidente di tribunale, e in vista della quale è quindi consona la struttura amministrativa di cui dispone, non attiene a questo tipo di compiti. Di fatto, è accaduto perciò che in molti tribunali i relativi presidenti hanno già preannunciato di non poter esercitare (l’anomalo) potere organizzativo conferitogli se non nella miope ottica di ridurre il più possibile il numero di persone ammesse ad accedere nei tribunali. Disciplinare in modo ordinato le presenze, in un luogo, in modo da evitare possibili assembramenti e contatti ravvicinati tra di esse è all’evidenza compito ben più ampio – e ben più oneroso – di quello consistente nel mero limitare il numero di persone che possono accedere in un luogo. In (poche) altre parti del territorio nazionale i presidenti hanno invece privilegiato lo strumento concordato, che è sempre quello più equo e giusto di tutti: le esigenze contrapposte non si possono soddisfare tutte, e dunque occorre che ogni parte rinunci a una parte delle proprie. Attraverso protocolli di intesa stipulati con la classe degli avvocati e – perfino, pur toccando anche questo al Guardasigilli – con i rappresentanti del personale amministrativo, alcuni presidenti hanno così ottenuto l’effetto di rendere quanto meno sorrette dal consenso degli interessati tutte le modifiche ritenute necessarie alla disciplina normale tanto del processo quanto della prestazione lavorativa del personale. Per dirla in termini più semplici, e con un esempio: se è il difensore che espressamente rinuncia alla discussione orale della sua causa, scegliendo di depositare una memoria scritta, è un conto; se è obbligato a rinunciarvi, dovendo per forza celebrare il processo con il c.d. contraddittorio cartolare, è tutt’altra questione.

2 Gli avvocati Giuseppe Mandalà e Giusi Simonelli, miei preziosi amici, e civilisti, mi segnalano che quest’ultima previsione, in particolare, risulterebbe inapplicabile. Infatti, in tutte le udienze civili (tra le quali sono pubbliche solo quelle “di discussione della causa”, ai sensi dell’art 128 c.p.c.) ha diritto di prendere parte, oltre che il difensore, la parte personalmente (art. 84 disp. att. al c.p.c.). Di conseguenza, l’espressione “udienze… che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti” in realtà non potrebbe alludere a “nessuna udienza”, dacché nessuna norma del codice di procedura civile prevede udienze in cui siano ammessi a partecipare unicamente i legali. Ecco che, in forza di tale (grossolanamente errata) previsione, la concreta previsione da parte del singolo giudice della trattazione dell’udienza in modalità c.d. “cartolare”, finirebbe per precludere la partecipazione della parte personalmente, conculcandone il relativo diritto riconosciutole dalla legge processuale. Chi potrebbe negare, quindi, che la disciplina contenuta nell’art. 83, comma 7, lettera h, del d.l. n. 18/2020 sia una vera e propria disciplina processuale, piuttosto che una mera misura organizzativa? E non varrebbe obiettare che, sì è vero, si tratta di regola del processo, ma è pur sempre una legge ad averla introdotta. Tale obiezione non coglierebbe nel segno, innanzitutto perché, come visto, l’art. 83 non dispone affatto direttamente la deroga in parola ma affida la scelta se imporla o no ai capi degli uffici giudiziari (ossia alla stessa autorità giurisdizionale), mediante “linee guida vincolanti”; e in secondo luogo perché non può avere alcun fondamento logico concepire una deroga ad una disciplina generale che sia destinata a funzionare solo per alcuni processi e per altri no, oppure solo in alcune parti del territorio nazionale ed in altre no (secondo la diversa determinazione che in ogni circoscrizione di tribunale potrebbero assumere i relativi presidenti).

3 Con norma emanata all’indomani della conversione in legge del decreto, com’è noto, al comma 12-bis è stato aggiunto, in fine, il seguente periodo: “….le disposizioni di cui al presente comma non si applicano, salvo che le parti vi acconsentano, alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti” (art. 3, lettera d, decreto legge 30 aprile 2020 n. 28). Il che, praticamente, ha ridotto ad un numero di casi davvero residuale la possibilità di celebrare un’udienza penale con collegamento dei partecipanti da remoto. Vi possono rientrare certamente, ad esempio, le c.d. udienze di distribuzione (ossia, le prime udienze dibattimentali), e quelle, tanto davanti al tribunale che davanti al GIP, in cui si tratti semplicemente di conferire l’incarico a un perito. Ma non vengono in mente altri casi. Anche l’udienza preliminare in cui l’interessato chiederà di essere ammesso ad un rito alternativo, seppure non sarebbe un’udienza di discussione né un’udienza in cui debbano esaminarsi testimoni, al momento in cui il giudice la fissa è un’udienza preliminare sic et simpliciter, il cui svolgimento ordinario prevede proprio una discussione. Non è infatti previsto (né dal codice né tanto meno dal decreto legge in commento) che il giudice venga informato preventivamente dell’intenzione dell’interessato di accedere ad un rito alternativo. Ed è qui che, ancora una volta, potrebbe facilmente ovviarsi al problema con lo strumento concordato, attraverso un apposito protocollo cioè, non certo con imposizioni unilaterali, le uniche che concepisce la norma in esame.

4 Lo conferma l’apposita disciplina di citazione ivi dettata: “…Prima dell’udienza il giudice fa comunicare ai difensori delle parti e al pubblico ministero e agli altri soggetti di cui è prevista la partecipazione giorno, ora e modalità di collegamento. (…)”.

5 Ne Il Mistero del processo, Salvatore Satta si pone la domanda “che cos’è il processo?” E nel riportare la famosa definizione del Bulgaro, glossatore della scuola di Bologna (… actus trium personarum…) ne mette in evidenza il risalto della lotta, “il carattere drammatico che è intrinseco al processo. Sono tre persone che lottano l’una contro l’altra, l’attore contro il convenuto, l’accusatore contro l’accusato, tutti poi contro il giudice, perché ciascuno vuole piegarlo alla sua ragione …”. Quanto in particolare al processo penale, valga l’ineguagliabile definizione di CORDERO (Procedura penale, Milano, 1995, 768): “Tecnica del contraddittorio. Definiamola così: almeno due locutori davanti a qualcuno che li ascolta e regola: affermano, negano, adducono prove, elaborano i rispettivi materiali, disputano; vigono regole miranti a stabilire quale sia l’ipotesi migliore”. Un collegamento “da remoto” non è altro che un nome pomposo per chiamare ciò che in realtà è una video-telefonata. Ebbene, anche solo immaginare che questa “lotta”, questa disputa, possa svolgersi con una video-telefonata è, almeno per noi avvocati, davvero impossibile.

6 CHIOVENDA, in Saggi di diritto processuale civile, Roma, 1931, II, 225.

7 Com’è noto, invero, le denominazioni giuridiche non sono vincolanti per l’interprete, dunque in materia di diritto non basta cambiare i nomi alle cose per ottenere risultati.

8 Sul carattere rinforzato della riserva di legge di cui all’art. 111 Cost, a prescindere dalla natura assoluta o relativa della stessa, cfr. FOIS, Il modello costituzionale di giusto processo, in Rass. parlam., 2000, 575; oppure FERRUA, Il “giusto processo”, Bologna, 2005, 44-45.
Lo ricorda, tra gli altri, G. CANZIO, nel bellissimo saggio Le leggi razziali e il ceto dei giuristi, pubblicato in Diritto penale contemporaneo, 5 febbraio 2018. Giova anche considerare che, nel ventennio, l’ordine giudiziario di fatto non era autonomo dal potere esecutivo.
Com’è noto, il decreto legge 30 aprile 2020 n. 28 (art. 3, lettera c) ha interpolato la lettera f del comma 7 dell’art. 83 del d.l. n. 18/2020, il quale risulta ora avere quindi il seguente tenore: “la previsione dello svolgimento delle udienze civili… che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, anche se finalizzate all’assunzione di informazioni presso la pubblica amministrazione, mediante collegamenti da remoto individuati… Lo svolgimento dell’udienza deve in ogni caso avvenire con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario…”.

AVVISO AI NOSTRI LETTORI

Se ti è piaciuto questo articolo e ritieni il sito d'informazione InuoviVespri.it interessante, se vuoi puoi anche sostenerlo con una donazione. I InuoviVespri.it è un sito d'informazione indipendente che risponde soltato ai giornalisti che lo gestiscono. La nostra unica forza sta nei lettori che ci seguono e, possibilmente, che ci sostengono con il loro libero contributo.
-La redazione
Effettua una donazione con paypal


Commenti