Nel 1860 l’Italia trattò la Sicilia come una colonia. Il racconto di Marcello Cimino in “Fine di una nazione”

3 maggio 2020

Ignazio Coppola è andato a scovare un libro scritto da un famoso giornalista siciliano, Marcello Cimino, che è stato uno dei protagonisti del giornale L’Ora di Palermo dei tempi d’oro. Il libro si intitola “Fine di una nazione”. Oggi  tante cose, piano piano, su quel periodo buio per la Sicilia e per il Sud si vanno chiarendo. L’aspetto interessante è che certe cose Cimino le scriveva negli anni ’70 del secolo passato  

di Ignazio Coppola

Spesso chi cerca di riportare alla luce un po’ di verità sulla storia della cosiddetta ‘unificazione’ d’Italia viene accusato di ‘falsificare’ la storia o di essere un neoborbonico (con questa parola utilizzata come una sorta di offesa). Oggi voglio proporre ai lettori de I Nuovi Vespri un passo di un libro pubblicato nell’ormai lontano 1977 da un noto giornalista siciliano, Marcello Cimino.  Il libro si intitola “Fine di una nazione”. 

Per la cronaca, Marcello Cimino, comunista, è stato una delle più importanti firme del quotidiano L’Ora di Palermo.

Leggiamo insieme il passo del libro di Marcello Cimino:

“Il primo momento di vera crisi, anzi di rottura, di questa nostra storia nazionale si ebbe nel 1860, allorché il territorio siciliano con la popolazione in esso residente fu annesso allo Stato italiano. Dopo l’annessione all’Italia, l’aristocrazia siciliana, che sempre aveva difeso puntigliosamente la personalità statale della Sicilia ed i privilegi costituzionali dietro i quali tutelava i propri privilegi di classe, prontamente rassicurata dalle repressioni anticontadine messe in atto dai “liberatori” garibaldini e dagli occupanti piemontesi, non tardò ad italianizzarsi e ad inserirsi nelle strutture del nuovo potere sia al centro che localmente.

La massa del popolo siciliano invece continuò a vivere chiusa in se stessa ma separata dal resto del paese, sfruttata e mortificata con i suoi arcaici costumi, con la sua lingua incomprensibile con l’italiano. Anche le sue vampate di rivolta nelle città e nelle campagne esplosero separate dai movimenti popolari continentali e rimasero imperscrutabili nelle loro più vere e profonde motivazioni agli occhi tanto dei politici che degli storici italiani, come è il caso della rivolta palermitana del 1866 alla quale parteciparono molte squadre di contadini, della lunga resistenza di massa allo coscrizione obbligatoria repressa dall’esercito italiano e disinvoltamente rimossa e minimizzata dalla storiografia ufficiale ed accademica, del movimento dei Fasci siciliani dei lavoratori del 1893-94.

Il rapporto instauratosi tra la Sicilia e l’italia dopo il 1860 fu una rapporto tipicamente coloniale nella sostanza secondo i più classici modelli delle colonizzazioni camuffate dalla unità statale, molto simile al rapporto Algeria-Francia e Irlanda-Inghilterra e non è senza ragione che tante analogie si possono ritrovare e sono state trovate nel carattere dei popoli algerino, irlandese e siciliano. Questo rapporto entrò a sua volta in crisi a causa della prima guerra mondiale che costrinse lo Stato italiano ad adoperare la principale risorsa della colonia siciliana, l’uomo, non più all’interno del territorio coloniale come mano d’opera a basso costo, ma al di fuori, come carne da macello, sui campi di battaglia, il che creò gravi traumi nella struttura economica siciliana oltre che nella psicologia popolare.

Il dopo guerra costituì poi la prima vera occasione di collegamento tra il movimento dei contadini siciliani ed i movimenti popolari che in Italia attaccavano dal basso lo Stato italiano ed il sistema socio-economico su cui esso si basava, in ciò incoraggiati dallo sconvolgente esempio delle rivoluzione russa vittoriosa”.

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