Coronavirus ed economia/ Rifondare l’IRI e tornare all’industria per uscire dalla crisi

9 marzo 2020

La crisi sanitaria passerà, ma non la crisi economica. L’Italia pagherà il fragile sviluppo basato su moda, turismo e aziende delocalizzate. Una strada senza vie d’uscita? No. A patto di ripensare i settori sui quali puntare, dalle nuove tecnologie dell’energia ai nuovi materiali prodotti su scala simile a quello dell’acciaio. Ma senza una nuova IRI l’economia italiana andrà a sbattere  

di Mario Pagliaro

Il crollo delle Borse valori in tutto il mondo, inclusa la Borsa italiana, si accompagna al crollo del commercio internazionale e al precipitare del prezzo del petrolio. E’ la fine della seconda grande globalizzazione dopo quella che dal XIX secolo al 1914 fece la fortuna di tanti, inclusi i calabresi Florio trasferitisi a Palermo, cui pose fine la Prima Guerra mondiale. Allora, per uscire dal protrarsi di una crisi economica — sia industriale che bancaria — che sembrava senza via di uscita, la classe dirigente italiana, nel 1933, ebbe una geniale intuizione fondando l’IRI: l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, che trasformerà, letteralmente, l’Italia da economia agricola in enorme potenza industriale.

LA LIQUIDAZIONE DELL’IRI – Alla sua liquidazione avvenuta in coincidenza con la liquidazione dei grandi Partiti popolari, l’Italia era la quinta potenza industriale del mondo.

Oggi, dopo trent’anni di liberismo economico e con la delocalizzazione di ciò che resta dell’industria nazionale nei Paesi a basso costo del lavoro, l’Italia è largamente deindustrializzata. Mentre l’obiettivo principale delle cosiddette ‘privatizzazioni’, ovvero la riduzione del debito pubblico attraverso la vendita delle aziende dello Stato controllate dall’IRI — incluse le banche di interesse nazionale — è stato clamorosamente mancato.

Nel 2019, il debito pubblico ha infatti raggiunto il record storico: 2.409 miliardi di euro. In crescita di altri 29 miliardi sul 2018, quando ammontava a oltre 2.380 miliardi, il 135% per cento di un Prodotto interno lordo che, incredibilmente, dal 2014, nei Paesi comunitari tiene conto nel calcolo persino delle attività illegali come “traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando (di sigarette o alcol)”.

… E I GIOVANI LASCIANO L’ITALIA – A nulla sono valsi i tagli alla spesa pubblica: sanità, enti locali, ricerca, lavori pubblici e scuola. Né è servito a far diminuire il debito pubblico l’aumento generalizzato della pressione fiscale. I giovani italiani lasciano il Paese in proporzione alla loro qualificazione. Nessuno di loro che abbia doti imprenditoriali intende fondare un’azienda in un Paese con simili livelli di tassazione, mentre Paesi a pochi chilometri dalle coste adriatiche italiane offrono livelli di tassazione che sono una piccola frazione di quelli italiani.

LA CRESCITA FRAGILE DI MILANO E ROMA – Le uniche città che in Italia negli anni della cosiddetta “Seconda Repubblica” hanno conosciuto una continua crescita economica, nonostante la deindustrializzazione evidente anche lì, sono state Milano e Roma: ovvero la capitale finanziaria e quella politica. A Milano il settore della moda e del design con le sue Fashion Week e i suoi vari vari Saloni. A Roma il turismo ogni anno in crescita portato dalle tante nuove compagnie aeree della seconda globalizzazione e dal credito facile: 128 milioni di passeggeri sui 193 in arrivo negli aeroporti italiani nel corso del 2019. Di cui quasi 50 milioni fra Fiumicino e Ciampino.

Pochi giorni spesi a visitare Roma, Firenze e Pompei, e poi lo shopping nei negozi della moda di Milano.

Per capire quanto sia fragile uno sviluppo basato su moda, turismo e aziende delocalizzate sono stati sufficienti pochi giorni di crisi sanitaria dovuta al Coronavirus, prima in Cina e poi in Italia e in Europa occidentale. Con il crollo del traffico aereo, i negozi e gli alberghi restano vuoti, mentre altrove un tessuto industriale ogni mese più debole non è, né sarà in grado di compensare una crisi che, nonostante l’ormai prossima soluzione della crisi sanitaria in Cina (oggi, 9 Marzo, i nuovi casi in Cina sono solo 44 a fronte dei 4mila del picco della crisi), non vedrà più nemmeno avvicinarsi i livelli del 2019 appena concluso. Sono passati due mesi dalla fine del 2019: ma ormai sembra un’altra epoca.

La crisi sanitaria passerà. Ma non quella economica. La soluzione trovata nel 1933 da Beneduce e da altri grandi intellettuali italiani dell’epoca fu geniale perché consentì all’Italia di evitare di diventare un Paese comunista, mantenendo la libertà di intraprendere e il settore privato, andando a colmare le deficienze intrinseche al settore privato: il credito che dalle banche andava ad imprese decotte ma amiche; e la carenza di investimenti industriali dei privati, interessati solo ad investire in settori protetti dai ritorni certi ed elevati, ovvero a funzionare da concessionari dello Stato invece che da industriali in grado di competere sul libero mercato.

VERSO LA FINE DELL’EURO? – Si vedrà nei prossimi mesi se la fine della seconda globalizzazione porterà alla fine dell’esperimento della moneta comune europea. A quel punto all’Italia non resterà che, come unica opzione, quella di riscoprire ciò che la fece grande: ovvero l’economia sociale di mercato.

“Tutta la programmazione italiana: dal Piano Vanoni al Piano Giolitti fra il ’54 e il ’64 – diceva Giuseppe De Rita raccontando al Cnr di Palermo nel 2006 la storia delle Partecipazioni statali – sono opera dell’Ufficio studi IRI e di noi dello Svimez. Era una grande capacità di essere e creare classe dirigente”.

Questa classe dirigente, oggi, non esiste più: perché con la liquidazione dei Partiti politici di massa ne furono liquidate le scuole di formazione politiche e culturali. A ricostituirla penseranno il precipitare della crisi economica — industriale e finanziaria — che sempre fa emergere nuove personalità, e la riscoperta del Codice elaborato a Camaldoli, nel cosentino, nel Luglio del ’43 dai migliori intellettuali cattolici italiani del tempo: Moro, Veronese, Fanfani, Saraceno, Vanoni, La Pira, Medici, Branca, Mattei e i molti altri che, invece di liquidare IRI ed ENI come pure gli era stato chiesto di fare dopo la sconfitta dell’Italia nella Seconda Guerra mondiale, ne fecero invece i pilastri della ricostruzione industriale e del suo prodigioso sviluppo economico.

MA SENZA UNA NUOVA IRI… – Quello nuovo, invece che sugli idrocarburi e sull’acciaio, sarà fondato sulle nuove tecnologie dell’energia e sui nuovi materiali prodotti su scala simile a quello dell’acciaio. Ma senza la nuova IRI, e le nuove aziende pubbliche in grado di recitarvi un ruolo da protagonista, all’Italia resta un futuro economico e politico non dissimile da quello del ‘500 (e del ‘600) raccontato mirabilmente dal milanese Manzoni.

Foto tratta da Il sole 24 Ore

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