Tra cronaca e storia, la lunga avventura dei Borghi rurali della Sicilia

14 settembre 2019

La storia di questi Borghi rurali – che oggi, dopo quasi 80 anni di abbandono l’attuale Governo regionale cerca in parte di salvare – si lega a doppio filo alla battaglia di Mussolini contro il latifondo e contro la mafia: una battaglia che il fascismo ha perduto su entrambi i fronti. Ma non è andata meglio alla Regione siciliana e allo Stato italiano, incapaci di varare una riforma agraria degna di questo nome. Evitiamo, poi, di parlare di lotta alla mafia…  

Un comunicato della presidenza della Regione siciliana annuncia che “Tornano a vivere in Sicilia i Borghi rurali degli anni Quaranta. Lo ha deciso il governo regionale che ha stanziato circa quattordici milioni di euro per riqualificare e valorizzare il Borgo Lupo, in provincia di Catania, il Borgo Bonsignore, nell’Agrigentino ed il Borgo Borzellino, in provincia di Palermo. Sono tre degli otto borghi costruiti, su decisione del governo italiano, dall’Ente per la colonizzazione del latifondo siciliano tra il 1939 ed il 1943, passati all’Eras e poi all’Esa, ormai in condizioni di quasi abbandono. I finanziamenti sono coperti dalle risorse che provengono da un Fondo speciale, istituito presso l’assessorato regionale ai Beni culturali”.

“Nello specifico – prosegue la nota della presidenza della Regione siciliana – per il recupero di Borgo Lupo vengono destinati cinque milioni e 775mila euro; ai lavori di riqualificazione di Borgo Bonsignore è destinata la somma di due milioni e cinquecentomila euro; nel Borgo Borzellino, infine, sono stati stanziati cinque milioni e cinquecentomila euro”.

L’iniziativa del Governo regionale è meritoria: chi scrive ricorda di essersi occupato dei Borghi rurali degli anni Quaranta del secolo passato alla fine degli anni ’80, dopo una chiacchierata con l’allora parlamentare regionale del Movimento Sociale Italiano, Giuseppe Tricoli, che, per la cronaca, nella vita faceva lo storico. L’interesse per questi Borghi venne fuori grazie a una chiacchierata con l’onorevole Tricoli: chi scrive sosteneva che il regime fascista aveva cominciato ad occuparsi dell’agricoltura del Sud Italia un po’ troppo tardi: forse, considerando che il fascismo, in Italia, durò un ventennio, non avevamo tutti i torti.

Il professore Tricoli non era molto d’accordo con noi. E ci ricordava che già nei primi anni ’30 Benito Mussolini in persona aveva dato incarico a due eminenti studiosi di Economia agraria e di forestazione – Arrigo Serpieri e Giuseppe Tassinari – di occuparsi anche del Sud Italia, sia per combattere la malaria, allora molto diffusa, sia per eliminare il latifondismo in Sicilia.

E fu proprio Tassinari a dare il nome alla legge nazionale che, nel 1940, avrebbe dovuto colonizzare i latifondi della Sicilia.

Va comunque detto – e qui aveva ragione il professore Tricoli – che in Sicilia il fascismo aveva iniziato ad occuparsi di pianificazione di nuovi insediamenti tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30. Lo Stato italiano, allora, avviava la bonifica di vaste aree incolte e malsane sulla scorta della legge n. 3134 del 1928, nota come “Provvedimenti per la bonifica integrale”.

Vennero costruiti allora i primi borghi destinati ad accogliere gli operai che si occupavano, per l’appunto, delle opere di bonifica, anche se, in seguito, alcuni di questi borghi diventeranno insediamenti agricoli o piccoli centri. Tra questi ricordiamo Pergusa, in provincia di Enna, che risale al 1935: un insediamento realizzato al lago di Pergusa, oggi Riserva naturale della Regione siciliana (istituita, si racconta, per bloccare la pista automobilistica).

Tra gli altri luoghi che risalgono agli anni delle bonifiche sono Villaggio Bardara, dalle parti del Biviere di Lentini e le aree umide che si snodano intorno a Siracusa.

Arriviamo, così, ai Borghi rurali che sono l’oggetto di questo articolo. L’obiettivo che il regime fascista si proponeva di raggiungere era l’eliminazione del latifondo, metodo di conduzione delle aziende agricole tipico del Sud e, in particolare, della Sicilia.

Infatti, mentre nel Nord Italia prevaleva la conduzione capitalistica delle aziende agricole, mentre nel Centro Italia prevaleva la mezzadria, in Sicilia dominava il latifondo. Era un fatto negativo? In molti casi, sì perché i proprietari di grandi appezzamenti di terreni, che erano tutti nobili, si disinteressavano della conduzione delle aziende delegando tutto ai gabelloti. I quali organizzavano lo sfruttamento dei braccianti agricoli con metodi quasi schiavistici, terrorizzando e ammazzando chi osava ribellarsi.

Nasce così la mafia nelle campagne che solo dopo il secondo dopoguerra si trasferirà nelle città dell’Isola.

C’erano eccezioni? Sì. Qualche nobile illuminato c’era: per esempio, Lucio Tasca Bordonaro che, contrariamente a tanti altri nobili della Sicilia, non solo conduceva la propria azienda agricola, ma la fece diventare un esempio in tutta la Sicilia e, perché no?, nel Sud Italia.

“Rese l’azienda agricola di famiglia, Tasca d’Almerita, casa vinicola fra le più avanzate tecnologicamente di tutta la Conca d’oro, intorno a Palermo. Dal 1922 gestì il feudo Regaleali, triplicando la superficie dei vigneti e ingrandì le cantine. Nel 1932 venne nominato Cavaliere del Lavoro per l’agricoltura”.

Le accuse di latifondismo, nel senso deteriore del termine, non potevano nemmeno sfiorare Lucio Tasca, autore anche di un libro che, visto dalla sua parte – alla luce della sua esperienza – era corretto: “Elogio del latifondo siciliano”.

Ma l’azienda Tasca era un’eccezione: la realtà, nella stragrande maggioranza dei latifondi della Sicilia era un’altra: grandi distese di territorio dove l’uomo si vedeva solo per la semina e la raccolta del grano, la gente che non viveva nelle campagna per sfuggire alla malaria, braccianti sfruttati, produzioni basse e gabelloti che si arricchivano derubando i nobili proprietari sì, ma assenti.

Come già accennato, tra gabelloti e campieri, la mafia prosperava. Resosi conto di persona i quello succedeva in Sicilia, dove una sorta di ‘potere parallelo’ conviveva e talvolta insidiava lo Stato, Mussolini dichiarò guerra alla mafia e al latifondo.

Per la mafia spedì in Sicilia Cesare Mori, “Il Prefetto di ferro”, come lo chiamò lo storico Arrigo Petacco. E, in effetti, nei primi anni, Mori assestò colpi durissimi alla mafia, utilizzando, in alcune occasioni, i metodi che avevano utilizzato dopo l’unità d’Italia (o presunta tale) i generali dei Savoia nel Sud per combattere i patrioti che si opponevano all’invasione dei piemontesi: patrioti – come Carmine Crocco – che la cialtroneria italiana ha definito “briganti”, quando in realtà i briganti erano, appunto, i generali di casa Savoia.

Il fascismo sconfisse la mafia? No. Getto in galera tanti mafiosi e costrinse alla fuga verso gli Stati Uniti altrettanti mafiosi. Ma quando Cesare Mori arrivò – es era inevitabile che ci arrivasse – alla borghesia mafiosa, il regime richiamò subito a Roma il ‘prefetto di ferro’: lo Stato italiano, anche allora, non poteva distruggere se stesso…

Mussolini e i suoi legislatori riuscirono a eliminare il latifondo? Nemmeno. Perché la legge sulla ‘Colonizzazione del latifondo siciliano’ è del 1940: l’anno in cui l’Italia entra nel secondo conflitto mondiale, dichiarando guerra a Francia e Gran Bretagna.

Anche se, nonostante questo – e nonostante quello che successe negli anni subito successivi con la guerra e i danni di guerra – il regime fascista riuscì bene o male a completare gli otto Borghi rurali. Dopo quasi 80 anni di abbandono, la Regione siciliana oggi prova a valorizzarne tre.

Ma cos’erano, o meglio, cosa avrebbero dovuto essere i Borghi rurali? Ognuno di essi avrebbe dovuto accogliere circa 1 .500 persone: contadini che avrebbero dovuto vivere in queste strutture edilizie e urbane. In ogni Borgo c’era “la chiesa, la canonica, la casa del fascio, la caserma, la casa sanitaria, locali per artigiani, la trattoria, la farmacia, l’ufficio dell’Ente di colonizzazione e una fontana pubblica”. Si prevedeva anche la realizzazione di “sottoborghi” più piccoli.

Vennero così realizzati Borgo Lupo a Mineo, Borgo Giuliano a San Teodoro, Borgo Portella della Croce, tra Prizzi e Vicari, Borgo Petilia a Caltanissetta, Borgo Giacomo SchiròBorgo Domenico Borzellino a Monreale, Borgo Vicaretto a Castellana Sicula, Borgo Baccarato ad Aidone, Borgo Antonio Cascino ad Enna, Borgo Antonio Bonsignore a Ribera.

“L’operazione fallì per molte cause – leggiamo su Wikipedia – oltre ovviamente allo scoppio della guerra: la carenza di infrastrutture, la scarsa disponibilità dei contadini a lasciare i centri abitati di origine, la mancanza di terreni da appoderare, non avendo proceduto ad alcun esproprio. Infatti gli unici terreni espropriati furono di proprietà inglese, nella ducea di Nelson tra Maniace e Bronte dove fu fondato il Borgo Caracciolo, oggi abbandonato. Alcuni borghi non vennero mai utilizzati ed attualmente risultano praticamente tutti in stato di abbandono ed alcuni, anche pregevoli come architettura, ormai ruderi (Borgo Lupo, Borgo Schirò). Altri borghi vennero realizzati da altri enti e soggetti locali. Un caso a parte fu Mussolinia di Sicilia, oggi Santo Pietro, frazione del comune di Caltagirone, un progetto ampiamente pubblicizzato (Mussolini pose la prima pietra) e mai completato a seguito di vicende grottesche che hanno sollevato l’interesse di narratori come Sciascia e Camilleri”.

In questa scelta dell’attuale amministrazione dell’Isola c’è anche una sorta di rispetto per la memoria da parte del presidente della Regione, Nello Musumeci, che, è noto, è un esponente storico della destra siciliana.

Non che la destra siciliana sia arrivata al Governo oggi: tolta la parentesi del primo Governo di Silvio Milazzo nel 1958, che non fa né storia, né enciclopedia, ricordiamo che la destra, in Sicilia, ha cominciato a governare nel 1996: e ci sono stati esponenti della destra siciliana che hanno anche presieduto l’ESA, l’Ente di Sviluppo Agricolo della Sicilia: ma dei Borghi rurali non si è mai occupato nessuno di questi signori.

Diamo atto al presidente Musumeci di essersi ricordato di una testimonianza storica che è presente nei testi di Economia agraria come esempio di tentativo – ribadiamo: non riuscito – di eliminazione del latifondo siciliano.

Ma, al di là delle considerazioni storico-politiche, questa vicenda ci consente di riflettere sui danni fatti in Sicilia in parte da ideologie che puntano a cancellare la memoria e, in parte, dal disinteresse della politica della nostra Isola per le testimonianza del passato.

Oggi si prova a recuperare qualcosa.

Nello specifico, per il recupero di Borgo Lupo vengono destinati cinque milioni e 775mila euro; ai lavori di riqualificazione di Borgo Bonsignore è destinata la somma di due milioni e cinquecentomila euro; nel Borgo Borzellino, infine, sono stati stanziati cinque milioni e cinquecentomila euro.

“Con questa iniziativa – afferma il presidente della Regione siciliana Nello Musumeci – raggiungiamo due obiettivi: anzitutto, il recupero di uno straordinario patrimonio di architettura rurale appartenente alla storia contadina della nostra Isola e che rischia di scomparire del tutto; e la restituzione a territori poveri dell’entroterra di tre strutture da destinare ad attività compatibili col contesto, a cominciare dall’agriturismo o dal turismo rurale. I Borghi furono elementi centrali di un processo di trasformazione del mondo agricolo e oggi, per la loro ubicazione, per la loro concezione urbanistica e per le loro architetture, rappresentano una testimonianza storica e culturale unica. Insomma, i lavori che abbiamo finanziato mirano a riqualificare e valorizzare queste aree rendendole disponibili ad ospitare strutture e iniziative che possano rivitalizzare e promuovere il territorio attraverso la creazione di centri per la conoscenza, la sperimentazione e la divulgazione di antiche lavorazioni e tradizioni contadine, associate a servizi di fruizione turistico-culturale. Il tutto con un’attenzione particolare alla sostenibilità e all’ambiente”.

Per completezza d’informazione ci dobbiamo chiedere che ne è stato, dopo il fascismo, del latifondismo, della colonizzazione dello stesso latifondo siciliano (e quindi della riforma agraria), della battaglia contro la malaria e della lotta alla mafia (che Mussolini e compagni avrebbero voluto eliminare insieme con il latifondo).

Per ciò che riguarda il latifondo, il Parlamento siciliano, nel 1950, per volere di don Luigi Sturzo e dei suoi ‘delfini’, in testa Silvio Milazzo, varò una riforma agraria che anticipò di 12 anni non la riforma agraria nazionale – che non vedrà mai la luce – ma la “legge stralcio” voluta dal DC Antonio Segni.

La riforma agraria siciliana di Silvio Milazzo e dei democristiani sturziani si rivelò un fallimento. Tant’è vero che la migrazione di siciliani verso il ‘Triangolo industriale’ (Milano, Torino, Genova), negli anni ’50 e ’60, è stata epocale, come lo è l’emigrazione di oggi: ieri per il fallimento della riforma agraria, oggi per volere dell’Unione Europea dell’euro.

La battaglia contro la malaria è stata vinta grazie al DDT, non certo per la “bonifica integrale”, che anzi produsse enormi danni all’ambiente (ma allora non si avevano le conoscenze per rendersene conto).

Quanto alla lotta alla lotta alla mafia… bisognerebbe chiedere allo Stato che l’ha utilizzata a piene mani per compiere efferatezze di tutte le specie…

Foto tratta da Balarm

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