Storia & Controstoria

La vera storia dell’impresa dei Mille 16/ Il falso storico della ‘strage di Partinico’

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In questo capitolo del libro di Giuseppe Scianò sull’impresa dei Mille (“…  nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò colonia!”) si parla del 17 e del 18 maggio 1860. La battaglia di Calatafimi – che i garibaldini hanno perso, ma che gli ufficiali traditori Borboni hanno fatto passare per “vittoria di Garibaldi” – è finita. Entrano in scena i piccioti di mafia che si avventano sui feriti in ritirata per ucciderli e derubarli. Bisognava trovare  una versione dei fatti alternativa. Così a Partinico…

di Giuseppe Scianò 

Da Calatafimi ad Alcamo. In carrozza… – La sosta dell’Eroe Nizzardo a Calatafimi non è lunga. Si parte, quindi, alla volta della vicina Alcamo nella mattinata del 17 maggio.

Tutto procede bene. Il tam-tam della mafia ha già fatto confluire in zona altre migliaia di picciotti.

«Verso le dieci – scrive l’Abba, – ci abbattemmo (sic) in certe belle carrozze, mandate ad incontrarci come gran signori. Alcamo era vicina. Nelle carrozze v’erano gentiluomini lindi e lucenti, che fecero le accoglienze al Generale; mentre allo sbocco dei sentieri si affollavano dai campi molte donne campagnole, confidenti e senza paura di noi. Alcune si segnavano devotemente; ma ne vidi con due bambini sulle braccia inginocchiarsi quando il Generale passò…».

Ci risiamo! Coloro che vanno incontro a Garibaldi e mettono a disposizione le loro carrozze sono gentiluomini, se non baroni. Non ci sembra affatto un momento di quel conflitto sociale al quale fanno riferimento la maggioranza degli agiografi del Risorgimento.

L’Abba è però molto accorto in proposito ed inserisce nella noterella anche le campagnuole che si inginocchiano al passaggio del Generale e che si fanno il segno della croce. «Senza paura di noi», precisa.
Esagerato! È dunque festosa l’accoglienza di Alcamo?
Non sembrerebbe, se stiamo bene attenti a quello che scriverà poco dopo, lo stesso Abba:

«Entrammo ad Alcamo alle undici. È bella questa città, sebbene mesta; e all’ombra delle sue vie par di sentirsi investiti da un’aria moresca. Le palme ispiratrici si spandono dalle mura dei suoi giardini; ogni cosa pare un monastero; un paio d’occhi balenano dagli alti balconi; ti fermi, guardi, la visione è sparita».(1)

Dove sono le folle? Al buio non si vedono… Si vedono soltanto un bel
«paio di occhi». Troppo poco per parlare di acclamazioni o di bagni di folla. E tantome- no di rivoluzione in corso.

Alcamo: il «signore» ignora le cose d’Italia?
Insomma l’Abba si rifugia, al solito, in una descrizione erudita e poetica della città di Alcamo, ma non osa affermare che la popolazione sarebbe stata in piazza per gridare ai Garibaldini: «beddi, beddi!». Cosa, questa, che però, aveva avuto il coraggio di dire per la pur gelida Marsala. E la mestizia di Alcamo non è limitata all’aspetto urbanistico…

La stessa sera l’Abba ed altri quattro Garibaldini DOC sono invitati a cena da un signore di Alcamo.

«Che gentilezza d’uomo in quest’isola solitaria: ma che ingenua ignoranza delle cose d’Italia!», ammette lo scrittore che ha già ammirato in questo signore la gentilezza di non tenere chiuse sottochiave le figlie. Cosa, questa, considerata insolita per un Siciliano. Almeno agli occhi di un settentrionale del 1860.

Alla fine della piacevole serata quei cinque giovani continentali se ne sarebbero andati a dormire «…con un po’ di scompiglio nel cuore». Ed è interessante per noi notare come l’Abba riconosca che quel signore, certamente importante nella città di Alcamo e di un ceto sociale piuttosto elevato, ignori le vicende italiane. «Quel signore pareva nato ieri», dice sgomento il garibaldino e sottolinea: «credeva appena che Vittorio Emanuele fosse davvero al mondo».

A nostro parere, però, l’anfitrione Siciliano tanto ingenuo non doveva essere, se ha domandato in modo astuto ed insidioso durante la conversazione:

«Ma perché siete vestiti così da paesani? Via, dite la verità, siete soldati Piemontesi. No? E allora come avete fatto a vincere tanti Napoletani?».(2)

L’alcamese certamente non intende passare per ingenuo, anche se ha avuto l’incarico, probabilmente da parte del barone Sant’Anna o da parte di qualche pezzo grosso dell’onorata società, di fare gli onori di casa a quei cinque Piemontesi di eccellente cultura e certamente appartenenti alla buona borghesia settentrionale. Sprovveduti che siano o che vogliano apparire. Ed è un segno di astuzia anche la considerazione che l’anfitrione fa, subito dopo la propria domanda, per non compromettersi troppo:

«Passarono (i Napoletani) di qui che era una pietà a vederli. Non arriveranno a Palermo la metà».

Ottimo padrone di casa, dunque, il signore di Alcamo disposto a dare un segno della tipica ospitalità siciliana ai cinque Garibaldini, che il popolo minuto non avrebbe mai fatto entrare neppure in casa. Ma non ingenuo come lo ritiene il ligure Cesare Abba. Né ci sembra un insorto. E lo stesso Abba ci conferma che questi non sa niente delle cose d’Italia. Buon per Garibaldi che dispone, anche ad Alcamo, di tanti picciotti e di non pochi gentiluomini. Alcuni dei quali disposti pure a ben recitare la parte loro assegnata.

Dal punto di vista strategico-militare, ha ragione il Gulì quando sostiene che il Generale Landi, anziché ritirarsi a gambe levate verso Palermo, avrebbe dovuto attestarsi ad Alcamo che «…per l’ottima posizione naturale poteva diventare un baluardo imprendibile per il nemico costretto a passarci sotto» (3).

Ma – lo ricordiamo – non erano i luoghi o i posti per combattere che mancavano al Generale Landi. Gli mancava, in tal senso, la volontà. Perché la sua volontà vera era quella di far vincere i Garibaldini.

È appena il caso di dire che l’Abba sente il dovere, nella noterella di quella stessa giornata, di parlare anche dell’avvenuto sbarco a Castellammare del
Colonnello Duosiciliano Von Mechel.

«Prima che noi giungessimo (ad Alcamo) si diceva che i regi (i soldati, cioè, delle Due Sicilie) erano sbarcati numerosi e furibondi a Castellammare (del Golfo), ma che subito erano tornati ad imbarcarsi».(4)

Non può farne a meno, perché la semplice notizia di quello sbarco aveva terrorizzato i Garibaldini (anche il Bandi ne fa cenno) e aveva fatto volatilizzare buona parte dei picciotti, sia pure per qualche ora. Poco dopo, infatti, sarebbe arrivato per il Von Mechel, l’ordine da Palermo (o per meglio dire dai traditori di alto rango, che si annidavano nell’Alto Comando di Palermo) di reimbarcarsi e di rientrare precipitosamente in città.
Di questo aspetto della vicenda, ovviamente, né Garibaldi, né l’Abba, né altri scrittori di parte unitaria fanno parola più di tanto.

Mafia e picciotti di mafia sulla via del trionfo... – Il Landi passerà da Partinico il 16 maggio del 1860. Qui avverrà uno dei fatti più mostruosi dell’epopea dei Mille. Prima di parlarne dettagliatamente è necessaria però una premessa sul ruolo dei picciotti di mafia che vivono in quel momento le giornate più belle della loro esistenza.

Del tutto assenti a Marsala, dove, come abbiamo visto, il rito dei festeggiamenti a Garibaldi è stato celebrato solo ed esclusivamente dalla comunità inglese, capeggiata dal suo Console, i picciotti vengono forniti a Garibaldi dai gentiluomini (ai quali i picciotti stessi obbediscono devoti) per la prima volta, a Rampigallo a metà strada fra Marsala a Salemi. Perché il quel momento, nonostante il fatto che già da tempo i picciotti imperversassero nelle campagne siciliane?

Semplicissimo: le vicende dello sbarco e lo sbracciarsi degli Inglesi hanno fatto comprendere che Garibaldi può vincere. E che ha molte chance, molti appoggi, molta faccia tosta. Alla successiva battaglia di Pianto Romano i picciotti tuttavia non brillano né si mettono in mostra. Sono prudenti e guardinghi. Evitano accuratamente di essere coinvolti nei combattimenti: vogliono vederci chiaro. Vogliono certezze.

Entrano in scena – ed in modo poco qualificante – quando sono ben sicuri che la battaglia sia stata ben taroccata. E che Garibaldi è destinato a vincere. Diventeranno tuttavia più intraprendenti soltanto dopo che i soldati Duosiciliani avranno lasciato il campo da vincenti. I picciotti hanno, infatti, capito che Garibaldi deve vincere sempre ed ovunque. Perché così ha disposto la più grande potenza del mondo. La Gran Bretagna, appunto.

La notizia della vittoria rimbalza di bocca in bocca non solo negli ambienti bene ma anche e soprattutto nell’ambiente dei picciotti di mafia, dei capmafia e dei banditi comuni, i quali hanno così la conferma dell’esattezza e della credibilità di ciò che già era stato loro detto e promesso.

Certamente impareranno ad urlare prima, durante e dopo il compimento dei delitti: «Viva la… Talia»! «Viva Canibardu»! Ma rimarranno sempre picciotti, impresentabili, seppure utili.

In proposito il De’ Sivo così scrive:

«…Gli ausiliari (i picciotti, cioè) che erano i facinorosi dell’isola, aveano spogliati i cadaveri, né solo dei Regi (Borbonici, n.d.r.) ma pur degli Italici, Polacchi o Ungari che fossero (Garibaldini, cioè) e a questi avean rapito di dosso l’oro che il condottiero (Garibaldi) avea tra loro partito, per tenerlo sicuro in ogni evento».

Poco prima lo stesso De’ Sivo aveva raccontato (esagerando un po’):

«Colà (a Pianto Romano) si videro barbarie oscene: straziare feriti, farli a pezzi, negar seppellimenti, gittar le membra ai cani, e sin con sentinelle guardar quello scempio e vietare (che) qualche pietoso coprisse di terra i morti corpi».(5)

Il De’ Sivo ci racconta altresì che il Duce dei Mille, dopo aver constatato che su nessuno dei Garibaldini morti era stata trovata una sola delle monete da lui stesso consegnate, il giorno 17 maggio, decretò la condanna a morte per i ladri. E, a questo punto, il serioso De’ Sivo si domanda quasi divertito:

«Ma chi, se non i ladri, gli accorrevano?».

Quel decreto antiladri, quindi, come tanti altri dello stesso tenore, sarebbe rimasto – non a caso – privo di effetti. Anzi pompa di parole come scrive lo scrittore borbonico.

Quegli stessi picciotti tuttavia non possono continuare a fare i loro comodi ed a sciamare per le campagne soltanto per rapinare o compiere altro
tipo di violenze. Devono combattere. Devono intervenire in un fatto d’armi qualsiasi. Lo vuole Garibaldi per dimostrare ai suoi volontari e soprattutto agli Inglesi che esiste una rivoluzione unitaria all’interno della Società Siciliana. Lo pretende la dirigenza mafiosa per compiere pienamente il proprio salto di qualità, per conquistare un ruolo maggiore nella nuova società e per avere credibilità.

E lo chiedono in prima persona gli stessi Inglesi che vogliono essere in possesso di argomenti da opporre alle critiche, che la diplomazia internazionale potrebbe pur sempre muovere. Vogliono che i loro giornali abbiano notizie di vittorie e di rivolte popolari contro i Borbone ed a favore dei Savoia. Tuttavia, checché si dica, alla data del 16 maggio 1860, dopo un fatto eclatante come lo Sbarco e dopo la battaglia-truffa di Pianto Romano, di fatti, che scaturiscano dall’interno della Sicilia, se ne sono visti molto pochi. Anzi niente.

Scene come quella di Salemi, dove il Bandi, per fare abbattere lo stemma dei Borbone, deve sudare sette camicie ed aspettare l’autorevole intervento del fratello del barone Sant’Anna, sono significative. Ma in senso opposto a quello desiderato dalla gigantesca macchina propagandistica messa in moto in campo internazionale.

L’indifferenza delle popolazioni di Marsala, di Vita, di Calatafimi o di Alcamo deve essere stata inoltre maggiore e più sentita dei festeggiamenti organizzati a Salemi dai Sant’Anna. Brutti sintomi che potrebbero venire all’orecchio dell’opinione pubblica internazionale. È ora che arrivino gli scontri, gli incidenti, le manifestazioni politiche, le sommosse ed… i morti.

Dei quali già la stampa inglese ha talvolta dato notizie in modo fantasioso. Ipicciotti la loro paga se la debbono pur guadagnare in qualche modo.
Devono massacrare i vivi… non i morti o i feriti gravi. Meglio se durante i
moti spontanei della popolazione.

Il passaggio della colonna Landi, in vergognosa e velocissima ritirata verso Palermo, ne offrirà finalmente l’occasione.

Partinico: i picciotti di mafia in azione con orrore – Dopo che si è lasciato alle spalle la cittadina di Alcamo ed ha percorso rapidamente una ventina di chilometri, il Landi, nella marcia di avvicinamento a Palermo, è costretto a passare dal centro dell’abitato di Partinico. Ed è vergognoso lo spettacolo di migliaia di uomini, in pieno assetto di guerra che battono in ritirata.

Dopo che l’Armata del Landi ha attraversato il centro di Partinico e si è lasciata alle spalle qualche chilometro di strada, si notano nella zona attraversata e a debita distanza dalla retroguardia, una dozzina di soldati Duosiciliani rimasti indietro, forse sbandati o eccessivamente stanchi o feriti.
O, peggio, moribondi o morti. È il momento degli sciacalli.

Ci permettiamo di ventilare una ipotesi, soltanto una semplice ipotesi. I picciotti di mafia si appostano e sparano sui malcapitati ritardatari. I quali ultimi non sempre sono nelle condizioni di rispondere al fuoco. Quei soldati Duosiciliani vengono facilmente, poi, raggiunti e sopraffatti. Otto i morti. I sopravvissuti, con altri sbandati, si fanno prendere prigionieri dalle autorità locali. I fatti successivi confermeranno la credibilità di questa ipotesi, che ovviamente rimane tale.

Torniamo quindi ai fatti condivisi (più o meno). Certo è che otto cadaveri rimangono sul terreno. Vediamo cosa combineranno i picciotti che finalmente sono stati in grado di compiere un delitto politico-militare e di mostrare il loro valore. Quegli otto cadaveri diventano subito trofei (la pro- va, cioè, delle capacità combattentistiche dei picciotti. Ahinoi!).

I picciotti non sanno però con esattezza in quale giorno il Generale Dittatore sarebbe passato da Partinico e – considerato che in Sicilia il mese di maggio può offrire temperature elevatissime – vogliono evitare il pericolo che le prove del loro valore si putrefacciano. Sembrerebbe a questo punto (il condizionale è d’obbligo) che avessero provveduto a dare a quei cadaveri una mezza cottura nei forni o nei fuochi improvvisati per farli resistere, ben riconoscibili, fino all’arrivo dell’Eroe Nizzardo.

Seguiamo ora la cronaca della vicenda che ci forniranno i due scrittori Garibaldini: Cesare Abba, l’apologeta e agiografo per eccellenza, e Giuseppe Bandi, apologeta anch’egli, ma nei limiti della ragione umana. E che, in questo caso, ridimensionerà il racconto fantasioso e propagandistico del primo. Sono entrambi molto utili – anche se in contraddizione – per illuminar- ci su ciò che avveniva in Sicilia in quel tragico mese di maggio del 1860.

«Meglio scansare Partinico», parola di Abba.
Cesare Abba, da maestro di agiografia garibaldina, sa come inquadrare fin dall’inizio il racconto di quei fatti ed inizia pertanto con un’imprecazione che vuole suonare da condanna morale. «Era meglio rompersi il petto, ma varcare la montagna, scansare Partinico», scrive nella noterella del 18 maggio 1860, durante una sosta compiuta dalla sua colonna lungo la strada che da Partinico porta a «Burgeto» (Borgetto).

E così continua dicendo che prima ancora di entrare a Partinico, il «vento che rinfrescava l’aria, portava un fetore insopportabile».(6)

Ed ecco la spiegazione – che è anche giustificazione – dello scrittore:

«La colonna da noi battuta a Calatafimi s’azzuffò con gli insorti di Partinico, gente eroica davvero. […] Incendiato il villaggio (sic) i Borbonici fecero strage di donne e bambini e di inermi di ogni età (sic)».

Ed ecco la grande manovra propagandistica. E la costruzione di un FALSO STORICO… – L’Abba inventa di sana pianta un incendio ed una strage che nella realtà non vi furono. Ma soprattutto parla di insorti di Partinico, «gente eroica davvero». Confonde cioè la popolazione di Partinico, che può anche essere gente eroica, con i ‘picciotti di mafia’, che vuole fare passare contemporaneamente per insorti, per eroi e per espressione del popolo di Partinico.

Vorremmo compiere un’altra riflessione.

I Borbonici, come sappiamo, marciavano in gran fretta per ritornare a Palermo. Una vera fuga, più che una marcia. Non avevano – né potevano avere – voglia e tempo per azzuffarsi con la popolazione di Partinico o per selezionare le donne, i bambini e gli inermi di ogni età per farne strage.

Cose, queste, che – se vogliamo essere proprio pignoli – avrebbero fatto dopo breve tempo soltanto i Piemontesi, in nome di Vittorio Emanuele II Re d’Italia. E, oltre che in Sicilia, lo faranno nell’Italia Meridionale e più esattamente a Pontelandolfo e a Casalduni. E non solo lì. E non certamente mentre erano di passaggio, bensì in apposite spedizioni punitive. Lo vedremo ben presto anche a Castellammare del Golfo.

Probabilmente l’Abba scrive e perfeziona le sue noterelle in un arco di tempo che va sino al 1891. A quando cioè sarà a conoscenza perfetta della tragedia, piombata sui popoli dell’ex Regno delle Due Sicilie dopo il 1860. Cercherà quindi di compensare a modo suo le violenze successive all’annessione con quelle avvenute precedentemente.

Così prosegue la cronaca dell’orrore:

«Cadaveri di soldati e di paesani, cavalli e cani, morti e squarciati (sic) fra quelli». Insomma una Guernica di Picasso ante litteram…

Prosegue l’Abba:

«Al nostro arrivo le campane suonavano non so se a gloria o a furia; le case fumavano ancora; il popolo esultava (sic) tra quelle ruine; preti e frati urlavano frenetici evviva».(7)

Qui ci dobbiamo fermare un istante. È troppo grossa!
Se il popolo di Partinico avesse realmente patito una strage di bambini, di donne e di cittadini inermi di ogni età, avrebbe onorato i propri morti, sarebbe stato a lutto ed in raccoglimento. Avrebbe fatto sì giustizia, anche sommaria, anche tremenda, degli eventuali assassini; senza pietà, ma sempre in modo serio e civile.
Non avrebbe mostrato in modo tanto scomposto la propria esultanza.

Analoga considerazione vale per i frati e per i preti, che per salvare la propria pelle possono anche far finta di condividere i proclami Garibaldini, ma senza trascurare quel minimo di umanità e di religiosità che li contraddistingue sempre e ovunque.

L’Abba però non si ferma. Ne dice di peggio.

«Le donne si torceano le braccia furenti, ed intorno a sette o otto morti, rigonfi e bruciacchiati, molte fanciulle danzavano (sic) come forsennate a cerchio, tenendosi per le mani e cantando».

Insomma: una vera e propria «orgia», attribuita spudoratamente ad una cittadinanza che l’Abba non aveva diritto di «infamare». Una cittadinanza, ieri come oggi, civilissima e, notoriamente e contemporaneamente, moderna e al passo con i tempi.

Naturalmente l’Abba, com’è sua abitudine, deve mettere qualche pezza per salvare il significato politico di quell’episodio e per dissociarsi apparentemente dal reato di vilipendio di quei cadaveri, tanto utili dal punto di vista politico, appunto, per l’impresa garibaldina e per i picciotti. E così fa una considerazione ovvia quanto ipocrita:

«Quei morti erano soldati».

E cerca di salvare in extremis Garibaldi affermando:

«Il Generale spronò tirando via e calandosi il cappello sugli occhi». Non crediamo che sia riuscito a farlo tanto bene. I Garibaldini proseguono il loro cammino. E l’Abba aggiunge che sono però assordati e scontenti, cercando, così, di dissociarsi maggiormente dall’operato dei picciotti di mafia; che rimangono però gli unici Siciliani al loro fianco. Almeno per il momento.

A questo punto dobbiamo precisare che se veramente il villaggio di Partinico fosse stato bruciato, la cultura ufficiale avrebbe parlato di quell’incendio molto più ampiamente di quanto non si sia parlato dell’incendio di Roma da parte di Nerone.

Non solo. Ma avremmo strade, lapidi, monumenti, dedicati a quegli improbabili martiri con altrettante celebrazioni ad ogni ricorrenza dell’anniversario del passaggio di Garibaldi da Partinico.

Desideriamo infine puntualizzare che Partinico allora – come del resto è ai nostri giorni – non era affatto un villaggio, ma una piccola città. E l’Abba lo sapeva bene, come dimostra il fatto che ogni tanto gli sfuggiva la parola città. Ed era molto popolosa, ricca di opere d’arte, di chiese e di monasteri, nonché punto di riferimento amministrativo, economico e commerciale di un circondario abbastanza vasto ed operoso. In particolare, a Partinico, oltre che un’agricoltura fiorente, si svolgevano tante attività artigianali, industriali e semi-industriali. Ed ivi aveva sede una della più importanti ed attive aziende vitivinicole della Sicilia, il cui centro aziendale è, oggi, ben ristrutturato e destinato ad attività socio-culturali. E, guarda caso, viene chiamato «Cantina Borbonica».

Non avremmo bisogno di aggiungere altro, ma riteniamo opportuno cogliere l’occasione per smentire le invenzioni del narratore ufficiale del- l’impresa dei Mille con le parole di un altro scrittore garibaldino, il tenente Giuseppe Bandi, che ormai riconosciamo di maggiore affidabilità.

Foto della Real Cantina Borbonica di Partinico tratta da italyformovies.it

(1) G. C. Abba, op. cit., pag. 79.

(2) G. C. Abba, op. cit., pag. 80. L’anfitrione di Alcamo non poteva, ovviamente, dire che sapeva bene come la vittoria di Pianto Romano fosse stata una vittoria taroccata.

(3) V. Gulì, op. cit., pag. 82.

(4) G. C. Abba, op. cit., pag. 80.

(5) G. De’ Sivo, op. cit., pag. 60

(6) G. C. Abba, op. cit., pag. 83.

(7) G. C. Abba, op. cit., ivi.

 

 

 

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