La vera storia dell’impresa dei mille 8/ Anche Indro Montanelli ammette il ruolo della mafia. La misteriosa morte di Ippolito Nievo

24 gennaio 2019

In questa ottava parte del volume “… e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò Colonia”, Giuseppe Scianò elenca le prese di posizione di alcuni storici e commentatori. Dalle dichiarazioni sincere – ma anche dalle bugie – emerge con chiarezza il ruolo degli Inglesi, che avevano preparato lo ‘sbarco dei mille’ con meticolosità. E viene fuori, soprattutto, il ruolo dei ‘picciotti’ di mafia  

di Giuseppe Scianò

Commenti e testimonianze sullo Sbarco dei garibaldini avvenuto a Marsala l’11 maggio 1860 – Sulle vicende di Marsala si è scritto parecchio e si è detto tutto ed il contrario di tutto. La verità che si sia trattato di un colpo di mano inglese, non occasionale, ma inserito in un piano ben preciso, tuttavia, emerge a poco a poco e in modo inoppugnabile dalle tante dichiarazioni sincere e, paradossalmente, anche dalle tante bugie. Si tratta di testimonianze tirate in ballo, le une e le altre, da coloro che, da diversi punti di vista e talvolta con interessi contrapposti, si sono occupati, volontariamente o involontariamente, delle vicende risorgimentali siciliane.

Non potendole citare tutte, abbiamo riportato le testimonianze più significative, citandone di volta in volta le fonti.

Indro Montanelli – Un unitario e risorgimentalista impenitente, Indro Montanelli, il quale già in altre occasioni aveva fatto qualche battuta a proposito dell’accoglienza che i Siciliani avevano riservato a Garibaldi ed ai suoi Mille a proposito dello sbarco così ebbe modo di esprimersi:

«Gli inizi non furono promettenti. L’unico che diede un caldo benvenuto ai volontari fu il Console inglese. La popolazione si chiude in casa. E lo stesso vuoto incontrò la colonna l’indomani, quando si mise in marcia. Solo a Salemi, Garibaldi fu accolto con entusiasmo, perché a lui si unì una banda di “picciuotti” comandata dal Barone Sant’Anna. Se un “pezzo di novanta” come lui si schierava con Garibaldi, voleva dire che su costui c’era da fare affidamento». (13)

Ci sentiamo in dovere di precisare che le virgolette sono nostre. Non ne potevamo fare a meno, soprattutto nel momento in cui appaiono i picciotti di mafia ed il loro pezzo da novanta, Barone Sant’Anna.

Non ci pare nemmeno corretto che il Console di S.M. Britannica sia lì, in piazza, a farsi in quattro per festeggiare l’inizio dell’invasione di quel Regno delle Due Sicilie, presso il quale egli stesso ha svolto e continua a svolgere compiti di rappresentanza diplomatica (si fa per dire, perché è fin troppo evidente il suo ruolo di agente del Governo di Londra incaricato di agevolare azioni destabilizzanti di ogni tipo). Analoga considerazione vale per il Console Sabaudo. Ma Montanelli non si preoccupa di evidenziare questo particolare.

Va tutto bene lo stesso? No, certamente. Ma è sufficiente constatare che il famoso Indro abbia ammesso che a Marsala la gente si chiuse in casa e vi restò chiusa anche durante la partenza di Garibaldi alla volta di Salemi. Ed il Montanelli parla chiaramente anche dell’apporto della mafia. E non è poco… per un unitario di ferro.

Giuseppe Cesare Abba – Persino l’Abba è costretto a parlare delle bandiere Inglesi. Si vede che erano veramente molte. Anzi: troppe! A sbarco già avvenuto, scrive nelle sue noterelle, proprio con la data dell’11 maggio 1860:

«Siedo sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa piazzetta squallida, solitaria, paurosa».

Dopo qualche osservazione sul Capitano Alessandro Ciaccio, che piange di gioia e dopo aver fatto qualche altro piccolo riferimento di cronaca, il nostro Autore aggiunge:

«Su molte case sventolano bandiere di altre nazioni. Le più sono Inglesi. Che vuol dire questo?». (14)

Si è detto che l’Abba pone un quesito al quale crediamo di avere risposto abbondantemente. Ma riteniamo che gli avessero già risposto esaurientemente quasi subito altri autori. E riteniamo altresì che l’Abba si sia risposto da sé, nel momento in cui è costretto ad ammettere che sventola una grande quantità di bandiere Inglesi.

Un fatto strano, comunque. Per un cantore, per un apologeta dell’impresa garibaldina, per un operatore di disinformazione storica e politica del Risorgimento, è senza dubbio un sacrificio dare spazio a questo scorcio di verità. Ma non può farne a meno: il fenomeno è dilagante e si ripeterà a Palermo, a Catania, a Messina. Ovunque in Sicilia.

Va da sé un’altra considerazione. L’Abba non afferma di aver visto bandiere italiane. Ci fa quindi dedurre che non ve ne siano. Neppure una. Non si tratta di un fatto secondario. Se infatti un agiografo come l’Abba avesse visto a Marsala un solo fazzoletto tricolore, lo avrebbe moltiplicato per cento… Saranno poi i pittori, i pennaioli ed i poeti (incaricati dal Governo di Vittorio Emanuele o mossi dalla voglia di far carriera o dalla necessità di sopravvivere) che faranno miracoli, descrivendo folle osannanti, talvolta in ginocchio, che accolgono il Duce dei Mille fin dal molo del porto, in un tripudio di gigantesche bandiere tricolori.

Dobbiamo tuttavia ricordare che uno dei più famosi commentatori del libro di Abba, in una nota, cerca di mettere una pezza alla testimonianza in questione. Ed infatti scrive:

«(La bandiera inglese significa) che molti Inglesi vi si trovavano per l’industria vinicola. La bandiera metteva al riparo dal bombardamento». (15)

È appena il caso di fare rilevare che il bombardamento vero e proprio, per la verità, non vi era mai stato. E che si trattava di pochissime cannonate a vuoto e puramente simboliche che peraltro erano già terminate. Mentre – come abbiamo già puntualizzato – le bandiere Inglesi e le tabelle con la scritta domicilio inglese si sarebbero viste (e mantenute a lungo) anche in altre città della Sicilia, dove non vi erano industrie vinicole degli Inglesi… e neppure gli Inglesi stessi.

Bandiere e tabelle sarebbero servite in verità a moltissime famiglie siciliane per mettersi al sicuro (o meglio, per tentare di mettersi al sicuro) dai saccheggi, dalle violenze e dagli stupri, che non sarebbero certamente mancati. E che, anzi, in non poche occasioni, avrebbero caratterizzato il comportamento dei liberatori, nonché dei banditi e dei malfattori locali loro alleati.

Abbiamo già ricordato che l’11 maggio 1860, a Piazza della Loggia, a Marsala, durante la parata garibaldina si era rimediata a stento la sola bandiera italiana che Giorgio Manin aveva tirato fuori da un apposito astuccio. Questo fatto la dice lunga, troppo lunga… E conferma che le bandiere italiane non esistevano nel maggio 1860. Né a Marsala, né in tante città della Sicilia. Fatte salve ovviamente quelle poche eccezioni che confermano la regola.

Faremmo un torto a G. C. Abba se non dicessimo che egli stesso si incarica di fare qualche affermazione atta a compensare, probabilmente, gli
effetti negativi di alcune considerazioni, in apparenza ingenue, o di qualche
lapsus freudiano. Come quando, ad esempio, ha fatto cenno alla «piazzetta,
squallida, solitaria, paurosa». La compensazione avviene allorché, per
restare in tema, fa appunto una poco credibile descrizione dei festeggiamenti (probabilmente inventati ed idealizzati nel lungo periodo di tempo trascorso fra la sua partecipazione all’impresa ed il momento in cui avrebbe curato l’ultima stesura della sua opera) dei quali nemmeno Garibaldi in persona ed il suo fedele ufficiale Bandi fanno cenno, come vedremo.

Così scrive Cesare Abba:

«Ora la città è nostra. Dal porto alle mura corremmo bersagliati di fianco. Nessun male. Il popolo applaudiva per le vie; frati di ogni colore (sic!) si squarciavano la gola gridando; donne e fanciulli dai balconi ammiravano. “Beddi! Beddi!” si sentiva da tutte le parti».

Eppure poco prima aveva scritto:

«La città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì, venuta giù a turba».(16)

Ci insospettisce, altresì, ma non più di tanto, il fatto che l’Abba non abbia detto «alcuni ragazzi» bensì abbia usato il termine, piuttosto dispregiativo, di «ragazzaglia». Ci dovrebbe far riflettere anche la precedente frase:

«La città non aveva ancora capito nulla…». (17)

Come mai la città avrebbe festeggiato se non aveva «capito nulla»? E come mai pur non avendo capito nulla aveva atteso l’evento liberatore? E come mai, senza avere ancora capito nulla, secondo quanto attestano le fonti ufficiali, sarebbero stati proprio i cittadini di Marsala quelli che volevano ad ogni costo Garibaldi alla testa della loro rivoluzione?

L’agiografia risorgimentale dell’Abba diventa, insomma, un boomerang per l’eccessivo entusiasmo patriottico dell’Autore del testo «sacro» Da Quarto al Volturno.

Non sottilizziamo ed andiamo ad uno di quegli episodi secondari che però, a tempo e luogo opportuni, possono assumere ruolo e funzione di testimonianza. L’Abba ci aveva, sempre nella noterella del giorno undici, parlato di un incontro interessante:

«Alcuni frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le loro enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano:

“Siete reduci, emigrati, svizzeri?”».

Francamente ci sembra strano che i frati, i quali dovevano necessariamente possedere un bagaglio di cultura e di informazioni politiche (…oltre che di tabacco) superiore alla media, facessero una domanda del genere e dimostrassero quindi di non essere coinvolti nell’entusiasmo popolare, del quale lo stesso Abba parlerà di lì a poco (di cui abbiamo fatto riferimento).

Una cosa, seppur inquietante, i frati l’avevano comunque confessata. Per loro i Garibaldini potevano anche essere stranieri. Meglio se svizzeri…
Non li avrebbero comunque conosciuti, né riconosciuti.

Bolton King. Inglesi a Marsala? Bolton non lo sa… – Nel 1903, Benedetto Croce, mostro sacro della filosofia e della storiografia italiana, unitario di ferro (ancorquando meridionale), nel corso della presentazione di una nuova opera di Bolton King, volle fare cenno a quella che era l’opera più conosciuta in Italia e sulla quale avrebbero studiato diverse generazioni di docenti, di allievi e di studiosi: La storia dell’unità d’Italia, in quattro volumi. La prima edizione della quale era stata pubblicata in lingua inglese nel 1899.

Ebbene, il Croce in proposito affermò:

«La “Storia dell’Unità d’Italia” benché elaborata con conoscenza completa del vasto materiale erudito di quel periodo, pur non tanto mi era parsa notevole per l’erudizione quanto per la finezza ed equilibrio del giudizio, che mette sotto giusta luce uomini ed avvenimenti controversi, e desta quasi di continuo quella persuasione, quell’intimo assenso, che si esprime con un “così è”». (18)

Ipse dixit, insomma… L’opera dell’illustre inglese è senza dubbio ponderosa ed interessante. Parte, però, da alcuni dati che ritiene scontati e certi, ma che invece a nostro giudizio sono discutibili. Talvolta mai avvenuti.

Il buon Bolton King, del resto, se in buona fede, non avrebbe mai potuto immaginare che il materiale erudito da cui avrebbe attinto la conoscenza della storia d’Italia, in realtà gli avesse fornito una serie di notizie rielaborate e/o falsificate ab origine. Non sappiamo se, venendo in Italia, visitando i luoghi del delitto, interrogando i testimoni oculari, lo scrittore inglese avrebbe smentito se stesso.

Fatto sta che il King non aveva mai messo piede in Sicilia fino al mese di maggio del 1860 (né lo avrebbe fatto dopo), né in Sicilia, né tantomeno in Italia. A questo punto abbiamo il sospetto che Bolton King non fosse stato in buona fede e che anche lui facesse parte della grande congiura della disinformazione per giustificare e legittimare la grande operazione di conquista del Regno delle Due Sicilie.

Ecco, ad esempio, come ci descrive lo Sbarco dei Mille:

«Intanto con i suoi piroscafi Garibaldi giunse a Marsala l’11 maggio. Era riuscito a sfuggire ai vascelli Napoletani in alto mare, ma mentre si stava avvicinando a terra fu avvistato da due incrociatori, che lo inseguirono accanitamente fino nel porto. Una delle sue navi si incagliò e, se il fuoco aperto dai Napoletani non fosse stato troppo largo e sparso, una metà dei suoi uomini non sarebbe certo riuscita a giungere sana e salva sulla terraferma. A Marsala non esisteva la guarnigione, ma la spedizione corse egualmente il rischio di rimanere inchiodata in quel lembo dell’isola, per cui Garibaldi decise di marciare immediatamente su Palermo: salutato con indicibile entusiasmo dalla popolazione, si proclamò Dittatore dell’isola in nome di Vittorio Emanuele e si affrettò quindi ad avanzare su Palermo, mentre La Masa incitava gli abitanti dei villaggi a prendere le armi e mentre le squadre sopravvissute all’impresa della Gancia si univano alle sue forze».(19)

Così fu? Non ci pare. Manca peraltro ogni riferimento proprio all’intervento inglese. Ed invece spunta un entusiasmo che, soprattutto a Marsala, nella realtà, non era mai esistito. E questa descrizione dei fatti non ci pare ammissibile per un Autore così importante. Eppure egli aveva scritto:

«La politica del Governo Palmerston verso l’Italia si proponeva tre obiettivi fondamentali: soddisfare le aspirazioni italiane cacciando dal Paese gli austriaci; far cessare l’influenza francese in Italia; indebolire o distruggere il potere temporale (del Papa)». (20)

Ammetteva quindi che l’Inghilterra aveva scelto fra i due sovrani (peraltro imparentati fra loro, Vittorio Emanuele II e Francesco II, legati da vincoli di sangue e di parentela agli Asburgo), quale dei due buttare giù dalla torre e quale invece salvare adottandolo ed aiutandolo a crescere. Se non addirittura costruendolo a suo uso e consumo.

Come poteva l’Inghilterra rischiare, ormai, che a Marsala il proprio progetto colasse a picco? Qualcosa doveva fare e doveva già aver pur fatto!… O no? Ma Bolton King finge di non vedere, di non sapere. Anzi si inventa una sua verità a totale supporto della propaganda filo-unitaria.

Garibaldi: una frase che rafforza i sospetti – Scrive il Rosada:

«Dodici anni dopo, il Duce dei Mille riconosce lealmente il suo debito scrivendo nelle sue memorie:

“La presenza dei due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed, io, beniamino di cotesti signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro Protetto”».

Questa frase di Garibaldi, anziché dissipare insinuazioni e sospetti, li avrebbe rafforzati. Ne condividiamo il contenuto, perché l’influenza e gli interventi dell’Inghilterra furono veramente decisivi nei fatti del 1860 e degli anni immediatamente successivi. Ma la macchina dell’agiografia risorgimentale non sarebbe stata neppure sfiorata da questo momento di sincerità dell’Eroe dei Mille.

Se quest’ultimo avesse capito, fin dall’inizio, dove sarebbe arrivato il suo mito, probabilmente non si sarebbe lasciato andare ad una confessione così significativa e compromettente.

(20) Bolton King, op. cit., vol. III, pag. 140.

Denis Mack Smith e Ippolito Nievo – Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo, Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un vero best-seller, è La storia della Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane però immutata.

Ci confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito Nievo:

«La rivoluzione era sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e qualche paura dei proprietari». (21)

Un giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito meglio di tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)

Cosa, questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel rispetto della… ragion di Stato.

Ma per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo Bianchi:

«Ippolito Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla ‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario) come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».

Il Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero, attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato molto la verità.

Ancora oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione «unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.

Infatti, dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili (riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.

Si può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che, del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.

Sulla tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo; l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…

(13) Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento, Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli, scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo. In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente «picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante», apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…

Fine ottava puntata/ continua

Foto tratta da questionegiustizia.it

(14) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(15) G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.

(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 51.

(17) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(18) Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag. 11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.

(19) Bolton King, op. cit., vol. III, pag. 179.

(20) Bolton King, op. cit., vol. III, pag. 140.

(21) Denis Mack Smith, op. cit., pag. 189.

(22) Abba, Storia dei Mille, pag. 16. Cfr. D. Mantovani, I. Nievo, Milano, Treves, e U. Giallo, Nievo, Genova, e degli Orfini. In questi ultimi anni il libro Le confessioni di un italiano è stato rivalutato e riconosciuto «un capolavoro europeo, paragonabile alle opere di Tackeray e Dickens». Un’edizione critica è stata recentemente pubblicata, a cura di Simone Casini, dalla Fondazione «Pietro Bembo» (Guanda Editore). Di estremo interesse sono gli studi che il Siciliano Lucio Zinna ha effettuato sulla presenza, sul ruolo e sulla tragica fine di Ippolito Nievo. Lo Zinna mette a fuoco, nel suo libro “Il caso Nievo. Morte di un Garibaldino”, Caramanica, 2006, particolari della vicenda fino a qualche tempo fa del tutto ignorati.

 

 

 

 

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