Cosa fare per rilanciare i lavori pubblici in Sicilia evitando il déjà vu che fa perdere tempo e soldi

3 giugno 2017

Come si legge sui giornali i soldi dei ‘Patti’ firmati da Renzi per la Sicilia prima del referendum del 4 dicembre sono in parte spariti. Vi illustro come Roma – gli ex ministri dell’Economia Visco e Tremonti, in questi giochi di prestigio erano bravissimi – fa scomparire i fondi. E vi prometto che, se diventerò Presidente della Regione, porrò fine a questo ‘babbio’ di Roma. In questo articolo vi dico quello che farò

Sappiamo che cos’è il déjà vu. E’ la sensazione di rivivere una situazione già vissuta nel passato. E’ quello che mi è capitato leggendo qualche giorno fa un articolo su un quotidiano nel quale veniva reso noto che una parte dei fondi per il ‘Patto per la Sicilia’ (ricordate? Quello firmato in pompa magna da Renzi e i suoi ascari siciliani tronfi e sorridenti), deve essere ricollocata perché non si perda. Pare, dico pare, che i tempi ovviamente burocratici (ah questa burocrazia, ma quando i politici capiranno che se vogliono che una cosa sia fatta bene se la devono fare da soli?) rischiano di far perdere alcuni fondi e quindi si pone la necessità di modificare qualche destinazione.

Inevitabile? No, certamente.

Vi illustro perché è evitabile e scusate se, in certi punti, sembrerò didascalico e noioso, ma è giusto che i nostri lettori conoscano le vere ragioni di balletti (e giochetti) come questi che abbiamo appena descritto.

Per realizzare un’opera pubblica ci vuole qualcuno che la finanzi, quindi qualcuno che rediga il relativo progetto. Poi qualcuno che lo approvi e, infine, qualcun altro che lo metta in gara.

Redigere un progetto costa. La soluzione escogitata dalla pubblica amministrazione è che le spese di progettazione sono comprese in quelle complessive del progetto. Ne costituiscono quindi una voce specifica.

Che cosa comporta tale tipo di procedura? Ovviamente che se la realizzazione dell’opera non è finanziata non si può dare luogo alla progettazione. Orbene, ammettiamo che sia finanziata un’opera specifica, una strada. Ciò vuol dire che, in qualche parte del bilancio di un ente finanziatore,(Stato, Regione), è prevista la relativa spesa che deve essere inserita in una annualità del bilancio,(per es. 2018). Così si può finanziare il progetto, farlo approvare e mandare il gara.

Sono procedure lunghe e complicate, ma sono scritte nelle leggi dello Stato e/o della Regione e bisogna osservarle. Supponiamo (ed è più di una supposizione) che, per arrivare all’indizione della gara, occorra tutto il 2018. Che succede?

I fondi non ci sono più, ovviamente. Bisogna riscriverli in bilancio. Intanto il tempo continua passare, le cose cambiano, qualche autorizzazione scade, e bisogna richiederla di nuovo, potrebbe intervenite una nuova legge che modifica qualche procedura, i soldi previsti, a causa di aumenti vari, potrebbero non bastare più.

Insomma ecco l’Italia delle incompiute e delle opere perennemente in costruzione.

In tutto questo non va trascurato, anzi, l’effetto devastante provocato scientificamente da qualche ministro dell’Economia – Visco del PD e Tremonti di Forza Italia furono i precursori – che approfittano dei ritardi per portarsi i soldi dove gli faceva più comodo. Salvo a farli riapparire come col gioco delle tre carte.

Conservo gelosamente articoli di giornali in cui nell’arco di vent’anni certe opere sono state finanziate almeno tre volte e i lavori non sono mai iniziati.

C’è un rimedio? E se c’è che rimedio è? E’ semplice, ma difficilissimo da realizzare nel nostro Paese intimamente e profondamente corrotto.

Ma io, se sarò eletto Presidente della Regione ci proverò con tutte le mie forze. Ecco come si fa.

La Regione, e questo è il primo punto, deve acquisire realmente e non virtualmente nel suo bilancio i fondi. Sempre la Regione, senza patti o patticeddi con Renzi, renziali e renzini, con i soldi che sono suoi e soltanto suoi approva un programma quinquennale di opere pubbliche e infrastrutture, collegato con la durata della legislatura. La relativa copertura finanziaria è predeterminata e deve corrispondere alla stima ragionevolmente effettuata dei costi delle opere. Questi soldi sono blindati.

I progetti relativi vengono redatti da un’autorità pubblica, un dipartimento regionale costituito da ingegneri, architetti, geologi, geometri, tutti in atto in servizio presso l’Amministrazione regionale, tutte professionalità in atto mortificate da un distorto utilizzo.

La redazione dei progetti ovviamente equivarrà per gli stessi soggetti alla prestazione lavorativa.

Un’alta autorità di valenza regionale, dotata di ampi poteri, sarà deputata all’approvazione dei progetti definitivi, la cui esecutività e conseguente cantierabilità costituirà dichiarazione di pubblica utilità.

Una terza autorità dispone la gara e l’aggiudicazione dei lavori con il metodo del sorteggio tra le imprese partecipanti che, per essere ammesse, dovranno previamente sottoscrivere una clausola compromissoria in base alla quale ogni divergenza riferibile alla gara va deferita esclusivamente ad arbitri e mai hanno effetti sospensivi sull’aggiudicazione e sui lavori.

Che significa tutto questo? Rapidità, certezza e, cosa niente affatto secondaria, l’eliminazione totale del rapporto, sempre e comunque elemosinario, troppo spesso concussivo-corruttivo che si realizza prima tra pubblici poteri e i professionisti e, successivamente, tra pubblici poteri e imprese.

Troppo bello, vero?

Foto tratta da lavoripubblici.it

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