I Musei del Risorgimento? Debbono raccontare la verità, non coprire le nefandezze dei vincitori

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Nei Musei del Risorgimento documenti, simboli e memorie devono testimoniare, equamente e senza preconcetti, ragioni e vicissitudini dei “vincitori” e del “perdenti”, protagonisti di uno dei periodi più tormentati della storia nazionale. Memoria collettiva e verità fattuale, se condivise e depurate dalla falsa e ripetitiva propaganda, potrebbero, dopo oltre 150 anni, far giustizia dei luoghi comuni e delle interessate travisazioni che, ancora oggi, avvelenano i rapporti sociali e la coesione nazionale

di Lino Buscemi

Indro Montanelli in una “avvertenza” che risale al 1972 contenuta nel volume dedicato a “L’Italia del Risorgimento”, fulminò il lettore con questa frase:

“Legittima o bastarda, l’Italia d’oggi è la figlia di quella del Risorgimento, ed è quindi in questo periodo che ne vanno cercati i caratteri e le malformazioni. Se siamo fatti in un certo modo è perché il Risorgimento si fece in un certo modo. E siccome per me la Storia non è che la ricerca nel passato dei perché del presente, ho sentito il dovere, per questa fase, di spingere lo scandaglio più a fondo e di allargare il panorama”.

Come gli si può dar torto? Il suo “metodo” di lavoro era abbastanza noto: ha raccontato la Storia senza peli sulla lingua, differenziandosi, di molto, dalle edulcorate narrazioni ufficiali che gli accademici (i “parrucconi”, come li chiamava lui) hanno sciorinato ai quattro venti, a cominciare dalle scuole, di ogni ordine e grado, e dalle Università.

Il racconto montanelliano è stato coerente, fino all’ultimo. Il grande Indro, con la sua “isolata” scelta di campo e con l’appartenenza all’esiguo partito degli Apoti, ovvero il partito di “quelli che non la bevono”, ha “spogliato” la storia di tanti orpelli e “falsità” elevati al rango di inossidabili “certezze”. Procurandosi non poche inimicizie e rimbrotti non del tutto disinteressati.

Purtroppo, dopo di lui, sono stati pochi gli storici che hanno proseguito la via dello “scandaglio”, per rendere la storia credibile, accessibile, meno banale, densa di curiosità e passione civile. Intendiamoci: si può condividere o no la “fatica” di Montanelli, ma nessuno può negare che è stato lui che ha aperto una prospettiva nuova per la storiografia italiana. La quale non è più quella di mezzo secolo fa, ma non è, ancora, nemmeno quella che, soprattutto i giovani, vorrebbero che fosse: non di parte, oggettiva, convincente, documentata, non dogmatica, pragmatica, libera, plurale, che privilegia la “ragione” e il “dubbio” al servizio della verità.

Con queste caratteristiche, probabilmente, aumenterebbe la platea dei lettori e l’interesse per la storia “maestra di vita” che ci permetterebbe, attraverso la conoscenza di un “passato” non strumentalizzato, di comprendere il “presente” e, forse, di prefigurare un “futuro” scevro d’incognite.

Purtroppo, stando alla qualità di certa storiografia, di certi programmi scolastici o di quello che ci propinano sia i media che la propaganda politica, si è ben lontani da tale obiettivo. Per non parlare di istituzioni culturali, locali e centrali, Regioni e Comuni che destinano poche risorse alla conoscenza della storia e alla promozione di attività museali (la Regione siciliana, ad esempio, disattende senza vergogna la legge n.9 del 2011 che prevede l’insegnamento nelle scuole dell’Isola della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano).

E quando qualcosa si riesce a combinare (anche con il contributo di privati), ecco che vengono allestiti o completati, prevalentemente, Musei del Risorgimento dove sono raccolte ed esposte al pubblico collezioni di cimeli, opere d’arte, documenti, libri e oggetti vari, tutti finalizzati ad esaltare il ruolo dei “vincitori” e dei suoi esponenti più rappresentativi, compresi quelli che si sono macchiati di crimini indicibili e di beceri trasformismi conditi di mazzette e posti di comando.

Più che musei di storia del Risorgimento, dove dovrebbero albergare sobrietà, pluralismo, obiettività e culto del vero, sembrano luoghi dove l’agiografia e l’idolatria, la propaganda, la mummificazione dei reperti, la ottocentesca visione elitaria e di casta degli avvenimenti e delle “eroiche” figure, siano le uniche chiavi di lettura di un periodo storico complesso, contraddittorio ed ancora scarsamente analizzato per puro calcolo di convenienza.

Colpisce l’unidirezionalità della impostazione del “percorso” e del “racconto” storico. Non un accenno ai “vinti”, ai perdenti, agli sconfitti, agli “altri”, ai loro dolori, ai loro simboli, ai loro ideali, alle loro carte, alle delusioni, alle loro testimonianze (in fondo, accanto agli immancabili “filibustieri”, c’era anche una moltitudine di patrioti di segno opposto, con cultura, ideali e ruolo sociale degni di considerazione ancorché  “sbagliati” o anacronistici ).

Musei di storia “ufficiale”, granitici, dove non c’è spazio per accenni a “versioni” alternative seppur accertate e documentate. Questo passa il convento: prendere o lasciare.

Così operando si alimentano visioni distorte della storia, ci si allontana dalla verità senza aggettivi, si uccide il pluralismo e si creano fratture difficilmente sanabili. L’Italia ha bisogno di unità e di una identità condivisa. La “ghettizzazione” degli Apoti genera polemiche e, al tempo stesso, falsa il confronto civile e la storia, perpetua il conflitto come elemento distintivo di un Paese che si dimena fra intolleranza e speciose divisioni fra “buoni” e “cattivi”, dove i “buoni” hanno sempre ragione e dettano l’agenda dei lavori cui, i senza nome che non hanno “certezze”, devono adeguarsi, pena l’espulsione dal consorzio civile (persino la recentissima balzana proposta, del vertice di una delle tante costose Autorità di Garanzia, d’imbavagliare il web e la libertà di espressione è finalizzata a consolidare la supremazia di un Potere sempre più autoreferenziale e irragionevole che non  ammette “sviamenti” o dissensi).

Nei musei ci sono, comunque e al netto dei materiali-zavorra, testimonianze del passato che possono far comprendere meglio il presente. Ma se non vengono integrate, in egual misura, da altre opposte testimonianze si rischia d’inficiare tutto  veicolando un “pensiero unico” già abbondantemente affermato nelle scuole  e nei testi dei “regi storiografi”.

Suvvia, le autorità preposte alla diffusione e alla conoscenza della cultura e della storia si adoperino, prima che nascano come funghi i “Musei di controstoria del Risorgimento”, affinché in quelli funzionanti “acceda” il pluralismo che faccia giustizia delle falsità spacciate per verità.

Nei musei di storia deve essere bandito il racconto (plastico) a senso unico, dando voce e dignità (di essere esposto) a tutto ciò che fino ad oggi è stato occultato e deriso, per motivi non sempre nobili. Musei del Risorgimento, dunque, aperti e dinamici dove, auspichiamo ci siano spazi per una storia che accomuni tutti gli italiani. Ma anche luoghi di rappresentazione, plurale e razionale, di cimeli e materiale documentario come scuola di vita e di conoscenza nel senso più alto e nobile.

Allargare il panorama della storia, come ammoniva Montanelli, ormai è diventato quasi un dovere civile. Perdersi in chiacchiere, in questo momento, significa rischiare di andare verso l’imprevedibile, con gravi e profonde lacerazioni del tessuto democratico nazionale.

La vicenda dei Musei del  Risorgimento può sembrare poca cosa, anche se, a nostro avviso, è l’inizio di un lungo percorso il cui approdo è un Paese e una Regione più civili e ben governati, nei quali, forse, non si è definitivamente smarrito il senso della Storia con la “S” maiuscola, scritta congiuntamente da vinti e vincitori.

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  • Condivido appieno quanto scritto dall'autore. Io stesso, che nel mio piccolo mi interesso di storia locale, e raccolgo documentazioni fotografiche della storia Palermitana degli ultimi 150 anni, non posso rimanere indifferente di fronte alla completa assenza di documentazioni che attestino, per quanto riguarda la Sicilia, l'unita' d'Italia vista dal punto di vista dei Borboni e del loro Regno, che comunque fu un Regno ricco, florido e progressista,a differenza di quello Savoiardo...
    Per non parlare della completa assenza di un educazione scolastica,
    nei confronti degli studenti liceali,
    della cultura,storia,e etnoantropologia (Aka demopsicologia) Siciliana, che nulla ha da invidiare a quella Fiorentina ecc che viene invece SEMPRE insegnata nelle scuole...
    Noi siamo la conseguenza di quello che i nostri antenati furono, ed e' giusto e sacrosanto che il nostro passato venga custodito,salvaguardato,diffuso e insegnato, facendosene vanto, al fine di lasciare qualcosa a chi verra' dopo di noi.
    Non per niente, "historia magistra vitae".
    Con l'aupicio che chi puo' fare qualcosa faccia, porgo i miei saluti all'autore, chiaramente persona di viva intelligenza e cultura. Luca Cono Drago

  • Che sia stato Montanelli, che non era affatto uno storico e lui stesso ne era consapevole, ad essere uno dei primi a segnalare quali furono i limiti del Risorgimento italiano, è una affermazione che lascia il tempo che trova; basti leggere quello che dicevano Oriani, Missoroli e il Gramsci dei quaderni del carcere; in ogni caso il Risorgimento ha una lunga storia che risale ai tempi dell'età napoleonica da quando il Re di Napoli Gioacchino Murat fece pubblicare il Proclama di Rimini nel quale auspicava, dopo secoli di dominazione straniera, la nascita di una nazione come quella italiana (con capitale Napoli); Proclama in anticipo sui tempi, talmente in anticipo da risultare fallimentare; difatti, sappiamo tutti come finì il tentativo murattiano di ripetere le gesta dell'illustre cognato di sbarcare in Calabria (forse a Napoli sarebbe stato diverso, Gioacchino era amato dai napoletani).

    Sacrificio che diventerà seminale nei decenni successivi (si pensi al 1848 e alle tragiche vicende della Repubblica Romana) e alla nascita del partito murattiano che avrebbe dovuto sostituire i Borboni, e che non decollò mai a causa dell'inadeguatezza del figlio di Gioacchino Murat, il secondogenito Luciano, personalità inadeguata e non all'altezza del padre e del fratello primogenito Achille scomparso negli USA agli inizi degli anni 40 del XIX secolo.

    Più che cercare di fare una controstoria, che non ha alcuna ragione di esistere, perché si basa su una fiaba priva di fonndamento come quella dell'età dell'oro borbonica, sarebbe lecito aspettarsi un approfondimento delle questioni che hanno permesso al divorzio tra l'isola e il regno di Napoli, il murattismo e la nascita del partito murattiano, nonché il fallimento del tentativo di costituzionalizzare il regno di Napoli (i Borbone erano famosi per concedere e revocare le Costituzioni giurando e spergiurando in nome di Dio).

    Questo dovrebbero farlo storici e studiosi seri di professione e non giornalisti con vocazione allo scoop che s'improvvisano storici di mestiere e che scrivono libri pseudostorici che non hanno alcun valore sia fattuale che storiografico, essendo questi sono la summa delle peggiori dicerie e maldicenze clericali nei confronti dei protagonisti del Risorgimento.

    Se si escludono squallidi pettegolezzi, nulla di nuovo ha portato la cosiddetta controstoria.

  • Gentile sig. Fulgenzio, che “Gioacchino era amato dai napoletani” è una sua legittima opinione tuttavia contestata dai fatti e dalla storia se è vero, come è vero, che Napoli si ribellò aspramente al regime murattiano ammantato del falso e subdolo motto “Libertè, Egalitè e Fraternitè”, riportando i Borbone sul trono. La contro storia che a suo avviso “…non ha alcuna ragione di esistere”, ne ha ragione eccome. Il Regno delle Due Sicilie probabilmente non era il “paradiso in terra”, ma era certamente, come è già stato ricordato e ormai ampiamente documetato, un florido regno all’avanguardia in numerosissimi settori (la invito a verificare ed approfondire). Come la invito anche ad approfondire il perché, a suo dire, i “… Borbone erano famosi per concedere e revocare le Costituzioni giurando e spergiurando in nome di Dio”; ed in particolare ad approfondire chi erano i loro nemici che erano da individuare non certo nel popolo; una indagine sulla nobiltà dell’epoca, soprattutto palermitana, e sulla massoneria, allora come oggi imperante, le potrebbero essere di aiuto. Cordialità.

    • Non fu il popolo napoletano a far decadere Murat dal suo regno, furono le potenze europee a Vienna, dopo il fallimento della campagna murattiana contro l'Austria nella battaglia di Tolentino.

      La restaurazione avvenne sotto l'egida austriaca e inglese non per volontà popolare. Poi la vicenda di Pizzo Calabro è nota ed è noto il modo in cui fu svolto il processo e il pretesto giuridico per fucilare Murat utilizzando la legge che Murat stesso a sua volta fece approvare nel Codice penale, da cui la vulgata popolare napoletana secondo la quale Gioacchino facette la legge e Gioacchino fu impiso.

      Per il resto non discuto su presunti primati, perché, scusate la grossolanità, ma non ho l'età del fanciullo che fa la gara con i suoi coetanei a chi l'ha più grossa...

      Cordialità

      Fulgenzio

      • Mi spiace per la svista: il periodo murattiano cessò a seguito del Congresso di Vienna. Il popolo ridiede il trono ai Borbone con i Sanfedisti del Cardinale Ruffo nel 1799.

        • Anche in quel caso fu determinante l'appoggio politico ed economico dell'Inghilterra tramite l'ammiraglio Nelson.
          Senza l'appoggio inglese il Cardinale non avrebbe mai potuto armare i lazzaroni.

          E poi sulla tragica vicenda della Repubblica Napoletana basti leggere cosa scrisse il Cuoco nel suo fondamentale Saggio sulla Rivoluzione e le tesi storiografiche che influenzarono il Gramsci (primo fra tutti il concetto di rivoluzione passiva).

          Come vede non esiste una controstoria, esiste un'analisi critica della storia; non i punti di vista. Altrimenti si cadrebbe nel relativismo e nella confusione storica.

          Suo

          Fulgenzio

          • Che l'Inghilterra sia la vera regista delle vicende italiane è cosa nota, (compresa la fine delle Due Sicilie, la nascita dello stato italiano e la sua odierna fine - vedi vicenda del Britannia-). Ma nel 1799 fu il popolo che materialmente pose termine alla truffa della "repubblica napoletana". Ma di tutto ciò, nei musei cosiddetti "risorgimentali", non si deve parlare. Come non si deve parlare della rivolta del Sette e mezzo, di Angelina Romano e altri bambini fucilati, di Pontelandolfo, Casalduni e Campolattaro, di Bronte, della Legge Pica, di ciò che i soldati napoletani e siciliani dovettero patire una volta presi prigionieri, delle terre promesse da Garibaldi ai contadini siciliani e poi svendute al migliore offerente, del "museo" Lombroso e di tanto, tanto, tanto altro.
            Finora la storia è stata scritta dai vincitori; è tempo che si riscriva per ciò che veramente è stata: una vile aggressione e una brutale annessione.
            Poi, ovviamente, ognuno è libero di ontinuare a credere ciò che vuole.

          • Vorrei puntualizzare una cosa sul ruolo di Nelson e sulla fine della Repubblica Partenopea: la spropositata vendetta politica che colpì i protagonisti della Repubblica con la condanna a morte di 153 tra uomini e donne che aderirono entusiasticamente agli ideali della Repubblica napoletana, e il ruolo che ebbe Nelson nel volere punire senza pietà l'ammiraglio Caracciolo facendolo impiccare nella sua nave come se fosse l'ultimo dei gaglioffi.
            La reazione di Nelson fece venir meno alla parola data dal Cardinale Ruffo di non scatenare ritorsioni contro i repubblicani (in ogni caso il Cardinale si rimangiò la parola data e questo per un uomo di Chiesa è sicuramente un grave peccato, se il poeta Dante fosse vissuto nel XIX secolo l'avrebbe sicuramente condannato all'inferno tra gli spergiuri).

            Che non si sia mai parlato del brigantaggio nei libri di testo, fenomeno nel quale la Sicilia fu completamente esclusa insieme a Basilicata e Puglia, essendo circoscritto in Calabria, alcune zone della Campania e dell' Abruzzo, è notizia priva di fondamento. Sin dagli anni 70 i libri di testo ne parlano, come ne parlano della Legge Pica che aveva lo scopo di evitare degenerazioni e abusi da parte dell'esercito e di colpire fenomeni trasversali come la Camorra che in quelle realtà spadroneggiava (si leggano le Lettere Meridionali di Villari )... In ogni caso per capire meglio le dinamiche del Sud e dei fenomeni mafiosi bisognerebbe leggere i resoconti che fecero Sonnino e Franchetti nei loro viaggi nel Sud e in Sicilia per capire le reali condizioni del mezzogiorno d'Italia e che sono ancora oggi fondamentali per comprendere le complessità di un periodo storico. Ergo, non ha senso parlare di controstoria, ma di analisi storica per fare emergere la verità. Tutti i periodi storici hanno le loro leggende nere; mi riferisco alla Vandea in Francia e alla politica del Terrore giacobino, ma nessuno in Francia mette in discussione l'importanza dei valori universali della Rivoluzione francese; operazione ben diversa perché quei si vuole criminalizzare un fenomeno nazionale come il Risorgimento che ebbe l'importanza di far finire, per dirla con il Gramsci dei quaderni dal carcere gli staterelli stenterelli. Gramsci, per concludere non ha mai condannato il Risorgimento, ha aspramente e duramente criticato la posizione politica del partito d'azione che non fu in grado di reagire all'egemonia politica cavouriana, tanto è vero che uno dei maggiori problemi del Risorgimento fu la mancata attuazione della riforma agraria (la terra ai contadini) e su questo negli ultimi 50 ann si è discusso del valore delle tesi storiografiche gramsciane, tesi che secondo lo storico siciliano Rosario Romeo non potevano essere attuate perché la borghesia isolana, essendo in massima parte legata sui beni dela terra, non avrebbe potuto attuare una riforma agraria contro se stessa perché avrebbe inpedito a sua volta di creare, pur con limiti e contraddizioni, le premesse per il decollo industriale e il passaggio dalle piccole proprietà all'industrializzazione vera e propria.

  • Ovviamente a riportare sul trono di Napoli Ferdinando di Borbone non fu affatto “il popolo napoletano”, ma furono le pressioni congiunte esercitate durante il Congresso di Vienna dai governi francese, russo, inglese ed in ultimo dal Metternich, che pure in un primo momento si era mostrato favorevole a che Murat restasse al suo posto.
    Sulle Due Sicilie come Stato “ricco, florido e progressista”, invito a leggere almeno lo studio di Alessandro Marra, La Società Economica di Terra di Lavoro, Franco Angeli, sperando di non dover più sentir ripetere la favola della “terza potenza industriale d’Europa” conseguita a Parigi nel 1855 o forse 1856.

    Infine, i siciliani contro i Borbone si batterono per quarant'anni., anche perchè il governo borbonico "preferì lasciare l'isola nel suo stato di paese prevalentemente agricolo, servendosene per lo sviluppo dei territori" peninsulari (Cito da Capecelatro-Carlo, Contro la questione meridionale, p. 55). È curioso che in un blog dedicato all'orgoglio siciliano si assumano posizioni esplicitamente neo-borboniche. A quando la proposta di sostituire “via Nicolò Garzilli” con “via Del Carretto” ?

  • Via Del Carretto?

    Il Ministro borbonico che nel 1828 fece distruggere la città di Bosco facendone deportare gli abitanti?

    Andiamo bene!

    • Francesco Saverio Del Carretto, il ministro di polizia che stroncò in un bagno di sangue la rivolta siracusana del 1837: ma. mio caro Fulgenzio, per i neo-borbonici non può che essere un eroe.

  • Picciotti, ci voleva il sempre acuto ed incisivo Buscemi a dare il "la" sull'argomento perché si scatenasse e si desse fiato a tutta la scala musicale? Dopo il contributo sul passato aspettiamo ora un suo pungente spaccato sulle miserie contemporanee della nostra povera terra, martoriata da governi di nani, cortigiani e ballerini di turno, di cui Saruzzo campeador, il selfie rivoluzionaro, incarna il degno erede dei suoi peggiori predecessori. Che aggiungere in più di fronte all'odierno squallore se non concordare con Peppino De Filippo in un famoso film con Totò . E con questo ho detto tutto !

  • Diffidare dalle verità sofistiche e insinuare il dubbio per sviscerare fatti e avvenimenti, affinché ne venga rivelata la vera natura è doveroso lavoro che spetta allo storico, ma è anche la giusta via che deve perseguire chiunque si approcci alla conoscenza. Si tratta di una via tortuosa specialmente se intrapresa da giovani generazioni che si trovano, per ovvie ragioni, sempre più distanti da accadimenti storici intrinsecamente legati al presente e quindi imprescindibili per la sua comprensione. L'articolo è una giusta ed esplicita critica al un sistema scolastico che non mira alla conoscenza, ma ad una mera ed esigua acquisizione di nozioni; non serve essere degli esperti per rendersi amaramente conto di quanto i programmi didattici ad ogni grado di istruzione siano scarni. Mi auguro, come auspica lo stesso autore, che la legge n.9 del 2011 sia applicata e che si operi in altri fronti per migliorare la formazione e creare una consapevole memoria storica.

  • Gentile sig. Marinelli, tralasciando l'aspetto dei primati Duosiciliani, come ho già scritto ampiamente documentati, e nel ringraziarla per il suggerimento di lettura, sulla reale situazione politica ed economica del regno desidero ricambiare suggerendo a mia volta lettura di "Storia della Sicilia medievale e moderna" di Denis Mac Smith (che penso conoscerà, visto che si tratta di uno dei più autorevoli storici a livello mondiale), giunto alla XVI^ edizione, e esegnatamente dalla pagina 542 alla pagina 548. Purtroppo, questo testo, insieme a numerosi altri, non concorda con le sue tesi, infatti da quella lettura, ma anche da altre, scorpirà che non furono "i siciliani" a lottare contro i Borbone, ma la nobiltà e segnatamente quella palermitana. Il popolo semmai, come sempre accade, fu strumentalizzato per scopi e obiettivi che nulla avevano a che vedere con il reale benessere dello stesso.

  • Egregio signor Maduli, il libro di Mack Smith è vecchio di quarant'anni, e già quando venne pubblicato suscitò aspre critiche come è possibile constatare andando e leggere le recensioni apparse allora. Rosario Romeo, che di storia siciliana qualcosa sapeva, scrisse, certo esagerando, che a quel libro andava premessa l'avvertenza abitualmente usata per taluni film: ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale". In ogni caso, nel cap. XLVI - non cito la pag. per evitare confusione tra le diverse ristampe - Mack Smith dice: "Ferdinando e Francesco II, che divenne re nel 1859, furono sovrani incapaci che persero sempre più i contatti con la nuova epoca di liberalismo e nazionalismo. [...] Il loro era uno Stato dispotico, basato su una censura fastidiosa ...". Che la rivoluzione separatista del 1820, le congiure del decennio seguente, la rivoluzione del 1848, i tentativi di Meccio, Di Marco, Garzilli, Spinuzza e tutti gli altri che sarebbe troppo lungo ricordare e che per lei forse sono loschi figuri opportunamente messi in condizione di non nuocere, le insurrezioni che punteggiano il periodo autunno 1859-primavera 1860 fossero organizzati dalla nobiltà palermitana è una affermazione - spiace dirlo - campata per aria. Potrei fornirle una vastissima bibliografia in proposito ma temo sarebbe fatica sprecata.
    Sui primati, che di solito hanno la consistenza del terzo posto come potenza industriale delle Due Sicilie inventato dai neo borbonici, la penso come Fulgenzio che ne ha scritto in un altro commento. Mi limito ad un solo, celebre esempio. La ferrovia Napoli Portici, fu costruita da una società francese - la sede sociale era a Parigi, in rue S. Guillaume 29 -, con capitali francesi, su progetto francese, realizzato in massima parte da ingegneri francesi: siamo proprio sicuri che si sia trattato di un successo borbonico ?
    Cordialità

    • Il fatto che un libro sia "vecchio" di quaranta anni non è certo un demerito, semmai il contrario. Sulle critiche al testo, delle quali sono a conoscenza, mi limito a segnalare che molto, ma molto spesso, quando certi testi affermano certe scomode verità (confermate o addirittura precedute da altri numerosi studiosi - Carlo Alianello, Nicola Zitara, solo per citarne alcuni), queste, se non supportate da prove documentali, acquistano solamente il sapore di un vano tentativo di rivalsa. E di documenti a riprova di quanto affermato dal Mac Smith ne esistono a iosa, anche in rete; basta cercarli. Sul fatto che le Due Sicilie siano state o meno "la terza potenza industriale", senalo di non aver mai fatto una tale affermazione. Sugli altri primati, numerosissimi ripeto, basta indagare e verificare. Sulla toponomastica del Comune di Palermo preferisco non pronunziarmi; chi lo crede opportuno potrà fare liberamente le proprie ricerche, analogie e collegamenti... Infine, per come ho già scritto ad altro interlocutore, non desiderando abusare della cortesia della Redazione che Ci ospita e ritenendo infruttuoso il prosieguo di questo dibattito, passo a salutarla cordialmente.

      • Mack Smith ama molto romanzare la storia, ed è per questo che metodologicamente è discutibile, come sono discutibili la maggior parte dei libri di storia scritti da coloro che si definiscono neoborbonici...

  • Avrei tanto, ma tanto da obiettare su quanto da lei affermato (sul brigantaggio secondo lei inesistente in Sicilia suggerisco far gli altri "Castellammare del Golfo, 1^ gennaio 1862" o "Turriciano, brigante o partigiano" o ancora "Centoeuno... Centouno" di Francesco Bianco nonchè, in relazione a Puglia e Basilicata, i numerosissimi testi molto ben documentati sul brigantaggio in quelle e altre regioni), ma mi limito solamente a prendere atto che per lei l'affermazione di Gramsci secondo la quale “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare chiamandoli briganti”, sia solo una "aspra e dura critica". Io penso sia molto di più e cioè la semplice e limpida affermazione di una verità feroce e inconfutabile. Ma non desiderando abusare della cortesia e dell'ospitalità della redazione che Ci ospita e ritenendo che il prosieguo di questa discussione sia divenuto quanto meno improduttivo, passo a salutarla cordialmente.

    • Si parte sempre dal presupposto che il brigantaggio sia una piaga sociale come oggi potrebbe essere la mafia e la camorra, ma non voglio discutere di questo perché non amo ripetere le stesse cose, prerirei partire dalla frase, attribuita a Gramsci apparsa nel quotidiano l'Avanti nel 1920 in un articolo non firmato che sembrerebbe attribuito allo stesso Gramsci...

      Per quanto riguarda l'articolo lo scrittore polemizzava con la Stampa giolittiana, erede della vecchia destra liberale cavouriana; mastiamo parlando degli anni 20 anni nei quali il gruppo di Ordine Nuovo di cui Gramsci faceva parte proponeva la sovietizzazione delle fabbriche e l'occupazione delle terre, critico della stampa giolittiana nemica del proletariato (i Lanzi)...

      Il Gramsci che si occupa del Risorgimento è quello del quaderno 19 che riguardava la riforma agraria, la rivoluzione passiva, l'egemonia dei gruppi moderati nei confronti dei democratici etc... e della mancata rivoluzione sociale dei contadini (Gramsci era un bolscevico). Non a caso, Romeo, il siciliano Romeo, nel suo libro il Risorgimento in Sicilia e Risorgimento e Capitalismo sostiene che le tesi storiografiche del grande pensatore sardo non erano adeguate a causa del profondo legame esistente in Sicilia tra borghesia e mondo agrario per cui appariva poco realistico, secondo Romeo, l'auspicata Riforma agraria gramsciana che avrebbe permesso il compimento definitivo dell'unificazione.

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