I Musei del Risorgimento? Debbono raccontare la verità, non coprire le nefandezze dei vincitori

3 gennaio 2017

Nei Musei del Risorgimento documenti, simboli e memorie devono testimoniare, equamente e senza preconcetti, ragioni e vicissitudini dei “vincitori” e del “perdenti”, protagonisti di uno dei periodi più tormentati della storia nazionale. Memoria collettiva e verità fattuale, se condivise e depurate dalla falsa e ripetitiva propaganda, potrebbero, dopo oltre 150 anni, far giustizia dei luoghi comuni e delle interessate travisazioni che, ancora oggi, avvelenano i rapporti sociali e la coesione nazionale

di Lino Buscemi

Indro Montanelli in una “avvertenza” che risale al 1972 contenuta nel volume dedicato a “L’Italia del Risorgimento”, fulminò il lettore con questa frase:

“Legittima o bastarda, l’Italia d’oggi è la figlia di quella del Risorgimento, ed è quindi in questo periodo che ne vanno cercati i caratteri e le malformazioni. Se siamo fatti in un certo modo è perché il Risorgimento si fece in un certo modo. E siccome per me la Storia non è che la ricerca nel passato dei perché del presente, ho sentito il dovere, per questa fase, di spingere lo scandaglio più a fondo e di allargare il panorama”.

Come gli si può dar torto? Il suo “metodo” di lavoro era abbastanza noto: ha raccontato la Storia senza peli sulla lingua, differenziandosi, di molto, dalle edulcorate narrazioni ufficiali che gli accademici (i “parrucconi”, come li chiamava lui) hanno sciorinato ai quattro venti, a cominciare dalle scuole, di ogni ordine e grado, e dalle Università.

Il racconto montanelliano è stato coerente, fino all’ultimo. Il grande Indro, con la sua “isolata” scelta di campo e con l’appartenenza all’esiguo partito degli Apoti, ovvero il partito di “quelli che non la bevono”, ha “spogliato” la storia di tanti orpelli e “falsità” elevati al rango di inossidabili “certezze”. Procurandosi non poche inimicizie e rimbrotti non del tutto disinteressati.

Purtroppo, dopo di lui, sono stati pochi gli storici che hanno proseguito la via dello “scandaglio”, per rendere la storia credibile, accessibile, meno banale, densa di curiosità e passione civile. Intendiamoci: si può condividere o no la “fatica” di Montanelli, ma nessuno può negare che è stato lui che ha aperto una prospettiva nuova per la storiografia italiana. La quale non è più quella di mezzo secolo fa, ma non è, ancora, nemmeno quella che, soprattutto i giovani, vorrebbero che fosse: non di parte, oggettiva, convincente, documentata, non dogmatica, pragmatica, libera, plurale, che privilegia la “ragione” e il “dubbio” al servizio della verità.

Con queste caratteristiche, probabilmente, aumenterebbe la platea dei lettori e l’interesse per la storia “maestra di vita” che ci permetterebbe, attraverso la conoscenza di un “passato” non strumentalizzato, di comprendere il “presente” e, forse, di prefigurare un “futuro” scevro d’incognite.

Purtroppo, stando alla qualità di certa storiografia, di certi programmi scolastici o di quello che ci propinano sia i media che la propaganda politica, si è ben lontani da tale obiettivo. Per non parlare di istituzioni culturali, locali e centrali, Regioni e Comuni che destinano poche risorse alla conoscenza della storia e alla promozione di attività museali (la Regione siciliana, ad esempio, disattende senza vergogna la legge n.9 del 2011 che prevede l’insegnamento nelle scuole dell’Isola della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano).

E quando qualcosa si riesce a combinare (anche con il contributo di privati), ecco che vengono allestiti o completati, prevalentemente, Musei del Risorgimento dove sono raccolte ed esposte al pubblico collezioni di cimeli, opere d’arte, documenti, libri e oggetti vari, tutti finalizzati ad esaltare il ruolo dei “vincitori” e dei suoi esponenti più rappresentativi, compresi quelli che si sono macchiati di crimini indicibili e di beceri trasformismi conditi di mazzette e posti di comando.

Più che musei di storia del Risorgimento, dove dovrebbero albergare sobrietà, pluralismo, obiettività e culto del vero, sembrano luoghi dove l’agiografia e l’idolatria, la propaganda, la mummificazione dei reperti, la ottocentesca visione elitaria e di casta degli avvenimenti e delle “eroiche” figure, siano le uniche chiavi di lettura di un periodo storico complesso, contraddittorio ed ancora scarsamente analizzato per puro calcolo di convenienza.

Colpisce l’unidirezionalità della impostazione del “percorso” e del “racconto” storico. Non un accenno ai “vinti”, ai perdenti, agli sconfitti, agli “altri”, ai loro dolori, ai loro simboli, ai loro ideali, alle loro carte, alle delusioni, alle loro testimonianze (in fondo, accanto agli immancabili “filibustieri”, c’era anche una moltitudine di patrioti di segno opposto, con cultura, ideali e ruolo sociale degni di considerazione ancorché  “sbagliati” o anacronistici ).

Musei di storia “ufficiale”, granitici, dove non c’è spazio per accenni a “versioni” alternative seppur accertate e documentate. Questo passa il convento: prendere o lasciare.

Così operando si alimentano visioni distorte della storia, ci si allontana dalla verità senza aggettivi, si uccide il pluralismo e si creano fratture difficilmente sanabili. L’Italia ha bisogno di unità e di una identità condivisa. La “ghettizzazione” degli Apoti genera polemiche e, al tempo stesso, falsa il confronto civile e la storia, perpetua il conflitto come elemento distintivo di un Paese che si dimena fra intolleranza e speciose divisioni fra “buoni” e “cattivi”, dove i “buoni” hanno sempre ragione e dettano l’agenda dei lavori cui, i senza nome che non hanno “certezze”, devono adeguarsi, pena l’espulsione dal consorzio civile (persino la recentissima balzana proposta, del vertice di una delle tante costose Autorità di Garanzia, d’imbavagliare il web e la libertà di espressione è finalizzata a consolidare la supremazia di un Potere sempre più autoreferenziale e irragionevole che non  ammette “sviamenti” o dissensi).

Nei musei ci sono, comunque e al netto dei materiali-zavorra, testimonianze del passato che possono far comprendere meglio il presente. Ma se non vengono integrate, in egual misura, da altre opposte testimonianze si rischia d’inficiare tutto  veicolando un “pensiero unico” già abbondantemente affermato nelle scuole  e nei testi dei “regi storiografi”.

Suvvia, le autorità preposte alla diffusione e alla conoscenza della cultura e della storia si adoperino, prima che nascano come funghi i “Musei di controstoria del Risorgimento”, affinché in quelli funzionanti “acceda” il pluralismo che faccia giustizia delle falsità spacciate per verità.

Nei musei di storia deve essere bandito il racconto (plastico) a senso unico, dando voce e dignità (di essere esposto) a tutto ciò che fino ad oggi è stato occultato e deriso, per motivi non sempre nobili. Musei del Risorgimento, dunque, aperti e dinamici dove, auspichiamo ci siano spazi per una storia che accomuni tutti gli italiani. Ma anche luoghi di rappresentazione, plurale e razionale, di cimeli e materiale documentario come scuola di vita e di conoscenza nel senso più alto e nobile.

Allargare il panorama della storia, come ammoniva Montanelli, ormai è diventato quasi un dovere civile. Perdersi in chiacchiere, in questo momento, significa rischiare di andare verso l’imprevedibile, con gravi e profonde lacerazioni del tessuto democratico nazionale.

La vicenda dei Musei del  Risorgimento può sembrare poca cosa, anche se, a nostro avviso, è l’inizio di un lungo percorso il cui approdo è un Paese e una Regione più civili e ben governati, nei quali, forse, non si è definitivamente smarrito il senso della Storia con la “S” maiuscola, scritta congiuntamente da vinti e vincitori.

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