Questione meridionale e Autonomia siciliana dopo la vittoria dei No al referendum

6 dicembre 2016

La vittoria dei No al referendum che ha ‘cassato’ le riforme costituzionali proposte dal Governo Renzi deve servire anche a rilanciare i temi della questione meridionale. Dopo la stagione della Cassa per il Mezzogiorno e dell’Agensud, per il Meridione lo Stato italiano ha fatto poco o nulla. Tutto è stato delegato ai fondi europei. Il risultato è che il divario economico tra il Sud e il Centro Nord è cresciuto. Il ruolo dello Statuto siciliano, che va applicato anche, anzi soprattutto, nelle parti finanziarie

da Salvo Fanara
presidente dell’associazione culturale Arkos
riceviamo e volentieri pubblichiamo

Già negli anni immediatamente successivi all’unificazione italiana del 1861 si erano manifestati i segni delle differenze tra il Nord e il Sud del Paese. Le scelte politiche della monarchia sabauda non furono rivolte alla risoluzione del grave dislivello economico e sociale esistente tra le due aree dell’Italia, ma generarono delusione e malcontento tra la popolazione meridionale. Il nuovo Stato fu organizzato con un rigido  processo di centralismo non lasciando alcuno spazio all’autonomia regionale. Tale indirizzo politico investì negativamente l’ex Regno delle due Sicilie, avvalorando, oggi, la tesi a distanza di più di 150 anni che si fosse trattato di annessione di uno Stato legittimo più che di una unificazione. A tal riguardo, vale ricordare che il Regno Borbonico ebbe un suo splendore e che in Italia la prima linea ferroviaria vide la luce tra Napoli e Portici.

E’ con l’unità d’Italia che le regioni del Sud vedono chiudere le industrie e vengono investite dalla fuga nell’emigrazione nelle Americhe. Gli anni successivi marcarono con maggiore profondità il divario già evidenziato e la questione meridionale finì per diventare un problema fisiologico, una malattia inguaribile e da nascondere.

Nei primi decenni del Novecento, la ripresa di un acceso nazionalismo impedì di affrontare con chiarezza i termini della questione. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale si ripete la fuga migratoria.

La nascita della Repubblica fece risollevare i veli che nascondevano le condizioni di miseria del Mezzogiorno. La denuncia dell’arretratezza si accompagnò, in Sicilia, con una pur modesta riforma agraria del 1950 e con la richiesta di un intervento straordinario dello Stato nel Sud, dagli anni ’50 fino al 1992, anno di definitiva chiusura dopo un percorso trentennale della stagione legata agli interventi straordinari nel Mezzogiorno.

Per la cronaca, la cassa per il Mezzogiorno fino ai primi anni ’80 e l’Agenzia per il Mezzogiorno fino ai primi anni ’90 avrebbero dovuto avviare la modernizzazione e l’industrializzazione delle regioni meridionali: operazione che non è riuscita a dare l’impulso a diminuire il divario di sviluppo economico esistente tra il Sud e la parte più evoluta del Paese.

Nel corso degli anni Novanta la Questione Meridionale scompariva dalle priorità dell’agenda politica. Nelle istituzioni italiane si andava realizzando un disegno di riforma pensando di restituire autonomia di entrata e di spesa alle Regioni e agli Enti Locali, processo iniziato con il nuovo ordinamento delle autonomie locali nel 1990 e strutturato con le leggi Bassanini sulla Pubblica amministrazione e, poi, con la revisione delle norme di finanza pubblica indicato con la locuzione “federalismo fiscale”.

Si andava intanto rafforzandosi la convinzione che lo sviluppo economico del Mezzogiorno sarebbe passato a seguito del più grande piano di privatizzazione di banche e aziende pubbliche mai visto nella storia d’Italia, mentre per gli interventi dall’alto ci avrebbe pensato l’Europa con i fondi di Agenda 2000 e le successive programmazioni.

Dopo tre cicli di finanziamento europeo i Rapporti SVIMEZ 2012, 2013 , 2014 e 2015 hanno sancito l’aumento incolmabile di tutti i parametri del divario tra il Nord e il Sud, denunciando, inoltre, il processo di progressivo impoverimento demografico del Mezzogiorno e del fenomeno migratorio dei giovani del Sud. Non bisogna dimenticare che l’Italia continua a essere un contribuente netto dell’Unione Europea versando più di quanto viene investito nel nostro Paese e finendo per sostenere le regioni periferiche dell’Unione Europea in concorrenza con il nostro Mezzogiorno.

Oggi siamo di fronte alla questione meridionale europea che ha messo in evidenza la “mezzogiornificazione” delle periferie europee, dimostrando che con la moneta unica l’Europa sarebbe stata investita da intensi processi di concentrazione della produzione e dell’occupazione nei Paesi economicamente più forti, mentre le aree periferiche del Continente sarebbero state colpite da fenomeni di desertificazione produttiva e di migrazione verso l’estero.

L’unificazione europea non è ancor compiuta e già si è aperta una questione meridionale a livello continentale non solo in Italia, ma anche in Spagna, Portogallo e in maniera più grave in Grecia.

Oggi, lo stato dell’economia meridionale restituisce una fotografia impietosa e sottolinea la deriva delle regioni meridionali evidenziando il dissesto economico, povertà dilaganti e desertificazione industriale, delineando un crollo demografico e sociale.

Sono due milioni i giovani tra i 15 e i 34 anni delle regioni del Sud Italia che non lavorano e non studiano, un’ampia porzione di giovani tra disoccupazione e assenza di prospettive protese massicciamente verso una nuova emigrazione  operaia e verso la cosiddetta ‘fuga di cervelli’. Di questo passo, nel giro di qualche lustro, una metà del Paese apparirà sempre più invecchiata, spopolata e marginalizzata.

Cosa rimane oggi? Molto poco, dopo i rapporti allarmati anno dopo anno da CENSIS, ISTAT e SVIMEZ sulla deriva meridionale additano la responsabilità politica ai governi che avrebbero dovuto rimuoverne le cause.

Negli ultimi vent’anni è venuto meno uno spazio di confronto critico con la sfera politica. Occorre forse tornare a riflettere su come ripopolare questo vuoto di analisi e di confronto critico.

Bisogna tener conto che nel Mezzogiorno esistono spazi di vitalità economica, competenze ed energie morali e culturali capaci di guidare un nuovo processo di sviluppo.

La Sicilia, invece, per la sua storia plurimillenaria al centro del Mediterraneo all’apice della sua grandezza federiciana dello Stupor Mundi, e per la specialità giuridica di Regione Autonoma, a 70 anni  dalla nascita dello Statuto rimane ancora indietro. La parte finanziaria dello stesso Statuto non è stata applicata e quindi, oltre al danno arrecato per il mancato gettito di IVA e IRPEF dovuto dallo Stato come sancito nella Carta Autonomistica, si inserisce anche la beffa, causata da una classe politica miope, che ha sottratto alla Sicilia per la sua particolare posizione insulare ai margini dell’UE, il diritto, per le isole periferiche, di avere un’attenzione di vantaggio fiscale, così come disciplinato dalla normativa e dalle direttive comunitarie n° 918/83 e n°2504/88  n°112/2006/CE e n° 118/2008/CE e  n° 61/2013/EU già applicate per le Isole Canarie,  Azzorre e Cipro.

Concepire il futuro della Sicilia e dei suoi residenti in una zona di consumo franca dalle accise sulle merci e sui servizi e da un’imposta sul valore aggiunto e di aliquote sui redditi ridotte, significherebbe abbattere l’odierna oppressione fiscale. Opzione, questa, che determinerebbe lo sviluppo e il benessere per la Sicilia e un futuro  migliore per le giovani generazioni.

Mi torna doveroso sfatare un prezioso passaggio di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo Gattopardo:

“I Siciliani non vorranno mai migliorare, perché credono di essere perfetti, la loro vanità è più forte della loro miseria”.

Alla Sicilia serve una classe politica nuova che abbia in sé la coscienza di risvegliare l’orgoglio di una nazione siciliana da tanti lustri sopito. Oggi più che mai dobbiamo difendere lo Statuto Speciale dalla tentazione romana che ha proposto una ridefinizione e una riduzione al minimo della Carta Costituzionale Siciliana bocciata dal voto plebiscitario del 4 dicembre scorso.

 

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