Controstoria dell’impresa dei Mille 9/ Intermezzo in nero: i Fatti di Bronte

9 luglio 2016

A Bronte il “Pupo savoiardo”, al secolo Giuseppe Garibaldi, diede il meglio di sé reprimendo nel sangue una rivolta popolare che lo stesso capo dei Mille aveva, di fatto, provocato con un decreto che prometteva riscatto ai bisognosi e la divisione delle terre. Ma era solo una volgare presa in giro per ingraziarsi l’appoggio della popolazione. I fatti di Bronte costituiscono ancora oggi una grande vergogna. Ma ancora più vergognoso è che i Siciliani, ancora oggi, dedichino scuole, vie e piazze a quel miserabile di Garibaldi

E’ proprio vero che la farina del diavolo va sempre in crusca. Sapete certamente come il “Pupo savoiardo”, per la storia, Giuseppe Garibaldi, quando sbarcò con i Mille a Marsala, sapeva benissimo che, affinché la sua impresa avesse successo, gli sarebbe stato assolutamente necessario l’appoggio e la partecipazione attiva dei siciliani.

Questo sarebbe avvenuto solo se fosse stato accolto non solo come il liberatore dalla tirannide borbonica, ma anche come colui che poteva dare le possibilità di nascere a una nuova società, libera dalla miseria e dalle ingiustizie.

Con questo intento, il 2 giugno del 1860, aveva emesso un decreto nel quale prometteva soccorso ai bisognosi e la tanto attesa divisione delle terre.

Abbiamo ormai capito che, per i contadini e i piccoli borghesi siciliani, la parola libertà coincide con il concetto di possesso della terra. A mano a mano che i piemontesi avanzavano in Sicilia, i siciliani si rendevano conto che di quel bel proclama  non se ne sarebbe fatto nulla.

Nell’entroterra siciliano si erano, dunque, accese molte speranze di riscatto sociale da parte soprattutto della piccola borghesia e delle classi meno abbienti. A Bronte, sulle pendici dell’Etna, la contrapposizione fra la nobiltà latifondista rappresentata dalla britannica Ducea di Nelson proprietà terriera, e la società civile, era molto forte.

Il 2 agosto il malcontento popolare raggiunse il culmine e scattò la scintilla dell’insurrezione sociale. Fu così che vennero appiccate le fiamme a decine di case, al teatro e all’archivio comunale. Quindi cominciò una caccia all’uomo e ben sedici furono i morti fra nobili, ufficiali e civili, tra cui anche il barone del paese con la moglie e i due figlioletti, il notaio e il prete.

Il buon Abba che se ne stava tranquillo a Messina, parla di “case incendiate coi padroni dentro, gente sgozzata per le via, tumulti scellerati, divisione di beni (proprio così!), incendi, vendette, orge da oscurare il sole. Nei seminari, continua l’onesto cronista, i giovanetti trucidati a piè del vecchio Rettore; uno dell’orda è là che lacera coi denti il seno di una fanciulla uccisa” (anche splatter il Nostro!).

Il Comitato di guerra decise di inviare a Bronte un battaglione di garibaldini (di garibaldini!!) agli ordini di Nino Bixio per sedare la rivolta e fare giustizia in modo esemplare. Gli intenti di Garibaldi non erano solo volti al mantenimento dell’ordine pubblico, ma anche a proteggere gli interessi commerciali e terrieri dell’Inghilterra (Bronte apparteneva agli eredi di Nelson), che aveva favorito lo sbarco dei Mille, e soprattutto a calmarne l’opinione pubblica.

Il tribunale misto di guerra, in un frettoloso processo durato meno di quattro ore, giudicò ben 150 persone e condannò alla pena capitale l’avvocato Nicolò Lombardo (che, acclamato sindaco dopo l’eccidio, venne ingiustamente additato come capo rivolta, senza alcuna prova), insieme con altre quattro persone: Nunzio Ciraldo Fraiunco, Nunzio Longi Longhitano, Nunzio Nunno Spitaleri e Nunzio Samperi.

La notte che precedette la fucilazione, una brava donna chiese il permesso di portare delle uova al Lombardo, ma il braccio destro di Garibaldi, nel respingerla malamente, le rispose che il detenuto non aveva bisogno di uova poiché l’indomani avrebbe avuto due palle piantate in fronte.

All’alba del 10 agosto, i condannati vennero portati nella piazzetta antistante il convento di Santo Vito e collocati dinanzi al plotone d’esecuzione. Alla scarica di fucileria morirono tutti, ma nessun soldato ebbe la forza di sparare a uno dei condannati, il Fraiunco, “lo scemo del villaggio” che risultò incolume. Il poveretto, nell’illusione che la Madonna Addolorata lo avesse miracolato, si inginocchiò piangendo ai piedi di Bixio invocando la vita. Ricevette una palla di piombo in testa e così morì, colpevole solo di aver soffiato in una trombetta di latta.

Per ammonizione, i cadaveri furono lasciati esposti al pubblico insepolti (Ecco la nuova civiltà piemontese!).

Qui potete trovare le prime otto puntate della nostra Controstoria dell’impresa dei Mille in Sicilia

Foto tratta da gabriellagiudici.it

 

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