L’anello di Policrate, ovvero i sacrifici fatti nel proprio interesse

6 maggio 2016

Leggende, anelli magici, miti tra Gige, re Salomone e Natham. Storie affascinanti. Racconti che ci dicono una grande verità: e cioè che i sacrifici, per essere ben accetti alla divinità, devono essere fatti con cuore puro e per gli altri, non per sé

Nella antica mitologia l’anello era il simbolo tradizionale dell’eternità e il simbolo  del  cerchio  in  un oggetto dai  molti  poteri. Molte  leggende  e  molti miti  che hanno per protagonisti anelli magici  e  i  loro poteri  sono giunti  fino a noi.

L’anello di Gige, se  rigirato  nel dito, faceva diventare invisibili. Platone ne  parla  a   proposito   della possibilità  che  si apre  all’uomo di  fare  del  male,  quando  si  ha l’assoluta certezza di  non  essere visti.

L’anello di re Salomone aveva  una  pietra  incisa ed era  fatto di oro e rame (i simboli del  bene  e  del  male) e aveva il potere di  dominare i demoni.

L’anello di Nathan, un opale  dai cento riflessi colorati, aveva  il  potere  di  rendere grato a Dio e  agli uomini  chiunque  lo  portasse con fiducia.

Nella  mitologia  nordica l’anello  è soprattutto simbolo e strumento di potere. La saga dei  nibelunghi è incentrata su un anello preziosissimo che fa parte  dell’immenso tesoro di quel leggendario  popolo  e  che  finì  sepolto  dalle acque del fiume Reno.

A questo punto  vi  starete  chiedendo: ma che c’entrano i sacrifici  fatti  per  interesse con gli anelli?

Arrivo al punto. Erodoto nelle sue Storie ci parla di Policrate, tiranno di Samo, famoso per  la sua proverbiale ricchezza e  per la  sua  fortuna. Ritenendo  che  un  uomo troppo fortunato prima  o poi  sarebbe  stato  colpito  da  una grave sventura,  Amasis, faraone d’Egitto, suo alleato, gli consigliò di rinunciare a  qualcosa  di  veramente prezioso, in modo  che  tale perdita, essendo  una  grande  sventura, ne scongiurasse  una peggiore. Policrate decise perciò  di privarsi di un anello preziosissimo cui era  molto  affezionato  e  lo  gettò  in mare.

Tempo  dopo, un  pescatore  pescò  un  pesce  di dimensioni notevoli  e  decise  di  farne dono a Policrate. Mentre  i  cuochi  lo preparavano per  cucinarlo,  ritrovarono  nella sua pancia l’anello che il tiranno  aveva gettato in mare.

Quando  Amasis   seppe  che  Policrate  era riuscito a recuperare l’anello, capì  che  egli  era  un uomo troppo fortunato e che, prima  o poi, sarebbe  stato  colpito  da  una  grave  disgrazia. Non volendo  essere travolto  anch’egli  nella  rovina di Policrate, ruppe l’alleanza.  Tempo dopo, i timori di Amasis  si avverarono. Il re persiano Cambise attirò  con  l’inganno  presso di sé  Policrate  e  lo  fece  giustiziare.

Ammettiamo  solo per un momento che un gesto superstizioso come quello compiuto da Policrate, frutto  di un consiglio interessato (il faraone capiva bene che alla rovina del suo potente alleato  sarebbe seguita  la  sua, come poi  fu), ammettiamo dunque che quel gesto abbia un fondamento  razionale.

Ammettiamo dunque che un sacrificio  materiale  possa  rimettere  in  equilibrio una  situazione uscita fuori dai canoni della moderazione. Che cosa non funzionò, sempre stando  al  paradosso, nel  sacrificio di  Policrate?

Il fallimento del sacrificio  sta  nel suo presupposto. Che è quello  di salvarsi. Salvare  le  proprie ricchezze, il proprio status. Quindi  è  un falso sacrificio, fatto esclusivamente  per  se  stessi, per   il  proprio  tornaconto, il proprio interesse.

Forse i sacrifici, per  essere  ben accetti  alla divinità, devono essere fatti con cuore puro e per gli  altri, non per sé.

 

 

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