Lettera aperta al Presidente Mattarella: “La Sicilia non può continuare ad essere l’ultima delle colonie italiane!”

6 febbraio 2016

Sembra incredibile, ma nel 2016 certi passaggi della celebre Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino del 1876 sono ancora attuali! Del resto, negli anni ’50 le Ferrovie dello Stato introducevano nel Nord i treni alimentati dall’elettricità, mentre nella nostra Isola, ancora oggi, ci sono treni che vanno a kerosene! La lezione di Pio La Torre, che difendeva l’Autonomia siciliana dai predoni di Stato. L’importanza dell’Intesa Istituzionale di programma, che andrebbe ripresa e rilanciata. La necessità di battere l’ascarismo: l’ascarismo dei politici che operano nella Regione, ma anche di coloro i quali, occupando posti importanti a Roma, si dimenticano della Sicilia

Lo Stato italiano non ha mai considerato una responsabilità nazionale la soluzione della questione meridionale. Di più, lo Stato non ha mai considerato utile a sé la soluzione della questione meridionale. Ciò in quanto lo Stato non ha mai rappresentato e non può  rappresentare ciò che non esiste, il paese, la nazione.

A differenza dei tedeschi, che sentendosi popolo (deutsche volk), un solo popolo, e non bavaresi o renani, si svenarono per  garantire ai tedeschi dell’Est lo stesso tenore di vita dei tedeschi dell’Ovest.

Se dovessimo descrivere l’Italia scegliendo come tema l’approccio dello Stato unitario alla questione meridionale dovremmo necessariamente concludere con Metternich che l’Italia è  rimasta “un‘espressione geografica”. Fatta l’Italia, gli italiani non sono  mai stati fatti.

Se, come dice Gladstone, un’ingiustizia nazionale causa la fine di una nazione, un’ingiustizia nazionale commessa all’atto della nascita di uno Stato impedirà per sempre a quello Stato di diventare una nazione.

Del resto, qual è stato il vero collante dell’Unità? Il cannone. Il cannone di Cialdini a Gaeta, il cannone di La Marmora e di Pinelli in Abruzzo, in Basilicata e Puglia, il cannone di Govone in Sicilia. Gli stati d’assedio, l’arbitrio militare, la pulizia etnica dei cafoni   sottosviluppati che si sono trovati a far parte di un nuovo Stato solo perché il 2% della popolazione (a tanto ammontavano gli aventi diritto al volto) andò a votare e la maggioranza di esso, sotto la minaccia delle armi, disse sì al Savoia, un re che, sapendosi in malafede, non passò in rassegna l’esercito che a sua insaputa gli aveva conquistato un regno. Un re che resta Secondo (II) della sua dinastia e non diventa Primo (I) come re d’Italia, lui che era re perché un suo antenato nella nostra Cattedrale era stato incoronato re di Sicilia.

Ecco perché la questione meridionale non è mai stata una questione di interesse nazionale. In questo la responsabilità dei gruppi   sociali e politici dominanti su scala nazionale è storica. Una responsabilità che dunque nasce con l’Unità e arriva intatta ai nostri giorni.

Leggiamo un passaggio illuminante da L’inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino, due ricercatori che, nel 1876, redassero una relazione sullo stato dell’Isola di quei tempi e che resta tragicamente attuale:

“La questione siciliana e in genere la questione meridionale non ha mai avuto nell’opinione pubblica italiana e di conseguenza in Parlamento il grado che le spetta, ché allora i deputati dell’alta e media Italia sacrificherebbero alla soluzione di questa intereressi e rancori.”

E ancora:

“Ogni Ministero italiano si trova in questa situazione delle province meridionali fra i suoi interessi e il suo dovere e fino ad adesso ha  sacrificato il dovere all’interesse. Per guadagnare qualche voto nelle elezioni hanno transatto con abusi che era loro ufficio reprimere: per la nomina e la traslocazione degli impiegati si sono regolati non secondo l’utile dell’amministrazione, ma secondo il suo tornaconto elettorale. Molte volte nella ricerca dei delitti o dei loro autori si sono fermati ed hanno indietreggiato davanti a colpevoli o a complici potenti. Insomma, il primo a lasciarsi corrompere dalle influenze locali è stato il governo”.

Incalza Pio La Torre, nella sua relazione di minoranza scritta quando la prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia chiuse i lavori, nel 1976:

“Per quanto grandi siano le responsabilità dei gruppi dominanti locali c’è sempre da ricordare che questi gruppi hanno fatto da intermediari e da agenti dei gruppi dominanti nazionali, i quali hanno avallato, confermato e legalizzato gli abusi del sistema locale, consentendo ad una minoranza spregiudicata di monopolizzare tutti gli uffici e le pubbliche funzioni a beneficio dei propri interessi”. 

Lapidaria la conclusione:

“Qui sta l’origine  e la natura vera della collusione fra le classi dirigenti nazionali e la mafia siciliana. La stessa Regione non è riuscita ad assolvere, tranne che in alcuni periodi, alla funzione per la quale la vollero i democratici e gli autonomisti siciliani e che doveva essere quella di un organismo combattivo, capace di difendere gli interessi del popolo siciliano anche nei confronti dello Stato nazionale, in una continua contrattazione. E invece essa per quasi tutta la sua storia è stata (e questo ne ha caratterizzato l’organizzazione) una sorta di appendice amministrativa decentrata del governo nazionale, una sorta di prolungamento non autonomo dell’intervento pubblico nazionale secondo le linee fissate da Roma. Questo è cosa assai diversa dall’affermare come fanno in tanti che esista un collegamento fra mafia ed Autonomia. Sulla natura degli interventi pubblici poi va detto che essi hanno rappresentato una leva potente per elargire favori, per privilegiare interessi, per organizzare clientele”.

“E’ da respingere dunque – scrive sempre La Torre – come semplicistica e sbagliata la conclusione che i mali di cui soffre la Sicilia derivino dall’Autonomia regionale. E vero il contrario, che cioè questi mali derivano dalle limitazioni che all’Autonomia sono state imposte dai gruppi dirigenti nazionali, economici e politici che si sono serviti  dell’Autonomia siciliana come di una appendice periferica anche amministrativa del loro dominio nazionale. In questa operazione è indubbia  la responsabilità dei gruppi dominanti economici e politici dell’Isola, ma si tratta sempre di una responsabilità secondaria e derivata rispetto a quella principale. Se la Sicilia soffre, ciò accade per mancanza e non per eccesso di Autonomia”.

Che cosa è mai importato ai Presidenti di Confindustria, ai grandi gruppi, ai potentati economici, ai grandi amministratori delle imprese di stato della Sicilia? Nulla! Per capirlo basta farsi qualche domanda. Che importa oggi a Squinzi, il presidente nazionale di Confindustria nazionale, della Sicilia? Che cosa importa a Finmeccanica, a ENI, ad ANAS, a Ferrovie? Nulla! Nel 1956 a Milano operava già il treno elettrificato, qui in Sicilia, dopo quasi 60 anni, ci sono ancora tratte a gasolio!

Che cosa importa della nostra perifericità? Nulla, nulla, nulla.

Chi ha consentito alla criminalità organizzata di trasformarsi da fenomeno rurale in una multinazionale che, stando ad un’indagine della magistratura palermitana, avrebbe trattato da pari a  pari con lo Stato? Lo stesso Stato!

Quale sarebbe il dovere di uno Stato al quale venisse fatto sapere che senza l’oppressione della malavita organizzata il Mezzogiorno  avrebbe lo stesso PIL del resto del Paese? Li leggono o non li leggono a Palazzo Chigi e al Viminale i rapporti del CENSIS e di tutte le altre strutture di ricerca e statistica? E se li leggono perché non intervengono? E’ una lotta dura, mi si opporrà. Certo, non è una passeggiata. Ma io ricordo che per parecchio tempo le Brigate rosse furono invisibili, inafferrabili, ombre sfuggenti e misteriose. Poi le BR emisero un comunicato in cui affermavano a chiare lettere che mai e poi mai avrebbero negoziato con lo Stato e che chiunque si fosse messo in testa di speculare politicamente su di loro si poteva mettere il cuore in pace. Nel giro di pochi mesi le BR furono scovate e sconfitte.

Ma la criminalità organizzata non è assimilabile alle Brigate Rosse. Ha i suoi rappresentanti, che fa eleggere in Parlamento e nei Comuni, grandi e piccoli. La mafia fa politica da sempre, lo avete appena letto, lo dicono Franchetti e Sonnino e il povero La Torre.  E’ storia vecchia! E allora?

Siamo gli ultimi, ma siamo utili. Al resto di Italia sta bene così; siamo un mercato ormai succube dopo che i nostri mercati, la nostra economia, che per la loro fragilità avrebbero dovuto essere difesi, invece sono stati sacrificati agli interessi del Nord e stroncati da una politica oppressiva e devastante nel corso dei 150 anni di unità.

Perché lo Stato, avendone il potere, non ha impedito tutte le storture di cui la politica regionale si è resa colpevole nella sua storia? Perché non ha impugnato tutte le leggi della Regione che rendevano possibili abusi e privilegi? Perché ha consentito che il Parlamento regionale, che rappresenta un ventesimo dei cittadini  italiani, si attribuisse lo stesso appannaggio del Senato che li rappresenta tutti? Perché ha consentito che venisse infranta l’unicità del personale regionale e si creasse una super casta di burocrati parlamentari che vive in una bolla assurda e irreale dentro la quale i  privilegi più fantasiosi diventano atti loro dovuti?

Ancora: perché è stato consentito che il personale della Regione avesse uno stipendio assai maggiore di quello degli impiegati statali, mentre il vincolo statutario imponeva soltanto che non lo avessero inferiore?

Perché è stato consentito che la Regione assumesse migliaia di impiegati per chiamata diretta in dispregio dell’art. 97 della Costituzione che impone i pubblici concorsi?

Perché è stato consentito che i ruoli organici degli enti locali venissero intasati da migliaia di precari che hanno di fatto tolto la speranza ad altrettanti giovani laureati e diplomati?

Perché è stato spazzato via il sistema bancario e creditizio della Sicilia?

Perché … Perché …

La risposta la sapete già. E’ detta sopra.

Ma c’è una cosa che fa venire forte la nausea. Più dell’ascarismo di chi sta qui e si vende l’anima per lucrare un piccolo posto al sole è l’ascarismo di chi sputa nel piatto dove ha mangiato. Di chi, chiamato a più alti destini, ha lasciato la Sicilia e non muove un dito  per difenderla, per incoraggiarla, per migliorarla.

Anzi, se ne tira fuori, con fastidio. Questi sono i peggiori  nemici dei siciliani.

In uno dei rari e perciò preziosi momenti di collaborazione tra Stato e Regione, sotto la guida illuminata di Carlo Azelio Ciampi, venne elaborato tra i due enti un vero e proprio trattato, l’Intesa Istituzionale di Programma (IIP)Un grande strumento di programmazione concertata tra Stato e Regione che identifica puntualmente a mezzo di appositi accordi quadro, gli obbiettivi  dello sviluppo regionale e i mezzi finanziari per raggiungerli. Dopo lo Statuto, essa rappresenta la più alta e completa espressione di quella leale collaborazione tra le due istituzioni auspicata dalla Corte Costituzionale, quelle istituzioni, uniche nella Repubblica, portatrici di assetti costituzionalmente garantiti all’interno di un’unica Repubblica, che entrambe contiene.

Ebbene, certamente ricorderà che quel trattato, in rappresentanza del Governo centrale, fu sottoscritto proprio dal Lei, Signor Presidente della Repubblica.

Ma, si sa, la Programmazione è nemica giurata del clientelismo, della libertà di fare i propri comodi e di favorire gli amici. Insomma, di tutto quello di cui ci parla La Torre.

Ebbene, quando dopo le elezioni nazionali e regionali calarono le tenebre sull’Italia e la Sicilia, quel trattato diventò carta straccia. Lo Stato, nel silenzio di tutti, e con la complicità della politica regionale, che non vide l’ora, si sottrasse all’attuazione di quel trattato, come nel tempo si è sottratto all’attuazione dello Statuto.

Uno Stato fedifrago e inaffidabile, una politica siciliana ascaristica, serva e vile.

Eppure, Signor Presidente, l’Intesa è viva; malconcia, ma viva.

Dice infatti il suo articolo 3:

“L’Intesa impegna le parti contraenti  fino alla completa attuazione degli interventi in essa previsti”

Un monito per la cattiva coscienza degli intriganti e dei furfanti della politica, un piccolo faro in questa “notte degli imbrogli” che “ha dà passà”.

Siamo gli ultimi, dunque, però siamo utili, è vero. Ed è per questo che ad ogni accenno di insofferenza nei confronti dello Stato, lo Stato reagisce a cannonate.

Se i Siciliani non vi stanno bene, perché non li lasciate al loro destino di gente riottosa, strana, incivile, irriducibile? Perché siete  disposti fare terra bruciata? Allora qualcosa valgono. Qualcosa, ma non abbastanza.

Del resto, quando mai uno Stato coloniale ha abbandonato una colonia, magari un po’ difficile da maneggiare, ma ricca abbastanza per garantire un saldo attivo tra il dare e l’avere ?

 

 

 

 

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