Quello che lo Statuto siciliano non dice

28 novembre 2015

Il fuoco spento dell’Autonomia siciliana spiega perché al potere si succedano personaggi senza onore e dignità, senza dirittura morale, senza cultura e conoscenze, senza una visione del mondo e della vita, amici degli amici, ignoranti, beceri e buzzurri, scarti di un  società civile tutta da costruire

La nostra Costituzione detta  la linea al Paese. Ben 12 articoli indicano lo scopo della sua esistenza, i fini, gli obbiettivi da raggiungere. Insomma il perché di una nazione, di una Repubblica. Quanto è avanti la nostra Carta rispetto alla sue incarnazioni, alla sua fenomenologia, ai limiti, alle  miserie e agli errori!

Un’utopia declinata da miserabili. Un tradimento perpetrato ogni giorno, ogni ora, con la nostra pochezza di cittadini che si sublima nella pochezza dei governanti. Noi siciliani stiamo addirittura peggio. Nel nostro Statuto manca il preambolo, e non è cosa da poco.

Lo Statuto siciliano costruisce una macchina politica e amministrativa senza  scopo, né compiti. Perché esiste la Regione non è dato sapere. La  Regione non ha fini espliciti e diretti. Non ha  compiti di benessere e di miglioramento della vita dei Siciliani, ha solo norme autoreferenziali che ne occupano quasi l’intera struttura. E’ un meccanismo ad orologeria, ma non ha anima.

La spiegazione della sua esistenza, del suo essere nel mondo reale sta dietro, sta nella storia del Paese e della Sicilia stessa. Ma questo non basta a garantirle un futuro. Nessun politico, a differenza di quelli nazionali, ha impegni morali assunti al momento dell’elezione rispetto a norme positive come è per la Costituzione italiana (per quello che può valere; e per alcuni vale molto, se valgono molto i giuramenti).

Mi sembra logico, ovvio e consequenziale che, in questi tempi di profondo scadimento etico, nella Regione al potere   si succedano personaggi senza onore e dignità, senza dirittura morale, senza cultura e conoscenze, senza una visione del mondo e della vita, amici degli amici, ignoranti, beceri e buzzurri, scarti di un  società civile tutta da costruire.

Niente, nemmeno sul piano formale, impedisce loro di fare i propri comodi, da quando i motivi per cui sono eletti sono consegnati ad una storia che non interessa più quasi a nessuno, da quando il grande fuoco dell’Autonomia è spento. Eppure quella Storia sta lì, ci guarda da un luogo assai lontano, ma non sperduto.

Quello che lo Statuto non dice, quello che  lo Statuto non declina in norme positive è, tanto più per questo, la meta, e questo silenzio ci dice tutto del nostro carattere, del nostro vero essere, ci parla dei nostri limiti e della nostra grandezza. Noi sappiamo fin troppo bene quello che siamo, quello che vogliamo. E ci fa sentire  grande il dolore di non essere capiti, di non riuscire ad essere capiti.

Noi, più di ogni altro popolo, abbiamo bisogno di essere guidati, di essere amati, abbiamo bisogno di fiducia, di rispetto, di giustizia. Solo così la nostra generosità, la nostra laboriosità, le nostre grandi capacità hanno ragione di esistere, di dispiegarsi.

Il nostro cuore è sempre pronto, è fiducioso, vorrebbe stringere una mano che lo aiuti, un contatto che lo rassicuri, vorrebbe sentire una voce che lo incoraggi, lo faccia sentire importante, amato.

Quanto siamo deboli, dunque!

Non più deboli del cuore di quel bimbo che nasce nella miseria e nel degrado e che pure, per un tempo breve, sa anche sorridere, un cuore grande che proprio per  questo è un bersaglio facile, una preda per chi  ha smesso da tempo di sorridere.

E’ un grande malato, il  nostro cuore. Finché batte non ti fa sentire la voce della ragione, e quando smette, anche se sei ancora si spegne la tua vita, quella vera.

 

 

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