Giuseppe Genco Russo, ovvero il paradigma di certi rapporti tra ‘pezzi’ dello Stato e la mafia

26 gennaio 2017

Oggi ricordiamo Giuseppe Genco Russo di Mussomeli, per lunghi anni ai vertici della mafia siciliana. Lo ricordiamo non per le benemerenze che non ha avuto (anche se una certa politica siciliana gli ha dato credibilità e incarichi, tant’è vero che è stato anche esponente di un partito politico, la Dc), ma perché ci ricorda che lo Stato italiano ha sempre avuto rapporti con i mafiosi

Giuseppe Genco Russo nacque a Mussomeli, il 26 gennaio 1893.

Durante il Fascismo, venne denunciato e processato più volte per i reati più vari (omicidio pluriaggravato, estorsione, associazione a delinquere), venendo sempre assolto per insufficienza di prove.

L’insufficienza di prove fu il filo nero che legò tra di loro tante assoluzioni nei processi di mafia, soprattutto nel secondo dopoguerra e che autorizzò per tanto, troppo tempo, persino alti prelati tra cui il mitico Arcivescovo di Palermo, Cardinale Ernesto Ruffini, ad affermare che la mafia non esisteva.

Giungere a condanne di esponenti mafiosi fu possibile quando, maturat  una nuova coscienza antimafiosa, talune fattispecie, taluni atteggiamenti e specifici comportamenti furono dal legislatore configurati come reati di tipo mafioso.

Nel 1927 il questore di Caltanissetta scrisse in un rapporto giudiziario che Genco Russo era «amico di pregiudicati pericolosi  […] capace di delinquere e di turbare col suo operato la tranquillità e la sicurezza dei cittadini» ed inoltre che si  era creato una posizione economica «col ricavato del delitto e con la mafia».

Fino al 1931 però non successe nulla. Genco Russo venne infine condannato a sei anni di carcere per associazione per delinquere, ma scontò soltanto tre anni perché la pena venne commutata in libertà vigilata che venne revocata nel 1938 per buona condotta.

Di fronte a simili trattamenti credo che taluni inquirenti in tempi a noi più vicini abbiano subito la stessa frustrazione che dovette provare il “Prefetto di ferro”, Cesare Mori, il quale, disgustato, una volta affermò che  per “sconfiggere  la mafia non era sufficiente cercare tra i fichidindia, ma che era necessario indagare anche negli ambulacri di certi uffici statali”.

Dopo lo sbarco alleato in Sicilia il Governo militare di occupazione era alla ricerca di antifascisti da sostituire alle autorità locali fasciste. Curiosamente non si fece scrupolo di assimilare e arruolare tra gli antifascisti anche i delinquenti e i criminali mafiosi che il Fascismo aveva perseguito. Genco Russo fu messo a capo della sua città di Mussomeli.

Grazie alle su benemerenze”antifasciste”, nel 1944 Genco Russo venne dichiarato completamente «riabilitato» dalla Corte d’Appello di Caltanisetta e in conseguenza di ciò acquisì la rispettabilità che gli consentì di avviarsi ad una luminosa attività politica.

La sua attività politica, inizialmente, consistette nell’appoggiare i monarchici (nel 1946 venne insignito dal “re di maggio” Umberto II dell’onorificenza di Cavaliere della Corona d’Italia) e poi la Democrazia cristiana, il partito nel quale militò fino all’espulsione. Alla vigilia delle elezioni politiche del 1948 Genco Russo e il suo associato, Calogero Vizzini, parteciparono ad un pranzo elettorale della DC tenutosi a Villa Igea, a Palermo, a cui era presente anche l’onorevole Dc Calogero Volpe.

Genco Russo divenne capo della Democrazia cristiana e consigliere comunale di Mussomeli, fino al 1962, quando fu costretto a dimettersi perché denunciato in una campagna giornalistica e poi processato e condannato.

Nel 1964 Genco Russo venne arrestato per associazione a delinquere ed inviato al soggiorno obbligato. Nel corso del processo Genco Russo chiamò a testimoniare in suo favore eminenti personalità politiche, appartenenti al clero, banchieri, medici, avvocati e uomini d’affari. Il suo legale minacciò di rendere pubblico il telegramma inviato da 37 deputati democristiani. In difesa di Genco Russo scese anche il sottosegretario della Democrazia Cristiana, Calogero Volpe.

Genco Russo venne condannato a cinque anni di confino. Morì tranquillamente a casa sua all’età di 83 anni nel 1976.

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