Storia & Controstoria

La rivoluzione del 1848 e il sogno di una Sicilia indipendente durato appena un anno/ Storia della Sicilia del professore Costa 41

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  • L’esplosione il 12 gennaio
  • Dall’indipendentismo al confederalismo “italico”
  • Cacciati i Borbone la Sicilia si dà un Governo regolare guidato da Ruggiero Settimo
  • Rimessa in vigore la Costituzione del 1812, ricostituito il Parlamento mentre la Rivoluzione infiamma l’Europa intera
  • …ma ci sarebbe voluta una dittatura non un regime parlamentare
  • La mediazione inglese e il rifiuto di ogni compromesso
  • La Sicilia partecipa alla I Guerra d’indipendenza italiana
  • Restaurazione assolutista a Napoli e inutile tentativo della Sicilia di sostenere i liberali napoletani
  • Una Costituzione democratica all’avanguardia: lo Statuto del Regno di Sicilia
  • Il tentativo, fallito, di dotarsi di un re proprio
  • Il bombardamento di Messina, la caduta di Catania e di Siracusa
  • La resa, onorevole, del 1849 e la conquista di un rapporto federativo con Napoli
  • Continuano le congiure e le rivolte anche dopo il 1849, ma serpeggia la propaganda unitaria italiana
  • Una parentesi sulla politica linguistica durante le Due Sicilie
  • Una parentesi sulla politica linguistica durante le Due Sicilie

di Massimo Costa

L’esplosione il 12 gennaio

Ma fu il 1848 che portò la grande esplosione. Fu Palermo, il 12 gennaio, a dare il segno a tutta l’Europa, con una rivoluzione, che fu al contempo liberale e nazionale. Rivoluzione preannunciata da manifesti sottovalutati dal regime, che già da giorno 9 gridavano dai muri: «Siciliani, il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni. Ferdinando tutto ha spezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra catene nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i legittimi diritti? Alle armi figli della Sicilia!». In quel grido c’era per tutta la rabbia per le promesse tradite da un Continente infido e straccione, allora come oggi, che aveva sequestrato la Sicilia dal diritto ad avere una storia propria, una storia normale.

Dall’indipendentismo al confederalismo “italico”

Il clima, però, era cambiato dalla precedente Costituzione. Erano passati più di 30 anni dall’annessione, e tutti i tentativi di restaurare il Regno erano stati frustrati dall’opposizione di uno stato meglio organizzato dei rivoltosi. I Siciliani, in gran parte, avevano deciso di far confluire la causa nazionale siciliana nella più ampia causa italiana. La Rivoluzione del ’48 fu così allo stesso tempo indipendentista e federale (italiana). La Sicilia abbandonò il giallo o il giallo-rosso della sua tradizione per adottare una bandiera tricolore italiana, con la secolare Trinacria al centro. Questa, da sempre simbolo non ufficiale dell’Isola, fu eretta a simbolo ufficiale mandando in pensione le aquile fredericiane che avevano accompagnato la storia del Regno sin dai tempi del Vespro, ma prima ancora, come aquila singola, dai tempi di Federico II. Durante i primi giorni di rivolta, quando il generale borbonico chiese ai rivoltosi cosa volessero dal re per deporre le armi, memorabile fu la risposta: «Il popolo coraggiosamente insorto non poserà le armi, e non sospenderà le ostilità, se non quando la
Sicilia, riunita in general Parlamento in Palermo, adatterà ai tempi quella sua Costituzione che, giurata dai suoi Re, riconosciuta da tutte le Potenze, non si è mai osato di togliere apertamente a questa Isola. Senza di ciò qualunque trattativa è inutile». L’esercito borbonico in fuga per vendetta incendiava villaggi e assassinava, non dimenticando di aprire prima le carceri per riempire il paese di malfattori e
far così vacillare il fragile governo emerso dalla Rivoluzione.

Cacciati i Borbone la Sicilia si dà un Governo regolare guidato da Ruggiero Settimo

La Rivoluzione fu un esempio di concordia: da Pantelleria a Messina, all’unisono, i “borbonici” furono dovunque cacciati rapidamente, quasi come in un nuovo Vespro. Solo nella imprendibile cittadella di Messina non si poteva entrare. La Sicilia era di nuovo indipendente, grazie al sangue dei suoi figli. Non ci furono differenze di ceto o classe: l’indipendentismo siciliano metteva d’accordo la Chiesa, gli
Aristocratici, i Borghesi, gli Artigiani, i Villani. Fu costituita una Guardia Nazionale, con uffici elettivi. Si costituì un Governo provvisorio, e fu affidato al vecchio contrammiraglio Ruggiero Settimo (nella foto tratta da Wikipedia), che da giovane aveva avuto un ruolo nella Rivoluzione del 1812, e che invece, non vedendoci chiaro, non aveva voluto esporsi nella rivoluzione fratricida del 1820, pur non avendo mai nascosto le sue idee indipendentiste. Dapprima Presidente di questo Comitato provvisorio di governo, affidando a Mariano Stabile il ruolo di “Segretario Generale”, poi si costituì un governo regolare. Ruggiero Settimo fu così nominato “Presidente del Governo del Regno di Sicilia”, carica assonante con quella antica di “Presidente del Regno”, adottata nella vacanza dei Viceré. Sarebbe stato l’ultimo capo di stato, legittimo aggiungiamo noi, di una Sicilia indipendente. Come ai tempi della Costituzione del 1812, il Dicastero era guidato dal Ministro degli Esteri e del Commercio, con funzioni sostanziali di “Primo Ministro”, affidato a Mariano Stabile. Altri Ministeri istituiti furono: Ministero della Guerra e Marina, Ministero delle Finanze (inizialmente affidato a Michele Amari), Ministero del Culto e della Giustizia, Ministero dell’Interno e della Sicurezza Pubblica, Ministero dell’Istruzione pubblica dei lavori pubblici. Cacciato il governo usurpatore si cercò di ripristinare, come si poté, la legalità del Regno di Sicilia, a partire dalla soppressione delle odiate intendenze provinciale, e la ricostituzione dei Distretti del Regno di Sicilia. Tutti i Comuni (anzi “le Comuni” come si diceva allora) parteciparono a questa ritrovata
libertà ed autonomia municipale, conquistata in pochissimo tempo e nella concordia generale. Ruggiero Settimo tentò di far riconoscere il Regno di Sicilia sul piano internazionale ma non ce ne fu il tempo. Francia e Gran Bretagna accettarono di fatto, ma non di diritto, gli emissari della Sicilia, e la Gran Bretagna liberale mandò la flotta a proteggere la Sicilia dagli assalti napoletani.

Rimessa in vigore la Costituzione del 1812, ricostituito il Parlamento mentre la Rivoluzione infiamma l’Europa intera

Fu riportata in vigore la Costituzione del 1812, e con questa, furono ricostituite le legittime Camera dei Comuni Camera dei Pari, secondo quella che era l’unica legittima costituzione vigente di 36 anni prima. Le proposte di blandissima autonomia che ora arrivarono da Napoli, in realtà insignificanti ed insidiose, furono invece rigettate, in quanto se non altro tardive: queste consistevano nell’abolizione della “promiscuità”, nell’ampliamento delle competenze della Consulta per la Sicilia, nella nomina di un luogotenente di famiglia reale, nella modifica della legge sulla censura. Napoli, dopo l’insurrezione siciliana, era stata travolta da un moto liberale e il governo era stato costretto a concedere la Costituzione. Ma i liberali napoletani erano stretti alla Corona nel disegno di riconquistare l’isola ribelle. L’esempio siciliano avrebbe infiammato l’Italia, nella quale Toscana, Stato della Chiesa e Regno di Sardegna avrebbero concesso costituzioni, mentre nelle regioni controllate direttamente o indirettamente dall’Austria sarebbero scoppiate rivolte e questi sarebbero stati cacciati (all’infuori del cd. Quadrilatero), con la ricostituzione della Repubblica Veneta. A luglio la Rivoluzione sarebbe arrivata a
Parigi e avrebbe infiammato l’Europa intera.

…ma ci sarebbe voluta una dittatura non un regime parlamentare

Il Governo siciliano, però, fu sin troppo parlamentare, democratico e liberale, in un momento rivoluzionario che avrebbe richiesto un’energica dittatura. Sia sul piano dell’organizzazione delle forze armate, sia su quello della polizia interna, non ci fu in quel momento uno statista all’altezza della drammatica situazione. Ad ogni modo furono presi alcuni importanti provvedimenti d’urgenza, e
impedita la riconquista, sebbene non si comprese che bisognava espugnare la Cittadella di Messina per garantire sicurezza all’intero Regno.

La mediazione inglese e il rifiuto di ogni compromesso

Si tentò di arrivare ad una mediazione attraverso gli Inglesi. Lord Minto fece quasi un miracolo, nel momento di massima debolezza di Ferdinando II, facendo approvare dei decreti che erano la vittoria per la Sicilia: questi accettava che la Sicilia convocasse un Parlamento separato da Napoli, che questo Parlamento avrebbe adattato ai tempi la Costituzione del 1812, si sarebbe ricostituito il Ministero per gli
Affari Siciliani a Napoli, si sarebbe riconosciuto come legittimo il governo rivoluzionario e Ruggero Settimo come Luogotenente. L’unica cosa su cui il Borbone non “mollava” era che il regno dualistico sarebbe rimasto unito della sua corona e che l’esercito napoletano sarebbe dovuto tornare nell’Isola. In caso di dissenso tra i due parlamenti (di Napoli e Palermo) sulla sistemazione definitiva del Regno, si
sarebbe proceduto ad un arbitrato internazionale. I successi di quel momento della Sicilia, o la giusta diffidenza verso una dinastia troppe volte spergiura, consigliarono ai Siciliani di ripudiare questi decreti (che forse sarebbero stati la vittoria definitiva della Rivoluzione), rilanciando con un’offerta praticamente inaccettabile per la controparte: due stati separati, solo unione personale, con invio di un
“Viceré” dotato di tutti i poteri del re, cessione di un quarto dell’esercito e della flotta. In fondo, da un punto di vista legittimo, i Siciliani non chiedevano altro che una piena scissione tra i due regni, per ripristinare una situazione simile a quella del secolo precedente. Ma, dal punto di vista della corte napoletana, significava trasformare la Sicilia in un “commonwealth” simile a quello che più tardi l’Inghilterra avrebbe sperimentato con il Canada e altri possedimenti. Seguì, inevitabile un ultimatum da parte di re Ferdinando, e, in risposta a questo, il Parlamento dichiarò solennemente la decadenza perpetua dei Borbone dal trono di Sicilia.

La Sicilia partecipa alla I Guerra d’indipendenza italiana

La Sicilia, anche per evitare la cattiva propaganda borbonica antisiciliana tra i governi costituzionali italiani di quel momento, inviò in Lombardia una “centuria” simbolica, a combattere contro gli Austriaci durante la I Guerra d’Indipendenza italiana. Ricordiamo che in quel momento, a Torino, Firenze, Venezia, Roma e Napoli, oltre che a Palermo, erano governi costituzionali, e a Parma e Modena i duchi filoaustriaci erano stati provvisoriamente cacciati. La “Confederazione Italica” in quel momento sembrava una realtà e la Sicilia non poteva restarne del tutto fuori.

Restaurazione assolutista a Napoli e inutile tentativo della Sicilia di sostenere i liberali napoletani

Quando, poco dopo, Ferdinando a Napoli sospese la Costituzione, che aveva concesso a febbraio a seguito dello scoppio della Rivoluzione Siciliana, richiamò dal nord le truppe (che non avevano mai combattuto contro gli Austriaci in verità), e represse le agitazioni liberali; per la stessa ragione il Governo siciliano generosamente mandò una spedizione in Calabria per aiutare i liberali “napoletani”, invece di pensare ad espugnare la Cittadella di Messina. Fu un errore e un fallimento. Un po’ di simpatia, ma nessun aiuto concreto, a Reggio, indifferenza a Catanzaro, aperta ostilità a Cosenza, poi la fuga via mare e la cattura da parte dei borbonici.

Una Costituzione democratica all’avanguardia: lo Statuto del Regno di Sicilia

Il principale compito di questo novellato Parlamento di Sicilia era quello di darsi funzioni costituenti per adattare ai tempi la Costituzione del 1812. E quel Parlamento licenziò così una nuova legge fondamentale, lo “Statuto del Regno di Sicilia”, carta che non poté mai essere applicata, ma che fu un monumento di democrazia in un’epoca ancora soltanto liberale in senso assai moderato. Il suffragio viene esteso a tutti i cittadini non analfabeti dai 21 anni in su. Naturalmente, ai tempi, il suffragio era solo maschile. Ma, mentre per il Capo di Stato, il re, era specificato che la successione era regolata dalla legge salica, e quindi riservata alla linea maschile, anche perché il re era anche “sacerdote cattolico”, in quanto Legato apostolico (le Due Sicilie non avevano mai rinunciato a questo antico privilegio), per la qualifica di elettore non era specificato il sesso, talché il Parlamento di Sicilia avrebbe potuto estendere il diritto di voto alle donne con una semplice legge ordinaria. Il Parlamento era composto da una Camera dei Deputati, che prendeva il posto di quella dei Comuni, e di una Camera
dei Senatori, che prendeva il posto di quella non elettiva dei Pari. La camera bassa si sarebbe dovuta rinnovare ogni 2 anni, e, per l’eleggibilità passiva, oltre al limite di età di 25 anni, si ponevano restrizioni minime (praticamente quelle che nel 1812 servivano per l’eleggibilità attiva): avere 18 onze di reddito annuale, o essere laureati, o commercianti, etc. La Camera dei Senatori diventava elettiva, ogni 6 anni, con rinnovo di un terzo ogni due anni: a votare erano i “consorzi di comuni” (cioè i Distretti, che riprendevano il posto delle odiate Intendenze). I requisiti per l’eleggibilità furono lasciati piuttosto restrittivi; ex deputati per 2 legislature, ex ministri, professori universitari, vescovi, professionisti con non meno di 200 onze di reddito etc. (grosso modo come i requisiti di eleggibilità per i Comuni nel 1812). Niente più baroni parlamentari quindi, e gli stessi vescovi dovevano essere designati dai distretti per essere eletti nella camera alta. L’esecutivo e le politiche finanziarie rimesse alla fiducia del Parlamento (sulle leggi finanziarie e sui quantitativi delle forze armate la camera alta avente solo diritto di veto). Costituzionalizzata la Guardia Nazionale. Ridimensionati i poteri del re a quelli di formale capo di stato. Indipendente la magistratura, soggetta solo alla legge, e al sindacato di un’Alta Corte, nella quale i deputati potevano accusare, e i senatori giudicare. Reinserita la democrazia nei consigli civici e nelle magistrature municipali, riuniti i Comuni in Associazioni distrettuali. Stabilito solennemente, ancora una volta, all’art. 1 addirittura, che la religione cattolica era “religione di stato”, ma non è più ribadito che è “l’unica ammessa” come nel 1812, prefigurando la possibilità di “culti ammessi”, sia pure presumibilmente sottoposti a restrizioni. Ribadite tutte le libertà fondamentali, suggellate dalla clausola finale della riserva di legge ad ogni limitazione alla libertà: “Tutto ciò che non è proibito dalla legge, è permesso”. Questo monumento di libertà di uno staterello dalle strutture fragili poteva reggere all’urto di uno stato potente, militarmente organizzato, senza alcun appoggio internazionale? Le casse erano vuote, e nessun ceto brillava per generosità in quel momento drammatico. Geniale e moderna l’idea del Ministro delle Finanze, Cordova, di cartolarizzare il valore della vendita dei beni nazionali, attraverso carta moneta o cedoline, ma questa non ebbe materialmente il tempo di tradursi in pratica. Come non si ebbe tempo di riattivare la zecca per la quale si era stabilito di riprendere la monetazione siciliana in onze, tarì, grani e
pìccioli, con la Trinacria nel “recto” di ogni moneta e l’effigie del re nel “verso”. Ma il “Re di Sicilia”, decaduti i Borbone, mancava.

Il tentativo, fallito, di dotarsi di un re proprio

Si tentò di dare la corona a un principe di sangue italiano, ciò che avrebbe garantito la perpetua indipendenza della Sicilia. Si pensò al cugino del Re di Sardegna, il duca di Genova Ferdinando, ribatezzato “Alberto Amedeo”, per evitare l’omonimia con l’odiato re napoletano. Ma l’interessato, su indirizzo del governo piemontese che sperava ancora in un’alleanza con Napoli, declinò l’invito. La
Sicilia continuava a restare sola. Ancora una volta, per un gioco di potere internazionale, l’Inghilterra, come ai tempi di Napoleone, toglie la protezione navale alla Sicilia, abbandonandola al suo destino.

Il bombardamento di Messina, la caduta di Catania e di Siracusa

I rovesci della Rivoluzione in Italia, e la repressione nel Napoletano, consentivano quindi a Ferdinando di indirizzare i propri sforzi contro la Sicilia. Con un violento bombardamento, che gli valse il titolo di “Re Bomba”, riconquistò Messina tra gli eroici episodi di resistenza della popolazione civile, come i giovani Camiciotti o Rosa ’a Cannunera. Dopo la conquista, la soldataglia borbonica si lanciò in
vendette disumane contro la popolazione civile. Lo Stabile, da sempre filo-britannico, di fronte al disimpegno inglese, si dimette. Al suo posto succede un governo guidato dal marchese di Torrearsa. Nel frattempo, su mediazione inglese e francese, si arrivò ad un armistizio. Luigi Napoleone Bonaparte (il futuro Napoleone III, allora “solo” Presidente della II Repubblica Francese) offrì di inviare in Sicilia
la Guardia Nazionale Repubblicana a difesa dell’Isola. L’idea piaceva alla minoranza democratica, ma spaventava gli aristocratici che la bloccarono. I Pari, sempre timorosi di ogni piega repubblicana o democratica, rifiutarono pure l’aiuto di patrioti italiani pronti a venire a difendere la Sicilia in pericolo. Allo scadere dell’armistizio l’inesperienza militare dei Siciliani di fronte a un esercito organizzato e regolare si rivelò disastrosa. Cade anche il Ministero Torrearsa, sostituito dal Governo di Pietro Lanza e Branciforte, che dopo qualche mese richiama lo Stabile come ministro della Guerra. Cadde pure Catania, nonostante l’eroismo dei suoi abitanti, e le rappresaglie borboniche non furono minori che a Messina. Non restava che aprire le trattative. Nel frattempo cadeva pure Siracusa. Toccherà quindi proprio al Lanza, rampollo della più antica e alta aristocrazia sicula, chiudere l’esperienza del plurisecolare Regno di Sicilia.

La resa, onorevole, del 1849 e la conquista di un rapporto federativo con Napoli

Nel maggio 1849, ormai, la resa era inevitabile. Quattro capi della Rivoluzione, tra cui Ruggero Settimo, presero salvi la via dell’esilio; Ruggero Settimo fu accolto a Malta con gli onori di un Capo di Stato. Nessuna repressione ulteriore per i rivoltosi, soltanto la “ritrattazione pubblica” per i Parlamentari che avevano votato la decadenza di Ferdinando II. La Sicilia otteneva una devoluzione integrale, dal punto di vista fiscale ed amministrativo, persino con polizia propria. In pratica, a parte la perdita del Parlamento, Napoli e Sicilia tornavano nei fatti due stati distinti e confederati. Persino la banca centrale pubblica, che i rivoluzionari avevano creato con il nome di “Banco Nazionale di Sicilia” con la fusione delle Reali Casse di Corte di Palermo e Messina, sopravviveva, consentendo alla Sicilia di avere almeno la propria moneta cartacea, attraverso i cosiddetti titoli apodissari, al pari del Banco delle Due Sicilie (il futuro Banco di Napoli), sotto il nome quasi impronunciabile di “Banco dei Regi Dominii al di là del Faro”. Fu soppressa la competenza della Consulta delle Due Sicilie sulla Sicilia e fu istituita una “Consulta di Sicilia”, che prendeva il posto di quella semplicemente consultiva istituita nel 1831 dal luogotenente Leopoldo Borbone. La Sicilia, tranne che per la cittadinanza, gli esteri e la difesa, sembrava ora in tutto un vero e proprio stato confederato con Napoli. Era una resa più che onorevole, che vedeva in parte riconosciute le ragioni dei Siciliani. Ma sembrava anche la fine del sogno indipendentista. Il 15 maggio 1849 i borbonici rientravano a Palermo, e i patrioti non sapevano più
cosa sperare per poter liberare la Sicilia.

Continuano le congiure e le rivolte anche dopo il 1849, ma serpeggia la propaganda unitaria italiana

Negli anni che seguirono la Sicilia fu tutt’altro che doma. Ma il quadro politico si fa confuso. Il vecchio Ruggero Settimo non costituì, come forse avrebbe dovuto, un governo siciliano in esilio, restando metà ospite e metà prigioniero degli Inglesi a Malta. Senza guida le opposizioni siciliane andarono allo sbando. L’idea dell’indipendenza, anche confederale, divenne così minoritaria. Il Piemonte, attraverso la Società nazionale, faceva propaganda unitaria. Tutto sembrava immobile, fino al 1859 almeno, a parte il solito corollario di congiure e complotti, tutti facilmente sventati dalla polizia borbonica. Ricordiamo appena il tentativo di insurrezione di Nicolò Garzilli, del 1850, a Palermo, terminato con la sua fucilazione, ovvero il sacrificio di Salvatore Spinuzza, a Cefalù, nel 1857.

Una parentesi sulla politica linguistica durante le Due Sicilie

Una notazione finale merita la politica linguistica e dell’istruzione borbonica. Le Due Sicilie non avevano una particolare vocazione ad aumentare il livello generale dell’istruzione. Si limitarono a razionalizzare le strutture esistenti e, sul modello francese da loro seguito da presso, a costruire una burocrazia pubblica dell’istruzione. In questo senso furono indubbi alcuni progressi, in relativo rispetto alla frammentarietà dell’istruzione pubblica settecentesca, ma con il mantenimento di forti ritardi, in relativo ad altri paesi, almeno visto il mutare dei tempi. Si può affermare però che si andò creando un sistema abbastanza diffuso di istruzione pubblica primaria. Fortunatamente il vuoto lasciato dall’istruzione pubblica negli studi medi, appena abbozzata, fu coperto dalle istituzioni religiose, cui fu
appaltata gran parte dell’istruzione, a partire dai gesuiti che erano stati riammessi nel Regno dopo l’espulsione settecentesca. Qualche progresso in più fecero invece le università, seppure sotto il controllo occhiuto della burocrazia napoletana, che forse mal sopportava il fatto che la Sicilia avesse ben tre università, mentre il continente, a parte la facoltà di Medicina di Salerno, aveva soltanto l’Università degli studi di Napoli. Dal punto di vista linguistico il siciliano ormai era considerato lingua “nazionale” dai soli siciliani, senza più alcun riconoscimento pubblico. Vi furono studi e cultori della lingua siciliana, ma solo di carattere strettamente privato, anche oltre l’Unità d’Italia. E ciò è naturale, giacché il siciliano era visto come una lingua potenzialmente separatista. Con tutto ciò l’italiano non era neanche particolarmente incoraggiato, giacché era anch’esso potenzialmente eversivo in quanto poteva richiamare a programmi politici unitari o confederali avversati dal regime. Ma non c’era alternativa al suo uso, non esistendo una lingua “duosiciliana”. Singolare che spesso questo non venisse chiamato “italiano”, ma in maniera più asettica “lingua illustre”, per evitare ogni riferimento politico. Nel complesso la Sicilia borbonica si trovava in una condizione linguistica singolare: tranne poche élite in grado leggere il francese o altre lingue straniere, solo il 10 % circa della popolazione era in grado di parlare o scrivere malamente in italiano (dato che bene o male un’istruzione di base in questa lingua finalmente si era fatta strada a spese di un latino che però persisteva), un po’ di più nelle città, un po’ di meno nei piccoli centri. Ma tutto ciò che era scritto ufficialmente era scritto solo in italiano, con il risultato che la quasi totalità della popolazione non trovava una letteratura in lingua propria, né aveva gli strumenti per accedere alle idee che venivano da fuori, restando quasi sequestrata culturalmente dal resto d’Europa.

Con la II Guerra d’Indipendenza il Regno delle Due Sicilie perde la protezione austriaca e si avvia al disfacimento

Il 1859, ad ogni modo, fu l’anno della II Guerra d’Indipendenza italiana. Il Piemonte, con l’aiuto della Francia, strappa la Lombardia all’Austria. L’Austria si ritira nel Veneto, ed abbandona al proprio destino il resto d’Italia, Due Sicilie incluse. Nello stesso anno, improvvisamente, Ferdinando II, cui non si poteva negare dignità di statista, muore, lasciando un inesperto Francesco II sul trono
(spregiativamente chiamato “Franceschiello”). Il Regno delle Due Sicilie, infiltrato di massoni sino al midollo, incapace di aprirsi alle novità del secolo, senza alcuna protezione o relazioni internazionali, era diventato il classico vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, devastato e logorato da una quarantennale e assurda lotta interna volta unicamente a piegare la Sicilia a un tentativo di colonialismo interno. In Sicilia la propaganda unitaria aveva dato i suoi frutti. In una corrispondenza privata, uno degli unitari, Francesco Crispi, ebbe a dire: «Il partito d’azione in Sicilia è nostro e perciò unitario… Ma accanto ad esso o dietro di esso c’è il partito separatista …». Ciò che accomunava gli esuli, tra unitari, federalisti e indipendentisti, era la possibilità di liberare la Sicilia dal giogo borbonico, quanto meno su di un piano di ampia autonomia amministrativa e politica.

Cronologia politica della Sicilia sotto le “Due Sicilie”:
Luogotenenti (1816-1848):
1816-1817 Nicolò Filangeri, p.pe di Cutò
1817-1820 Francesco Borbone, p.pe di Calabria
1820 Diego Naselli d’Aragona
1820-1821 Ten.generale Pietro Colletta [Giunta Provvisoria rivoluzionaria a Palermo]
1821 Ten.generale Vito Nunziante [Giunta Provvisoria rivoluzionaria a Palermo]
1821-1822 Niccolò Filangieri, p.pe di Cutò
1822-1824 Antonio Lucchesi Palli, p.pe di Campofranco
1824-1830 Pietro Ugo, marchese delle Favare
1830-1835 Leopoldo Borbone, conte di Siracusa
1835-1837 Antonio Lucchesi Palli, p.pe di Campofranco (di nuovo) 1837-1840 Onorato Gaetani,
duca di Laurenzana
1840-1848 Luigi Nicola de Majo, Duca di S. Pietro

1848-1849 Regno di Sicilia indipendente [Presidente del Governo del Regno: Ruggiero Settimo]
“PrImi Ministri” (Ministri degli esteri):
1848-1849 Mariano Stabile
1849 Vincenzo Fardella m.se di Torrearsa
1849 Pietro Lanza e Branciforte, p.pe di Trabia

Luogotenenti (1849-1859):
1849-1855 Carlo Filangieri, p.pe di Satriano
1855-1860 Paolo Ruffo di Bagnara, p.pe di Castelcicala
1860 Gen. Ferdinando Lanza

FINE DELLA 41ESIMA PUNTATA/ CONTINUA 

Foto di prima pagina tratta da l’Opinione Pubblica

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