Sul Titanic

Ricordi di Sciacca/ Nella casa allo Stazzone, con il poeta Vincenzo Licata

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Via ogni tanto cambiamo registro. Torniamo a Sciacca, alla fine degli anni ’60 del secolo passato. Un tuffo nei ricordi. Per raccontare un personaggio unico e straordinario: il poeta Licata tra cronaca, storia e ricordi di famiglia

Mi ero riproposto, in questo periodo di Natale, di scrivere un ricordo del poeta Vincenzo Licata. Un ricordo personale, di famiglia: perché il poeta Vincenzo Licata, a casa nostra, era di famiglia. Grande amico di mio padre. Quasi inseparabili. Ci penso e ci ripenso da qualche settimana. Anzi, da più di qualche settimana. Lo devo scrivere? Il fatto è che sono molto geloso dei miei ricordi di Sciacca: raramente li condivido con qualcuno. Però, penso, se da qualche tempo, quando vado a letto e quando mi sveglio e anche durante la giornata, i miei ricordi si concentrano sul poeta, ebbene, un motivo ci sarà.

Già, il poeta: così, fin da bambino, ho sempre chiamato il poeta Licata. Ricordo ancora una delle prime volte in cui lo chiamai poeta: ci trovavamo nei locali delle Terme, ovviamente di Sciacca. Correva l’anno 1968. A Gennaio c’era stato il terremoto e ci eravamo trasferiti nella casa allo Stazzone. Mi padre era commissario delle Terme e, ogni tanto, gli facevo compagnia.

Non dovevo avventurarmi per le stanze, non dovevo uscire per strada, non dovevo andare nel grande parco (allora non c’era il Teatro progettato da Giuseppe Samonà), non dovevo fare questo e non dovevo fare quello. Ovviamente, facevo l’esatto contrario di quello che mi raccomandava mio padre.

“Mi raccomando, non disturbare chi lavora”, diceva mio padre.

Mi diceva così perché una volta ero entrato nella stanza del dottore Di Natale, che conoscevo perché in Estate abitava allo Stazzone. Persona amabilissima e gentile. Ebbene, quella volta, in giro per le stanze, decisi di aprire una porta che ancora non avevo profanato.

Appena spalancata la porta mi prese un mezzo colpo: seduto dietro una scrivania, sommerso dalle scartoffie, c’era il poeta Licata! Non sapevo che lavorasse negli uffici delle Terme: abituato a vederlo sempre nella nostra casa dello Stazzone non riuscivo proprio a immaginarlo in un altro ruolo e in un mondo diverso da quello della poesia:

“Poeta, che ci fa lei qui?”, gli chiesi.

Il poeta si mise a ridere. Qualche minuto dopo arrivò mio padre:

“Ma come, ti dico che non devi disturbare? Possibile che non fai mai quello che ti dico?”.

La vo sapiri l’ultima? – disse il poeta a mio padre -: to figghiu mi chiama poeta!”.

E comu t’avassi a chiamari, Vicenzo?“, gli rispose mio padre sorridendo. Dopo di che venni cacciato dalla stanza e preso in custodia da ‘Ninuzzu’, l’autista delle Terme.

Cosa ricordo del poeta Licata? Tante, tantissime cose, tantissimi ricordi. Posso dire di aver sentito recitare il poeta Licata da bambino e poi da ragazzo. Allora il suo poema Lu schiticchiu era nell’aria. Ogni tanto mio padre e il poeta ne parlavano.

Ricordo ancora quando si presentò in casa con un suo volume fresco di stampa: una poesia era stata dedicata a mia madre.

Il poeta Licata veniva spesso nella nostra casa allo Stazzone. Il poeta era figlio di marinai ed era cresciuto con il mare di Sciacca nel sangue. La casa dove abitavamo si affacciava sul mare, proprio di fronte ‘u Siccu, come si chiamava allora la secca dello Stazzone (oggi non so nemmeno se ‘u Siccu esiste ancora: a Sciacca, non ho mai capito perché, alcune cose spariscono, vuoi per la natura, vuoi per l’amministrazione pubblica distratta).

D’Inverno lo Stazzone era quasi deserto. Il poeta arrivava con la sua indimenticabile Simca rossa e parcheggiava sotto casa. In Estate lo Stazzone si popolava e trovare un parcheggio era un’impresa: soprattutto per il poeta, che per parcheggiare non era proprio bravissimo.

In casa c’era un forno a legna e il Venerdì sera si facevano prima le pizze e poi, quando il forno era ‘camiato’, si informava il pane che durava fino al Venerdì successivo. Il poeta Licata restava spesso a cena, soprattutto il Venerdì, per il piacere di portarsi a casa il pane di Sciacca infornato da mia mamma e dalla nonna.

Mi ricordo che un Giovedì – ultimo giorno prima del nuovo pane settimanale – aspettavamo il pane fritto: pane raffermo tagliato a fette e, se non ricordo male, passato prima nel latte poi – forse – nella farina e poi fritto e poi ricoperto di zucchero. Una delizia. Il poeta era seduto nel terrazzino che dava sul mare. Mi padre, in quel momento, era impegnato in faccende di casa e mia madre mi disse:

“Chiedi al poeta se vuole una fetta di pane fritto”.

La risposta del poeta non si fece attendere:

E comu si fa a diri di no?“.

In attesa dell’arrivo del pane fritto il poeta mi regalò un suo ricordo:

A’ sapiri – mi raccontò – chi a la me casa ‘u pani si tinia dintra ‘nna coffa pi tutta a simana. Nuatri figghi eramo assai (erano tredici figli in casa Licata) e c’era sempre pitittu. Me matri pinsava pi tutti. Ricordu che ‘ddra vota arrivavu ‘a casa c’u pititto chi mi niscia ri l’occhi. ‘A casa un c’era nuddru e allura acchiappavi un cuteddu e i m’infilavi dintra a coffa che era chiù granni ‘i mia. Tagghiavu ‘nna feddra ri pani c’un putia finiri e mi misi a manciari e mi paria r’essiri ‘mpararisu”. 

Il mare e il pane sono due motivi che spesso tornano nei miei ricordi del poeta Licata. Il pane caldo con olio, sarda salata e un pizzico di pepe mangiato osservando il mare. E mio padre che dice al poeta:

“Vicenzo, mettici puru ‘u passuluni”.

I passuluna erano le olive che mio padre metteva in una cesta di vimini con il sale: dopo un po’ di tempo diventavano passuluna.

Il passare degli anni ha cambiato un po’ le cose. Ma vedere il poeta era sempre un piacere. Con mio padre si sentivano spesso. Negli anni ’80 lavoravo a Palermo e tornavo a Sciacca il fine settimana.

Nella seconda metà degli anni ’80 il poeta Licata tornò a stupirmi. Aveva ottant’anni o giù di lì. Si era trasferito in una casa allo Stazzone e si dilettava con una piccola barca. Andava a pescare con la lenza? Un giorno glielo chiesi. Mi rispose:

“Non vado a pescare e questa non è una lenza: come vedi ha il piombo, ma non ha gli ami. Faccio mangiare i pesci”.

Era il poeta Licata. Punto.

Quando, nel 1992, chiuse il giornale dove lavoravo mi capitava spesso di tornare a Sciacca. Un mio amico stava dando alle stampe un periodico, che aveva chiamato 0925, il prefisso telefonico di Sciacca. Mi disse:

“Lo scrivi un articolo per il primo numero?”.

E che debbo scrivere?, chiesi.

“Quello che vuoi: fai tu”.

Da anni non abitavo più allo Stazzone, me nella casa di un avo, a due passi dalla vecchia sede della Corte d’Assisi di Sciacca: era la casa che in famiglia chiamavamo “la casa della Corte d’Assisi”. Però allo Stazzone andavo sempre: quando mi trovavo a Sciacca almeno una volta al giorno. Voglia di mare: del mare dello Stazzone.

“Magari il poeta Licata abita ancora lì”, dissi tra me e me. Così mi fiondai allo Stazzone. Il poeta era lì. Saluti e abbracci.

“Poeta, la facciamo un’intervista?”, gli chiesi.

E zoccu haiu a diri?”, mi rispose.

“Poeta, quello che le viene in mente, in totale libertà”, risposi.

E vabbè, passa rumani matina all’unnici, prima no chi mi fazzo ‘nna varchiata“, mi disse. Varchiata, a Sciacca, significa andare in barca.

L’indomani alle undici ero da lui. Era seduto di fronte il mare con un pezzo di pane schitto, come diciamo noi.

Un ci pozzu fari nenti, a mia ‘u pani mi piaci schittu“.

Ricordo ancora l’intervista. con il poeta Licata che parlava a ruota libera. Ovviamente l’intervista non so più che fine abbia fatto. O meglio, non lo sapevo, perché girovagando sulla rete mi sono accorto che un’anima pia l’ha messa in rete. Un grazie a questo sconosciuto. E poiché il plagio di sé stesso non è un reato la ripropongo:

Vincenzo Licata mastica un pezzo di pane. Inghiotte. E sospira:

”Oggi non mi sento tanto in forma. Che vuoi, sono nato nel 1906. E a ottantasette anni capita di non sentirsi tanto in forma. Comunque possiamo sempre parlare. Ma di cosa dobbiamo parlare?”.

Già, che cosa chiedere a un poeta? E che cosa non chiedere? Non ci sono domande preparate. Solo l’ebbrezza di un viaggio nel passato, nel suo passato, tra ricordi, passioni, sogni, dolori. Dal balcone della sua casa il poeta Licata osserva il mare. E attraverso i rumori del mare misura i battiti del tempo. L’autore dello Schiticchiu abita da qualche tempo in una delle tante casette di Fazzitta dello Stazzone. Mormora:

“Sai non posso stare lontano dal mare. Ne morirei. Così, eccomi qui”.

La famiglia, innanzi tutto. Una parola magica per il poeta, che attacca tutto d’un fiato:

“Mio padre era un uomo di mare. Un pescatore. Ricordo quando nel 1914 partì alla volta di Tripoli. Salparono da Sciacca con una barca a vela. Dovevano far conoscere agli africani la pesca a strascico. Allora avevo solo otto anni. E una voglia matta di andare con loro. E invece …”.

E invece le cose andarono diversamente.

“Anch’io come tanti Siciliani – racconta il poeta – potevo contare sui miei zii d’America. I miei zii riattraversarono l’oceano per tornare in Sicilia. Giunti a Sciacca, mi conobbero e mi adottarono. Così andai a vivere con loro. Era chiaro che il mare me lo dovevo scordare. Mi spedirono a scuola. Dovevo studiare. Frequentavo l’istituto tecnico Mariano Rossi. Ma già allora avvertivo dentro di me la mancanza di qualcosa. Mi mancava l’educazione marinara, mi mancava il mare”.

Riecco l’eterna sinfonia che continua ad accompagnare la vita del poeta: il mare. Mare da respirare, mare da assaporare, mare da vivere, mare da morire. Ora gli occhi di Vincenzo Licata si illuminano. Dice:

“Naturalmente marinavo la scuola. Scendevo al porto e mi nascondevo nella barca di mio padre. Sottocoperta. La mia esperienza in mare cominciò così”.

E poi? Il poeta sorride:

“Poi gli zii tornarono in America. E io ritornai a casa. Avevo quattordici anni”.

Il racconto prosegue a zig-zag. Un continuo avanti e indietro nel tempo. Anno di grazia 1911:

“Mio padre – ricorda ancora il poeta – tentò di introdurre nella marineria di Sciacca i motopescherecci. Non l’avesse mai fatto! Quasi tutti i pescatori gli si rivoltarono contro. Dicevano che quel rumore faceva scappare i pesci. Una delegazione di pescatori si recò dall’avvocato Angelo Abbisso, allora uno degli uomini più in vista del paese. Gli dissero: avvocato, parli lei con quelli di Roma, e faccia cacciare via quei mostri meccanici. Abbisso colse al volo l’occasione, arringò la folla e chiuse il discorso dicendo:

“Voi intanto agitatevi che al resto penso io”.

Una rivoluzione anti-tecnologica? Vincenzo Licata allarga le braccia:

“Beh, se non fu una vera e propria rivoluzione fu, comunque, qualcosa che gli somigliava molto. Ci furono scontri a fuoco. E anche morti. Tanto che il sindaco del tempo, Bertolino, chiese al comandante del quinto fanteria di intervenire. Alla fine vinsero i ribelli. I motori marini Bolinder a testa calda furono rispediti al mittente. Ma fu una vittoria effimera. Nel 1920 i motopescherecci presero il posto delle vecchie imbarcazioni a vela. Epilogo inevitabile”.

Poi arrivò la guerra col suo carico di lacrime e di morte:

“Allora – ricorda il poeta – avevo già lasciato l’impiego alle Poste. Lavoravo presso la società Spero, un’azienda che estraeva olio dalla sansa”.

La guerra e le bombe. E la disperazione. Il poeta abbandona la sedia. Il tempo di andare in cucina per prendere un altro pezzo di pane, per masticarlo con gusto, per assaporarlo. Poi riprende:

“Eccome se me li ricordo i bombardamenti! Volevano distruggere l’aeroporto di Sciacca. Ma qualche volta arrivavano anche in città. Dopo i bombardamenti la gente prendeva d’assalto i negozi. Ricordo ancora un noto avvocato che si rotolava assieme a una grossa forma di formaggio”.

La guerra, ma anche il dopoguerra. Con il poeta che stava quasi per essere scritturato da Guglielmo Giannini, un bizzarro uomo di teatro che diventerà il leader dell’ “Uomo Qualunque”, un movimento politico di protesta, in quegli anni molto popolare.

“Giannini – racconta ancora il poeta dialettale – aveva visto una mia foto. E mi aveva invitato a Napoli. Mi disse: Licata il suo volto è notevole. Voleva che sostenessi un provino cinematografico. Poi scoprì che ero siciliano. Ed esclamò: Licata che cosa mi combina? Lei è siciliano, con quel tremendo dialetto. Che peccato! E la cosa finì lì”.

Il tempo vola inesorabile. E tra un boccone di pane e l’altro, ecco affiorare un personaggio che Vincenzo Licata considera unico e insuperabile: Pietro Germi.

“Stavo sorseggiando un caffè in un bar di corso Vittorio Emanuele – racconta il poeta –. Quasi istintivamente mi accorsi che un uomo puntava con interesse il mio profilo. Era il regista Pietro Germi. Poco dopo si avvicina e mi chiede:

“Scusi, lei è di Sciacca?”.

Rispondo di sì. E lui:

“Può venirmi a trovare oggi al “Miramare”?

Naturalmente ci vado. Appena mi siedo al suo tavolo Germi mi fulmina con una domanda:

“Perché – mi chiede – i pesci grossi mangiano i pesci piccoli? La prego mi serve una risposta convincente. Non ho ancora risolto il mio problema religioso”.

Gli rispondo che i pesci grossi non avrebbero bisogno di mangiare i pesci piccoli perché nel mare c’è già il plancton. E aggiungo che sono i pesci piccoli che vanno dietro ai pesci grossi. Proprio come avviene tra gli uomini. Poi, così come avviene tra gli uomini, i pesci piccoli cominciano a rosicchiare i pesci grossi. Pietro Germi mi osserva sorridendo. Mi batte una mano sulla spalla e mi dice:

“Lei sarà Pasquale Profumo di Sedotta e abbandonata”.

E la poesia? Poeta siamo qui da quasi due ore e non abbiamo parlato delle sue poesie! Vincenzo Licata si alza. Mezzo giro intorno al tavolo, ed ecco la risposta lapidaria:

“Le poesie parlano da sole”.

Stavolta insistiamo: almeno un ricordo, un segno, qualcosa … Il poeta torna a sorridere. E, quasi soffiando nell’aspro vento mattutino di giugno, sussurra:

Lu Schiticchio ho cominciato a scriverlo a sedici anni. A trent’anni non l’avevo ancora completato. Un lavoro sofferto”.

E’ l’ultima risposta. Ora il poeta non è solo stanco, ma pensa ad altro. Avremmo voluto parlare dei suoi recital, della sua amicizia con Accursio Miraglia, degli anni Sessanta, di una Simca rossa con dentro un uomo che non poteva che essere un poeta, una Simca che Vincenzo Licata, sognatore indomito, non riusciva mai a parcheggiare. Avremmo voluto chiedergli se è vero che i poeti non muoiono, ma fanno solo finta di morire. Ma ormai il poeta Licata naviga tra i suoi pensieri, naviga, naviga, naviga …

 

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