Storia & Controstoria

La vera storia dell’impresa dei Mille 12/ E a Salemi Garibaldi sguazza tra mafia e massoneria. Sembra la Sicilia di oggi…

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Comincia a Salemi, già nel 1860 luogo di ‘picciotti’ e di massoni – cittadina che una tragicomica storiografia definisce la “prima Capitale d’Italia” – la prima trattativa tra il nascente Stato italiano e la mafia. I mafiosi, contattati dai Servizi segreti inglesi, diventano i migliori alleati di Garibaldi e dei Mille. Insieme, mafiosi e garibaldini, daranno vita all’Italia a partire dalla Sicilia e dalla mafia… E poi arrivano quelli che negano le trattative tra Stato e mafia!

di Giuseppe Scianò

Fra massoneria e mafia, Garibaldi si trova abbastanza bene…
Mentre a Marsala i Garibaldini erano stati accolti come «cani in chiesa» (parole testuali del Bandi), a Salemi i fratelli Sant’Anna possono offrire loro qualche festeggiamento e non pochi applausi. E a Salemi lo stesso Garibaldi ha potuto realizzare il desiderio (sempre su probabile indicazione di Londra) di autoproclamarsi Dittatore (22), dandosi un ruolo istituzionale.

Ma perché proprio a Salemi e non in un’altra città? Cerchiamo di capirne di più.

Ci aiuta in ciò lo scrittore e studioso Salvatore Riggio Scaduto (23), nativo di Salemi, quando scrive che la scelta della sua cittadina, come vera e propria base dell’impresa garibaldina, non è stata affatto casuale (24). Ci spiega, infatti, che a Salemi, più che altrove in Sicilia, era molto fiorente la massoneria. Anche troppo.

Esisteva già, nel 1860, una «loggia» di ben 75 adepti. Tutte persone molto importanti. Al riguardo il Riggio Scaduto richiama quanto aveva avuto modo di dire, sull’apporto massonico, Titta Lo Jacono, noto studioso che ha pubblicato diversi testi specialistici, tutti interessanti e documentati, sulla presenza Ebraica in Sicilia. Altro aspetto, questo, poco conosciuto della Storia Siciliana, ma ininfluente per i fatti che narriamo.

Titta Lo Jacono così scrive, parlando della massoneria salemitana:

«Non a caso, alla vigilia della spedizione dei Mille, a Salemi opera attivamente una loggia massonica forte di 75 fratelli, numero veramente notevole se rapportato al piccolo paese agricolo, di cui diventò il vero centro motore. Garibaldi, messia laico, incarnava appunto l’ideale cui aspiravano con trepida speranza sia gli antichi marrani, che i moderni massoni. Questa loggia riunita ritualmente trascorse in uno stato di esaltante eccitazione i tre giorni che precedettero l’ingresso di Garibaldi a Salemi»(25).

Il Riggio Scaduto ci aveva fatto notare altresì, che:

«…nessun marsalese seguì i Garibaldini, i quali da bravi invasori la prima cosa che fecero fu quella di mettere le mani sulle casse della tesoreria comunale, trovandovi, però, pochi spiccioli, così come ebbe a scrivere Ippolito Nievo, perché i previggenti marsalesi avevano proceduto a mettere in salvo il tesoro comunale».

Come inizio, insomma, non c’è male…

Tornando alla presenza della massoneria a Salemi, Riggio Scaduto ci fornisce altri particolari e scrive:

«Dallo scrittore, nostro concittadino, dott. Catania, conosciamo che il maestro della loggia massonica di Salemi a quel tempo era il dott. Carlo Verderame e che tra gli altri vi facevano parte i fratelli Domenico e Vincenzo Mistretta, Nicolò e Pietro Favuzza, Simone e Gaspare Favara e altri (v. Gli Illusi – pag. 42). La casa del Verderame era posta al n. I dell’attuale Via Giovanni Cosenza, all’epoca denominata Via Ragusa e tanto doveva essere l’ardore massonico del suo proprietario che questi sul frontespizio dell’ingresso vi fece scolpire lo stemma della massoneria, tuttora visibile»(26).

Come ricambia l’ospitalità della classe dirigente salemitana il Duce dei Mille? Anche per questa domanda il Riggio Scaduto ha una risposta ben precisa e ci spiega che…

«Ovviamente il biondo Nizzardo, esperto nelle razzie, tanto che nelle sue precedenti avventure Sudamericane gli avevano mozzato un orecchio per avere commesso un furto di cavalli, per cui fu costretto a fare il capellone per tutta la vita, depredò i denari delle casse comunali impossessandosi per la sovvenzione della sua “eroica impresa” di 880 ducati e ricevendo il successivo 10 giugno ben altri 1.007,10 ducati, racimolati dalla generosa cittadinanza Salemitana»(27).

«Generosa» per forza. Ci permettiamo di aggiungere.
Il denaro, per la verità, non sarebbe mai mancato ai Mille, al loro Duce- Dittatore ed ai suoi sostenitori.

Ma di questo fenomeno parleremo in modo più organico al momento opportuno.

Con aria serafica, con la data del 14 maggio 1860, a Salemi, Giuseppe Cesare Abba così ci riassume i fatti politici a suo giudizio più significativi:

«Il Generale ha assunta (sic) la Dittatura in nome d’Italia e Vittorio Emanuele. Se ne parla e non tutti sono contenti (è un fatto strano che l’Abba lo ammetta, n.d.A.). Ma questo sarà il nostro grido».

Evidentemente l’Abba non ricorda che il motto «Italia e Vittorio Emanuele» lo avevano già recitato (e continuavano a recitarlo) fin dalla partenza da Quarto. E così continua:

«Alle cantonate si legge un proclama del Dittatore. Egli si rivolge ai “buoni preti” di Sicilia. Un retore ha notato che, “preti buoni”, sarebbe stato meglio detto(28).

Nel proclama del Dittatore si può leggere che i preti buoni sono quelli che si vedevano «marciare alla testa del popolo per combattere gli oppressori», mentre ovviamente i cattivi sono quelli che «fan causa comune coi nemici d’Italia. Fra’ Pantaleo, che sarebbe diventato padre di numerosa prole (nonché ufficiale dell’esercito italiano), che lascerà presto quella tonaca da “scena” non può che condividere i giudizi del suo “Duce-Dittatore” e “Comandante in capo l’Armata nazionale in Sicilia”. E, probabilmente, ringraziarlo»(29).

La mafia a Salemi fa ribrezzo persino a Denis Mack Smith, che tuttavia la considera utile alla causa dell’Unità d’Italia.
Non saremmo, tuttavia, sinceri fino in fondo se non mettessimo in evidenza che a Salemi era tradizionalmente forte (e lo sarebbe stata a maggior ragione e per molto tempo ancora, dopo l’annessione all’Italia), la mafia di campagna. Forse più che altrove.

E la mafia in quel periodo era ancora subordinata e devota ai grandi proprietari terrieri, soprattutto a quelli che rimanevano sul posto, come i fratelli Sant’Anna, o i Mistretta, o i Torralta, o i Coppola, fossero o no nobili.
La mafia del 1860, ripetiamo, non è paragonabile a quella di qualche decennio successivo, perché rimane ancora relegata al di fuori della società civile e della vita economica e politica vera e propria. È una specie di sottoproletariato della camorra. Talvolta, soprattutto nelle città, ricorda la Corte dei Miracoli della quale parlano soprattutto scrittori e narratori parigini del secolo diciannovesimo.

Le vicende dell’Unità d’Italia consentiranno alla mafia (o alla maffia come si diceva in Sicilia fino alla metà del secolo scorso) di fare il salto di qualità, al quale abbiamo già sommariamente accennato e che sarà solo l’inizio di una crescita inarrestabile.

Individuati come utili e contattati dai Servizi Segreti Inglesi da qualche tempo, in Sicilia e a Salemi in particolare, i mafiosi più importanti possono concretizzare il patto di acciaio con le poche ma influenti forze politiche unitarie. Un patto duraturo che, forse, non sarà mai sciolto completamente. Come le cronache giornalistiche e giudiziarie dei giorni nostri ci testimoniano…

Financo un esponente di primo piano della storiografia risorgimentalista, Denis Mack Smith, così scrive:

«Più importante ancora fu il fatto che il crollo della legge e dell’ordine diede via libera alle bande di tipo mafioso che erano sempre pronte ad approfittare di un momento del genere per estendere la loro autorità. Di Miceli e Scordato che, dopo aver appoggiato la rivoluzione nel 1848, si erano schierati dalla parte dei Borboni vittoriosi nel 1849, ad un certo momento divennero di nuovo attivi rivoluzionari, perché essi prosperavano nel disordine e sentivano che se avessero permesso che queste forze popolari sfuggissero al loro controllo ciò avrebbe rappresentato una minaccia ai loro imperi privati. Non è improbabile che alcuni capibanda avessero dei genuini scopi politici, ma possiamo tranquillamente immaginare che i moventi principali fossero la prospettiva di paga e bottino, l’occasione di distruggere un gruppo rivale, bruciare gli archivi della polizia, liberare i loro amici dalla prigione e dare al proprio nome un aureola di terrore e di “rispetto” in una zona la più vasta possibile. Questi mafiosi non erano semplici criminali. Il crimine era per essi solo un mezzo per ottenere denaro e potere. La rivoluzione politica rappresentava un  altro mezzo; e questo strano fatto aiutò ora la Sicilia a dare un contributo decisivo e una spinta in parte inconsapevole alla causa dell’unificazione italiana».(30)

Quello che Smith non dice esplicitamente – o probabilmente non pensa
– è il fatto che i picciotti di mafia, la mafia stessa di città o di campagna che sia, con la loro presenza soltanto, per quanto molto indecente, legittimano nel 1860, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale (plagiata dalla stampa inglese), l’occupazione della Sicilia e serviranno da pretesto per contrabbandare come «rivoluzione “interna” alla realtà siciliana», quella che in verità è una conquista esterna.

E che, come tale, è individuata, vissuta e soprattutto sofferta dal Popolo Siciliano (31).

Sia pure in modo elegante e generico il ruolo della mafia nel legittimare la conquista della Sicilia da parte dell’Armata Garibaldina è stato confermato, ancora un volta, nell’intervista rilasciata al quotidiano La Sicilia il 12 luglio 1992 (32) dallo stesso Smith.

Analoga e più incisiva presa di posizione, il 23 novembre 1990, era stata quella dello scrittore siciliano e giornalista, Pietro Antonio Buttitta, che affermava che la mafia è tale «fin dalla genesi dello Stato unitario» come fenomeno, cioè, nato con lo Stato Unitario, confermando, ovviamente, «le intromissioni mafiose nell’impresa garibaldina» (33).

Ovviamente tutte queste precisazioni sono rese necessarie dal fatto che l’opinione pubblica internazionale venga continuamente indotta – ieri co- me oggi – a confondere la minoranza mafiosa con tutto il Popolo Siciliano, che con la mafia non si identifica e che della mafia è semmai vittima. Ciò a causa del contesto giuridico-costituzionale e politico, nel quale i Partiti Italiani (nella stragrande maggioranza) fanno muovere la mafia stessa.
Va pure precisato che oggi la coscienza antimafia nel Popolo Siciliano è cresciuta ed è prevalente. E ciò a prescindere dalle posizioni e dai vizi della classe politica e dei partiti dominanti in Sicilia.

Fine dodicesima puntata/ continua

(22) Il termine «Dittatore» in epoca moderna non ha un bel significato. Così era anche nel 1860. Garibaldi nel suo malcelato delirio di grandezza, però, lo predilige, perché ama riferirsi alla Res Pubblica Romana e all’esempio di Cincinnato…
(23) Salvatore Riggio Scaduto, alto magistrato a lungo in servizio a Caltanissetta, fu uno studioso ed uno scrittore che aveva dedicato molte pubblicazioni al loco natio. A Salemi, appunto, dalle origini, risalenti alla preistoria, fino ai nostri giorni. Sarebbe un grave errore tutta- via considerarlo uno scrittore di fatti locali e, sia pure eccezionalmente, un erudito capace di spaziare in lungo e in largo. Il Riggio Scaduto è stato infatti uno dei più validi esponenti della cultura siciliana contemporanea. Era eclettico. Ha scritto e pubblicato numerose opere, interessantissime sulla storia, sulle tradizioni, sul folklore, sull’arte e sulla letteratura della Sicilia. Nonché saggi di alto valore giuridico, in particolare quello sullo Statuto Speciale della Regione siciliana e sulle conseguenze politico-costituzionali che la mancata applicazione integrale e la soppressione di fatto di alcuni articoli fondamentali di questo comportano. In particolare ha pubblicato Scritti ereticali (Lussografica, Caltanissetta, maggio 2002), che è un’ampia raccolta di articoli, di saggi e di considerazioni sulla «mala signoria dei moderni angioini».

(24) S. Riggio Scaduto (in Salemi, Storia-Arte Tradizioni, Lussografica, Caltanissetta, 1998, pag. 63), ha affermato: «La scelta di Marsala per lo sbarco non fu quindi un puro caso, ma qua- si certamente era stata concordata con il Governo Britannico, che aveva il dente avvelenato contro i Borboni per motivi che non sto qui ad elencare».

(25) Titta Lo Jacono, Judaica Salem, Sellerio, Palermo, 1990, pag. 17.

(26) S. Riggio Scaduto, op. cit., pagg. 63-64.

(27) S. Riggio Scaduto, op. cit., pag. 65.

(28) G. C. Abba, op. cit., pag. 62.

(29) Approfittiamo ancora del Riggio Scaduto per avere qualche notizia sui preti e sui monaci di Salemi che seguirono Garibaldi. L’Autore a pagina 65 dell’opera già citata, infatti scrive che: «Il De Sivo (op. cit., pag. 57) così continua della narrazione dei fatti salemitani: Dappoi arringò a’ sacerdoti in una sala del collegio gesuitico: favellò del suo mandato, dell’unità, del regno di Vittorio, e del Papa che n’era il più grande nemico; al che quelli allibendo chinarono gli occhi, e come lor venne fatto sbiettarono. Pur trovò qualche prete; ma scorto che l’isola era religiosa, smise il bestemmiare il Papa. […] Tra i “buoni preti” nel senso garibaldino delle parole, spicca fra tutti Fra Giovanni Pantaleo da Castelvetrano, che in quel tempo si trovava a Salemi nel convento francescano dei Padri Riformati, il quale fu talmente invaso di amor patrio italico, che seguì subito senza esitazione il nuovo messia laico, impersonato da Garibaldi. Anzi il Catania (op. cit., pagg. 63-64) pone la figura di questo frate fra i cospiratori massonici di Sale- mi facendolo partecipare alla riunione della loggia nel giorno precedente all’arrivo dei Mille, nonché allo incontro che il maestro venerabile, dott. Carlo Verderame, ebbe nel feudo Rampingallo con Garibaldi. Il De Sivo (op. cit., pagg. 60-61) pone, invece, l’incontro tra Fra Pantaleo e Garibaldi a Calatafimi, definendo questo strano monaco “più sgherro che frate, giovane ignorante ed entusiasta” e proseguendo nel racconto dell’incontro con “l’eroe” così conclude: “E il frate acconciato a maniera scenica, con pistole, sciabole, crocifisso e fascia a tre colori, fu il più grande buffone che mai si vedesse”».

(30) D. Mack Smith, op. cit., pagg. 585 e 586.

(31) Per la verità lo Smith non ama dire che il reclutamento, il coinvolgimento e la strumentalizzazione di mafia, camorra e di altre associazioni malavitose sono stati programmati dal Gabinetto inglese certamente dopo i moti del 1848, ma probabilmente, soprattutto nella Napo- litania, per la camorra, ancora prima. Ci permettiamo quindi di ricordarlo noi stessi.

(32) La Sicilia, Catania, 12 luglio 1992, intervista a cura di Paola Emilia Cicerone.

(33) Pietro Antonio Buttitta, lettera al quotidiano La Stampa, Torino, 23 novembre 1990.

 

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