Storia & Controstoria

Il massacro dei Savoia a Pontelandolfo e Casalduni che i libri di storia continuano a nascondere

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La vera storia del Risorgimento nel Sud Italia deve restare ancora oggi nascosta. A 157 anni di distanza la strage di Pontelandolfo e Casalduni del 14 agosto del 1861, di cui oggi ricordiamo l’anniversario, non trova ‘ospitalità’ nei libri di storia italiani. Come per l’Impresa dei Mille e per altre ‘imprese’ del Risorgimento nel Sud, si va avanti con le bugie. Eppure è ormai provato che, nel Sud, i generali di casa Savoia – Enrico Cialdini in testa – si comportarono peggio dei nazisti a Marzabotto

Esattamente 157 anni fa, il 14 agosto del 1861, all’alba dell’Unità d’Italia, va in scena una strage ai danni degli abitanti di due paesi in provincia di Benevento, Pontelandolfo e Casalduni: una strage che mai mente criminale avrebbe potuto concepire. I protagonisti di questa bruttissima pagina della storia italiana sono i “liberatori” italo-piemontesi, con in testa il generale Enrico Cialdini.

Alle prime ore del giorno di quel 14 agosto, come già ricordato, si scrive una delle pagine più nere del Risorgimento, puntualmente ignorata dalla storiografia ufficiale e dai testi scolastici. Su ordine del già citato generale Enrico Cialdini viene inviata, per una operazione di rappresaglia (poiché erano stati uccisi dai briganti alcuni soldati del regio esercito), al comando del colonnello Pier Eleonoro Negri, una colonna di 500 bersaglieri con la disposizione di massacrare tutti gli abitanti, ritenuti complici dei briganti, e per vendetta radere al suolo i due paesi.

La mattina del 14 agosto i soldati raggiungono i due paesi. Casalduni viene trovata quasi deserta: gran parte degli abitanti, intuendo quello che stava per succedere, si è data alla fuga. Completamente diverso lo scenario a Pontelandolfo, dove gli abitanti vengono sorpresi nel sonno.

I militari piemontesi assaltano le chiese e le case: saccheggi, torture, stupri: quella mattina succede di tutto. Le cronache dell’epoca raccontano che i militari danno fuoco alle abitazioni lasciando dentro gli abitanti.

Si racconta anche che i bersaglieri attendevano l’uscita dei civili dalle proprie abitazioni in fiamme per sparargli addosso. Chi riesce salvarsi dalle fiamme e dal tiro a bersaglio viene catturato e poi fucilato. Per le donne trattamento a parte: cattura, strupri, sevizie e uccisione per quelle che si opponevano.

Enrico Cialdini è il mandante del massacro di Pontelandolfo e Casalduni. In virtù dei più ampi e criminali poteri che arbitrariamente si attribuiva, in dispregio delle leggi e delle più elementari norme umanitarie, fa fucilare sul posto, senza processo, intere famiglie, mette a ferro e fuoco interi paesi e villaggi del Mezzogiorno d’Italia e fa arrestare e deportare tutti coloro che danno solidarietà e un minimo di sussistenza ai cosiddetti briganti.

Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, Cialdini solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. Ed è esattamente quello che avviene, ad opera di questo criminale, a Pontelandolfo e Casalduni. E dire che a questo esecrabile personaggio nel nostro Paese sono dedicate numerose vie e piazze che sarebbe ora di cancellare!

Nel 1920 Antonio Gramsci, su ‘Ordine Nuovo’, a proposito di questi genocidi e di queste vere e proprie pulizie etniche perpetrate dei “civilizzatori e liberatori” italo-piemontesi a danno delle popolazioni meridionali così scrive:

“Lo Stato italiano si è caratterizzato come una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.

Ma per restare nello specifico degli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, ecco quanto riporta dettagliatamente e testualmente nel suo diario Carlo Margolfo, uno dei 500 Bersaglieri entrati, all’alba di quel maledetto 14 agosto in paese a compiere la strage:

“Al mattino del mercoledì, giorno 14, riceviamo l’ordine superiore di entrare nel Comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, di circa 4500 abitanti. Quale desolazione non si poteva stare d’intorno per il gran calore e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case”.

Questa la raccapricciante testimonianza del bersagliere Margolfo che è attivo protagonista di tale eccidio. L’ordine è perentorio: radere al suolo i due paesi, non fare rimanere in piedi una sola pietra.

Come già ricordato, vengono prese d’assalto le chiese e le case e, al grido di “piastra, piastra”, vengono saccheggiate per poi essere incediate. Il “diritto di rappresaglia” consente a queste belve di uccidere, in un orgia di sangue, anche vecchi e bambini e stuprare le donne senza prima avere loro strappato gli orecchini. Concettina Biondi, una ragazzina appena sedicenne, viene violentata malgrado l’ordine fosse quello di risparmiare almeno i bambini.

La storia ufficiale ha nascosto quasi tutto. Ancora oggi non si conosce nemmeno il numero esatto delle vittime.

Ecco i genocidi e le pulizie etniche che venivano perpetrate agli albori dell’Unità d’Italia dai liberatori piemontesi nei confronti delle popolazioni meridionali. Si può senz’altro dire che la ferocia, per “diritto di rappresaglia” dimostrata in quel maledetto 14 agosto del 1861 dagli italo piemontesi nei confronti degli abitanti di Pontelandolfo e Casalduni fu senza dubbio superiore a quella dimostrata, sempre per “diritto di rappresaglia”, dai nazisti esattamente 83 anni dopo nell’agosto del 1944 a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema, dove gli abitanti furono anch’essi fucilati senza saccheggi e stupri e le case dei due paesi non furono bruciate, al contrario di quelle di Pontelandolfo e Caslduni di cui i piemontesi ne lasciarono intatte solamente tre.

Eppure i nostri libri di storia e le enciclopedie non fanno altro che ricordare opportunamente perché non se ne perda la memoria le vittime dei nazisti dell’agosto del 1944. Ma è anche giusto ritrovare la memoria di quegli eccidi e di quelle pulizie etniche di cui furono vittime le popolazioni meridionali ad opera di altri italiani che si spacciarono per “liberatori e civilizzatori”. Assassini le cui gesta criminali vengono ancora oggi puntualmente ignorate dalla storiografia ufficiale e scolastica.

Le passate celebrazioni del 150 anniversario dell’Unità d’Italia sarebbero state una buona occasione per ricordare e ritrovare una memoria condivisa. E lo sono state in parte quando, nell’ambito delle manifestazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, Giuliano Amato, presidente del comitato dei garanti delle celebrazioni, ha dichiarato agli abitanti di Pontelandolfo:

“A nome del presidente della Repubblica Italiana vi chiedo scusa per quanto qui è successo e che è stato relegato ai margini dei libri di scuola”.

Scuse tardive, ma che confermano che questi fatti non sono mai stati riportati nei libri di storia.

Lo scorso anno la vicenda è stata ricordata da un’iniziativa del Movimento 5 Stelle con una serie di mozioni presentate ai Consigli regionali di Campania, Puglia, Molise, Basilicata ed Abruzzo. E’ stata chiesta l’istituzione di un giorno della memoria per le vittime del Risorgimento datato 13 febbraio (ricorrenza della caduta di Gaeta). L’occasione per ribadire che “il tempo è maturo per una riflessione e per analizzare cosa accadde alle popolazioni civili meridionali e quanto ancora ci costa nel presente. Nei testi scolastici si fa appena un accenno. Chiediamo solo la verità”.

Iniziativa che ha suscitato la dura reazione dei quotidiani Libero e Il Giornale e dei risorgimentalisti di mestiere e di regime che non vogliono accettare l’idea che si faccia finalmente luce su fatti ed avvenimenti della nostra storia per troppo tempo nascosti e dimenticati.

Diceva Leonardo Sciascia:

“Questo è un Paese senza memoria e io non voglio dimenticare”.

 

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Foto tratta da napoli.carpediem.cd

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