Il ‘caso’ del PD: se un partito è fatto parti, diviso, non è più un partito, ma un dopolavoro

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Ci sono momenti in cui, per evitare che un partito diventi un non-partito dove si litiga in modo permanente – che, alla fine, è l’immagine del Partito Democratico degli ultimi tre anni – è meglio che si consumino le espulsioni, le dimissioni, le scissioni  minoritarie, le scissiparità (metà qui, metà là): sempre meglio del babbìo e dei cortili

Oggi affronteremo un tema di estrema importanza e attualità. Un tema tripartito, quasi quadripartito.

Che cos’è un partito politico, e che cos’è la democrazia in un partito. Quindi analizzeremo il concetto di scissione  e derivati, e infine la nozione di scissiparità.

Dicesi  partito  (politico) un’associazione  volontaria di cittadini che aderiscono ad una determinata concezione politica e sociale e all’azione organizzativa per attuarla (Devoto Oli); ovvero “un’associazione rivolta ad un fine deliberato” (Weber).

Il partito ideale è quello che coniuga la massima democrazia interna e la massima unità nella realizzazione delle decisioni prese a maggioranza. Nel momento stesso in cui una proposta ha prevalso dopo un dibattito aperto democratico e libero, deve cessare ogni diversificazione interna e tutti devono mettersi a disposizione per del raggiungimento dell’obbiettivo.

Emblematico è il modo di procedere  del partito comunista (bolscevico), dopo la riorganizzazione leninista. Eccone un esempio, tratto da “La rivoluzione bolscevica” di Edward Carr. Al comitato centrale del partito (bolscevico) si discusse a lungo su una certa questione. Ne esponevano e difendevano le tesi opposte Zinoviev  e Bucharin.  Dopo un aspro dibattito prevalse la tesi di Bucharin.

L’esecuzione della decisione, assunta a maggioranza, fu affidata agli stessi  Bucharin e Zinoviev.

Come dire, a casa nostra, che l’esecuzione di un deliberato congressuale del Partito democratico viene affidata congiuntamente al proponente (mettiamo Orfini) e all’opponente (mettiamo Speranza).

Lenin vinse, Renzi, non so.

Ricordiamo che la parola partito viene dal latino pars, partis, parte, in contrapposto a tutto. Una parte che si distingue per la sua parzialità, per la sua autoreferenzialità, per il suo integralismo.

In un partito così fatto non c’è posto per chi non accetta le sconfitte subite democraticamente.

Se un partito invece è partito, ovvero fatto in parti, diviso, non è più un partito, è un dopolavoro rissoso dove pensionati della politica litigano con politici in servizio permanente effettivo, oppure un salotto affollato da galline senza testa. Oppure tutte e due.

Ben vengano le espulsioni, le dimissioni, le scissioni  minoritarie, le scissiparità (metà qui, metà là): sempre meglio del babbìo e dei cortili.

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