Prima Guerra Mondiale: centinaia di meridionali mandati a morire per una ‘patria’ che non era la loro patria!

5 novembre 2019

Il costo della guerra del 1915-1918 lo pagarono soprattutto i meridionali. La ‘carne da macello’ che gli ufficiali mandavano a morire nelle trincee era costituita, per lo più, da siciliani, calabresi, campani, lucani e sardi, mentre i settentrionali erano ‘produttivamente’ impegnati (e al sicuro) nelle fabbriche di armi e di cannoni. E se i ‘cafoni’ del Sud si rifiutavano di morire sotto il fuoco austriaco, ad ammazzarli, fucilandoli alle spalle, ci pensavano i vergognosi ufficiali di casa Savoia

di Ignazio Coppola

Novembre: mese in cui si concluse nel 1918 vittoriosamente lo sforzo bellico dell’Italia contro l’Austria e sancito dal bollettino di guerra n. 1268 pubblicato alle ore 12,00 del 4 novembre a firma del comandante supremo del Regio Esercito Armando Diaz. Un bollettino celebrativo e trionfalistico di una vittoria che costò all’Italia, in quel mattatoio senza fine che fu appunto la Grande guerra, 650 mila morti e 2 milioni tra feriti e mutilati

Morti, feriti e mutilati: la maggior parte di questa “carne da macello” era composta da meridionali. Una strage che poteva essere evitata se fosse prevalso il buon senso, anziché mandare al massacro per il disegno di coloro che, Vittorio Emanuele III in testa contro la volontà del Parlamento e della maggioranza degli italiani, volevano la guerra ad ogni costo.

E’ bene, per questo, raccontare e documentare quelle verità nascoste che come al solito la storia ufficiale ci hanno sempre occultato.

L’Italia allo scoppio della grande guerra il 28 luglio del 1914 era vincolata dal patto della Triplice alleanza con Germania e Austria, patto militare difensivo sancito nel 1882, che obbligava questi tre Paesi ad intervenire a difesa uno dell’altro nel caso uno dei contraenti fosse stato aggredito.

Allo scoppio della guerra nel luglio del 1914 l’Italia si tirerà fuori dalla Triplice alleanza con Austria e Germania e, in attesa degli eventi, assumerà una posizione di neutralità, che durerà sino al 23 maggio 1915, giorno in cui dichiarerà guerra al suo precedente alleato, ovvero all’Impero Austro-Ungarico che si era dichiarato disponibile a vantaggiose concessione territoriali a patto che l’Italia non entrasse in guerra contro gli imperi centrali.

Ma che cosa era successo e quali furono gli avvenimenti che intercorsero in quei dieci mesi tra lo scoppio della grande guerra il 28 luglio del 1914 e l’entrata nel conflitto dell’Italia sino allora neutrale il 23 maggio del 1915? Furono mesi in cui l’ Italia veniva blandita e tirata dalla “giacchetta” dagli imperi centrali da un lato e dalle potenze alleate dell’intesa dall’altro.

I primi – Austria-Ungheria e Germania, con cui l’Italia come detto aveva a suo tempo sottoscritto il patto di non aggressione della Triplice alleanza – spingevano e si auguravano, per non essere costretti ad aprire un ulteriore fronte di guerra, che l’Italia rimanesse neutrale, offrendo in cambio al governo italiano vantaggiosissime concessioni territoriali che avrebbero consentito, senza spargimento di sangue, il completamento del processo di Unità nazionale.

I secondi – i Paesi dell’ Intesa con Francia e Inghilterra in testa – al contrario spingevano con tutti i mezzi perché l’Italia entrasse in guerra per aprire così un nuovo fronte sul versante italiano e mettere in difficoltà gli imperi centrali e, in primo luogo l’Austria, offrendo a loro volta a guerra conclusa altrettante e vantaggiose concessioni territoriali.

Furono mesi di attesa, dal luglio del 1914 al maggio del 1915. Trattative che andavano avanti mentre nel Parlamento, nel Paese e nelle piazze, senza esclusione di colpi, si accendevano e si consumavano gli scontri tra neutralisti ed interventisti.

Uno dei più convinti sostenitori della neutralità fu, in quei frangenti, Giovanni Giolitti, che tra l’altro su questa sua linea della neutralità godeva di un’ampia maggioranza in Parlamento e nel Paese e per la qual cosa subì duri e violenti attacchi da parte degli interventisti che arrivarono al punto di minacciarlo fisicamente fin sotto la sua abitazione romana.

Giolitti, mentre il capo del governo, Antonio Salandra, sotto traccia segretamente lavorava per un accordo con i Paesi dell’Intesa che si concluderà con la firma del patto di Londra del 26 Aprile del 1915, convinto della debolezza militare dell’Italia, credeva a ragion veduta che la strada migliore fosse quella della trattativa diretta con l’Austria al fine di ottenere “parecchio” (consistenti concessioni territoriali) senza entrare in una sanguinosa guerra che avrebbe portato lutti e tragedie, come del resto poi avvenne.

Giolitti in buona sostanza era fermamente convinto che l’Italia, rimanendo fuori dal conflitto, avrebbe potuto ottenere, senza spargimento di sangue, il soddisfacimento di tutte le sue rivendicazioni territoriali. Di Giolitti e dell’età giolittiana gli storici dovrebbero farne una opportuna rivalutazione anziché continuare a descriverlo, per un episodio a se stante, da sempre come il “Ministro della malavita”.

Con la firma del patto di Londra da parte del Presidente del Consiglio Salandra, il 26 aprile del 1915 l’Italia si schiera con le forze dell’Intesa e scende in guerra contro i suoi ex alleati della Triplice alleanza, Germania ed Austria. Invano ai primi di Maggio del 1915 la diplomazia austriaca offrirà sino alla fine generosissime concessioni territoriali al governo italiano quali: la cessione del Trentino e di tutta la riva occidentale dell’Isonzo, la sovranità su Valona e sull’isola di Saseno, l’autonomia del porto e della città di Trieste, nell’ambito della duplice monarchia (Italiana e austriaca) e la possibilità di un accordo su Gorizia e le isole dalmate.

Era il massimo o per meglio dire il “parecchio” come lo definiva Giolitti, che l’Italia poteva ottenere e non ottenne perché il governo Salandra tramite l’ambasciatore a Londra, il marchese Guglielmo Imperiali, aveva segretamente già firmato il 26 aprile del 1915 il patto di Londra e non si poteva più tornare indietro e il problema fondamentale, per lui, era quello di trovare il consenso necessario nel Paese e nelle forze politiche per entrare in guerra e tutta la sua azione fu rivolta a questo fine.

Ma il 13 maggio 1915, preso atto che il governo era in minoranza e la maggioranza della Camera decisamente neutralista, rassegnò le dimissioni. Falliti tutti i tentativi di formare un nuovo governo la situazione veniva rimessa nelle mani del re Vittorio Emanuele III che era notoriamente favorevole alla guerra. E la guerra divenne inevitabile e così il 23 Maggio viene inviata la dichiarazione di guerra all’Austria.

In buona sostanza, la drammatica e criminale conclusione fu che Salandra e il suo governo, tramando in segreto con il re alle spalle del Parlamento e del Paese, riuscirono a trascinare l’Italia in guerra. E sarà, come avvenne, una guerra funesta, non solo per lo sproporzionato tributo di vite umane e di mezzi che essa richiederà al Paese, ma per gli effetti sconvolgenti che avrà successivamente sull’assetto della società italiana con l’avvento del fascismo.

A questo punto, come spesso si suole dire, la storia non si fa con i se e con i ma. Ma se il governo italiano e il re avessero accettato le convenienti concessioni territoriali che l’Austria ex alleato aveva insistentemente offerto perché l’Italia non entrasse in guerra, alla fine del conflitto non ci sarebbero stati certamente più di 650 mila morti e più di 2 milioni di feriti e di mutilati con contadini, operai e giovani mandati al macello nelle trincee del Carso, sul Piave, a Caporetto e nelle decimazioni in massa ordinate dagli stessi generali italiani.

‘Carne da macello’ fornita soprattutto dai meridionali siciliani, calabresi, campani, lucani e sardi, mentre i settentrionali per lo più erano produttivamente impegnati nelle fabbriche di armi e di cannoni.

Una guerra inutile, una “inutile strage” come ebbe a definirla il papa di allora, Benedetto XV°, e che, a quanto abbiamo visto, si poteva responsabilmente e con buon senso evitare e che ricade sulla coscienza di chi, come il re Vittorio Emanuele III di Savoia, il suo stato maggiore il governo e i politici guerrafondai non si fecero scrupolo di mandare al massacro la migliore gioventù di quel tempo.

E se l’Italia, alla vigilia delle guerra, allora avesse accettato le concessioni territoriali offerte dall’Austria che poi, per vastità e dimensioni, non si discostarono di molto da quei territori conquistati alla fine della guerra con il sacrificio di milioni di vittime non saremmo a celebrare il prossimo novembre il centenario (1918-2018 ) di una vittoria che costò un altissimo prezzo in vite umane a centinaia di migliaia di famiglie italiane.

Di celebrare quell’inutile massacro che passò alla storia con il nome di “vittoria mutilata” ne avremmo fatto e ne faremmo oggi volentieri a meno: oggi vale solo la pena non celebrare e festeggiare quella inutile vittoria, ma ricordare e commemorare i morti di quella carneficina di tanti italiani e la maggior parte meridionali mandati al macello da generali, politici e guerrafondai senza scrupoli.

E qui come non ricordare oltre le centinaia di migliaia di morti e i milioni di feriti e mutilati di quella inutile carneficina i processi le condanne a morte e le decimazioni di migliaia di soldati italiani che venivano messi al muro dai loro stessi ufficiali per un nonnulla. Si poteva finire al muro solo per avere la divisa in disordine.

Furono migliaia i condannati a morte nella Grande Guerra. Ma a questa cifra bisogna aggiungere le vittime non registrate. Un caso emblematico della barbarie e dei criminali comportamenti degli ufficiali nei confronti dei loro sotto posti fu quello che capitò a Novanta Padovana il 16 novembre 1917 quando il generale Andrea Graziani ordinò l’immediata fucilazione di un soldato che lo aveva salutato tenendo la pipa in bocca.

Questi criminali, poi dichiarati eroi di guerra come lo fu Andrea Graziani, soprannominato il generale “fucilatore”, avevano così, senza appello, potere di vita e di morte sui loro sottoposti. Nel migliore dei casi, per assicurare una parvenza di legalità, vi era un tribunale composto da un colonnello, due maggiori e tre capitani che decidevano, investiti da poteri divini, come i soldati che avevano trasgredito o disatteso gli ordini non meritavano altro che di essere messi al muro e fucilati alla schiena.

Questo era il clima nel quale vivevano i soldati italiani al fronte con l’imbarazzo della scelta di essere uccisi dalle pallottole austriache o finire al muro fucilati incredibilmente per inezie dai loro stessi ufficiali.

Scrive L’Espresso in un volume dedicato alla grande guerra sul tema ‘Processi e fucilazioni’:

“Ai soldati italiani non bastava rischiare la vita ogni minuto. Non bastava l’orrore che dovevano sopportare ogni giorno. Non bastavano le rinunce e le privazioni alle quali erano costretti, dormire nel fango, saltare i pasti. Soffrire la sete. Non bastavano i turni infiniti in prima linea, il rinvio reiterato delle licenze. Non bastavano le marce estenuanti: come se tutto questo non bastasse ci si mise anche la rigida disciplina del codice militare. E l’arroganza di un giovane ufficiale che avrebbe potuto essere tuo figlio, ma siccome ha studiato e solo perché ha il titolo di studio di scuola media superiore, te lo ritrovi a decidere della tua via o della tua morte. E inflessibile non te ne fa passare una. Del resto il codice militare in vigore permetteva agli ufficiali di fare tutto. E il generale Luigi Cadorna intervenne con tutti gli strumenti disponibili per irrigidire la disciplina, instaurando un clima di terrore. Le figure di reati si moltiplicano, le pene si irrigidiscono, c’è una punizione adeguata per tutto. I tribunali funzionano a pieno regime solo per i renitenti vengono istituiti 470.000 mila processi, mentre a carico dei soldati al fronte scattano 400.000 dei quali 170.000 portano alla condanna dell’imputato: La gran parte di questi 100.000 sono disertori che non disertano in faccia al nemico. Le condanne a morte comminate dai tribunali militari sono 4 mila 3mila delle quali in contumacia . Di quelle che restano almeno 750 vengono eseguite per fucilazione,decine di migliaia sono le sentenze di ergastolo. Difficile sapere quanto sono le esecuzioni sommarie consumate in prima linea. Poco più di 100 sono i casi certi e documentati di ufficiali che fanno passare per le armi i sottoposti , ma è fin troppo ragionevole pensare che siano stati molti di più.”

Questo quanto puntualmente e testualmente documentato dal numero edito tempo addietro da L’Espresso per ricordare il centenario della la “grande guerra”. E questo era il clima di terrore e di esasperazioni in cui vivevano quotidianamente i soldati italiani al fronte e nelle trincee con l’imbarazzo della scelta se dover morire per fuoco nemico o per fuoco amico al grido di “avanti Savoia” o “indietro Savoia”.

E dire che si è sempre ipocritamente sostenuto dalla storiografia ufficiale e di regime per giustificare questo inutile massacro che la “grande guerra” servì a cementare ancor di più l’Unità nazionale e avvicinare il Nord e il Sud del Paese. Niente di più falso! La Prima Guerra Mondiale servì solo a strappare dei poveri cristi soprattutto meridionali alle loro terre e alle loro famiglie per precipitarli in luoghi a loro sconosciuti a fianco di gente che parlava dialetti incomprensibili e diversi da loro e in una guerra di cui non si sentivano emotivamente partecipi, perché alla maggior parte di loro mancava il senso di appartenenza ad una patria di cui non si sentivano figli.

Ecco perché val bene ricordare tutto questo e dedicarlo alla memoria di tutti quei poveracci che trascorsero oltre tre anni in trincea in mezzo al fango, alla sporcizia, ai topi, alla neve e al freddo prima di essere mandati all’assalto e al massacro da generali criminali in insensati attacchi frontali sotto il fuoco delle artiglierie e delle mitragliatrici nemiche, che servivano solo di arricchire di medaglie e di gradi ufficiali superiori degli stati maggiori come Cadorna o Badoglio durante il disastro di Caporetto.

Solidarietà ai nostri caduti, ma anche ai soldati austroungarici che patirono le stesse sofferenze e anche loro vittime dei mostri dell’imperialismo e del militarismo guerrafondaio.

Questa fu, in buona sintesi, la Grande guerra del ’15/’18: un inutile massacro voluto da parte italiana dai Savoia e da politici e guerrafondai senza scrupoli in dispregio alla volontà del Parlamento e della maggioranza del popolo. Un inutile massacro o, per meglio dire, una “inutile strage” come ebbe a definirla il papa di allora Benedetto XV° che ricadrà nella memoria storica sulla coscienza di chi criminalmente la volle e che i tribunali della storia condanneranno senza appello.

Per ricordare questo inutile massacro non serve a nulla festeggiare pomposamente e trionfalmente una vittoria inutile grondante del sangue di milioni di italiani; sarebbe invece opportuno ricordare e commemorare quegli stessi italiani che furono mandati gratuitamente e inutilmente al macello e che non tornarono alla loro terra, alle loro famiglie e ai loro affetti.

Per questo l’anniversario che abbiamo ricordato ieri – 4 novembre – dovrebbe essere una buona occasione non di festeggiare una vittoria di cui, per come andarono le cose, ci dovremmo vergognare, ma per ricordare e celebrare sommessamente senza offensivi trionfalismi i morti di quell’inutile strage per un doveroso atto dovuto nei confronti della verità storica. Soprattutto nei confronti dei tantissimi che, nelle trincee del Carso, sul Piave, a Caporetto, sul Monte Grappa e sulle rive dell’Isonzo, sacrificarono le loro giovani vite, falcidiati dalle mitragliatrici del nemico o fucilati alla schiena dai loro stessi ufficiali.

Avremmo reso così un servigio alla dignità e alla verità storica del nostro Paese e un atto di giustizia nei confronti di tanti poveri cristi mandati a morire al grido di “avanti Savoia” per un ideale e per una patria per loro ancora poco conosciuta.

Foto tratta da Riforma.it

 

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