Il debito con il Banco di Napoli che Menotti Garibaldi – figlio dell’eroe dei due mondi – non pagò mai!

19 febbraio 2017

La famiglia Garibaldi apparteneva a quel genere di persone che in Sicilia vengono chiamate “malupaaturi” (traduzione: gente che non paga i debiti). Il figlio Menotti fece un ‘tappo’ di 200 mila lire al Banco di Napoli (allora era una cifra notevole: alcuni milioni di Euro di oggi). Allora le banche non diventavano azioniste dei debitori e il figlio dell’eroe dei due mondi non finì in galera perché era parlamentare. Garibaldi, da parte sua, non pagò mai le tasse per l’isola di Caprera

di Ignazio Coppola

Tra vizi privati e pubbliche di Giuseppe Garibaldi molti di noi si sono spesso chiesti con quali soldi lui, che si professava povero in canna, è riuscito a comprare l’isola di Caprera. Si disse grazie all’eredità ricevuta in seguito alla morte del fratello. In genere, come avviene per giustificare l’acquisizione di patrimoni e di grosse somme di denaro di dubbia provenienza, si tende, quasi sempre, a dire che provengano da una eredità ricevuta o, come accade oggi, da una vincita all’Enalotto. E il nostro buon Garibaldi non si sottrasse, con buona pace dei dubbiosi, a siffatta consuetudine.

Il suo rapporto con il denaro si può dire sia stato sempre enigmatico e conflittuale. Come conflittuale fu, nell’ultima parte della sua vita, il suo rapporto con le banche e il fisco, che lo tediavano per cospicui debiti pregressi del figlio Menotti, di cui si era fatto garante, e per tasse dovute e mai pagate inerenti la proprietà dell’isola di Caprera. Nel primo caso, il Banco di Napoli chiese a più riprese a Menotti la restituzione di un debito di 200.000 lire (l’equivalente di alcuni milioni di Euro dei nostri giorni) di cui il padre s’era fatto garante. Alla richiesta di far fronte al prestito concesso al Garibaldi Menotti di voi figlio, l’integerrimo eroe parecchio infastidito e arrabbiato così rispose:

“Ma che volete voi? Io vi ho liberato e pretendete anche che restituisca un prestito”.

I resoconti bancari dell’epoca annotano che il prestito dalla famiglia Garibaldi non fu mai restituito. Menotti, a quel tempo essendo deputato, per sfuggire alla incriminazione e alle relative conseguenze penali, si servì dell’immunità parlamentare.

Gli altri problemi finanziari Garibaldi li ebbe con il fisco che, ripetutamente, bussava alla sua porta per tasse dovute per la sua casa e l’isola di Caprera. Alle incessanti richieste del Monte dei Paschi di Siena (guarda un po’ chi si rivede ) delegato all’incasso, l’integerrimo generale, questa volta con meno arroganza, così rispose:

“Signor esattore mi trovo nell’impossibilità di pagare le tasse; lo farò appena possibile”.

E dire che in quel periodo i componenti la famiglia Garibaldi non dovevano proprio stare tanto male, avendo ottenuto dal governo diversi incarichi e consulenze abbastanza remunerative per una infinità di opere urbanistiche e di bonifica dell’agro romano e della costruzione degli argini del Tevere. Ma poiché, da che mondo è mondo, i potenti cercano, ove gli riesca, di evadere le tasse, il buon Garibaldi, da buon cittadino rispettoso della legalità, non si sottrasse alla regola. Un bell’esempio. Ieri come oggi non è cambiato niente.

Da massone a servo della Chiesa, quindi da repubblicano a servo del re. La coerenza non era di certo il suo forte. E poi, ancora, da paladino della legalità ad evasore fiscale, da animalista, per sua ammissione, a spietato cacciatore: come quando, infatti, con nobile animo si schierò, avendo assolto il suo compito verso gli uomini, predicando fratellanza e uguaglianza e praticando come vedremo tutto il contrario, a difesa degli animali e dei maltrattamenti loro inflitti.

Il 1 Aprile 1871, Giuseppe Garibaldi, Anna Winter, contessa di Sountherland, e Timoteo Ribaldi fondavano la Società Protettrice degli Animali contro i mali trattamenti come mezzo di educazione morale e di miti costumi a protezione del patrimonio faunistico e a tutela dell’ambiente. Fin qui torna tutto a onore del nostro eroe e della società da lui voluta e fondata.

Ma qui val bene, e non a suo onore, ricordare che l’ ”animalista” Garibaldi fu, come egli stesso ricorda nelle sue memorie, in tutta la sua vita, uno spietato cacciatore, se dobbiamo prestare poi fede a quanto, appunto, scrisse nell’autobiografia a proposito della sua permanenza da esule a Tangeri, ospite del console sardo Giovan Battista Carpanetti, nel gennaio del 1850:

“Io passai vita tranquilla e felice, quanto lo può esser quella d’un esule italiano. Almeno due volte la settimana si andava a caccia e si cacciava abbondantemente”.

“In aspettativa d’impiego vivo da cacciatore – scrisse in quel periodo, tra l’altro, a suo cugino Augusto – nell’ultima mia caccia ammazzai un cinghiale e sono divenuto il terrore dei conigli”.

L’animalista Garibaldi, nel tempo libero da esule, per sua stessa ammissione, non si dilettava di tiro al piattello, ma faceva strage di animali. Che poi tanto amico degli animali non fosse e che, al contrario, fossero gli animali suoi amici fedeli sino a morirne, lo dimostra un significativo episodio dopo la sua partenza da Tangeri per New York, allorquando il suo fedele cane – Castore – in quell’occasione, da lui abbandonato, pianse per diversi giorni la separazione dall’ingrato amico e, senza volere più prendere cibo, si lasciò morire di crepacuore.

Ancora una volta il nostro eroe aveva dimostrato che la sua pratica di vita non era coerente con le sue virtù e con i suoi sbandierati valori.

Ecco chi era l’equivoco e contraddittorio nei termini e nella vita Giuseppe Garibaldi. I suoi estimatori ed agiografi, loro malgrado, che evidentemente non lo hanno mai conosciuto a fondo, ne prendano atto e se ne facciano alla fine una ragione.

Da leggere – scritti sempre dal nostr Ignazio Coppola – anche questi articoli:

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