Autonomia delle Regioni: perché il Parlamento non può essere esautorato

16 febbraio 2019

La tesi che, in base al nuovo art. 114 della Costituzione, Stato e Regioni sono posti su un piano di parità e dunque non vi può essere fra le due istituzioni un rapporto gerarchico è errata. In questo caso, infatti, non si tratta di un rapporto tra due entità entrambe conchiuse, ma fra un soggetto (la Regione) che è parte e l’ordinamento repubblicano che lo comprende e di cui il Parlamento è diretto organo rappresentativo

di Andrea Piraino

In attesa del vertice politico tra il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ed i due vice-premier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, che si terrà la prossima settimana in ordine ai problemi non risolti dell’intesa per “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” da riconoscere alle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, non è superfluo fare qualche considerazione sul merito e, soprattutto, sul metodo procedimentale che dovrebbe portarci ad un nuovo modello di regionalismo: cd. differenziato.

Innanzi tutto va precisato che l’iniziativa portata avanti dalle tre Regioni del Centro-Nord ed altresì avviata da pressoché tutte le altre Regioni ordinarie del Paese (meno Abruzzo e Molise) è non solo legittima in quanto prevista esplicitamente dal terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, ma forse addirittura decisiva per intraprendere finalmente la via maestra della regionalizzazione effettiva dell’Italia, mancata non solo dall’unificazione al 1948, ma anche dall’istituzione delle Regioni speciali e dall’approvazione della Costituzione fino ad oggi, non potendosi certo ritenere autenticamente regionale il modello adottato con la creazione delle Regioni ordinarie nel 1970 ed essendo rimasto finora, appunto, inapplicata la riforma costituzionale del titolo V della Costituzione e pure avendo dovuto subire (fortunatamente respinto dal voto popolare con il referendum del 2016) il tentativo di riforma, voluto dal governo Renzi, di riaccentrare nello Stato i poteri conferiti alle Regioni.

Naturalmente, però, questo riconoscimento di maggiori poteri voluto soprattutto dalle Regioni del Nord non dovrà cancellare i caratteri di solidarietà e di cooperazione che distinguono il modello delineato dalla nostra Carta costituzionale. Il che significa che “il fondo perequativo”, “le risorse aggiuntive” e “gli interventi speciali” previsti dall’art. 119 cost. in favore delle Regioni svantaggiate continuino ad essere alimentati e sostenuti anche dalle Regioni attributarie delle “ulteriori” materie previste dalla Costituzione, per evitare che la coesione e la solidarietà sociale nonché l’effettivo esercizio dei diritti della persona vengano cancellati, determinando una inaccettabile divisione tra “cittadini di serie A e di serie B”.

Al di là delle parziali intese finora raggiunte tra le tre Regioni protagoniste di questa prima applicazione dell’art. 116 cost. ed il Mef, il tema, però, non è per nulla facile -trattandosi, in verità, dell’avvio della più profonda riforma dello Stato- e per questo non bisogna avere fretta. Soprattutto bisogna dotarsi di adeguati strumenti teorico-pratici come i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) -che sono di competenza esclusiva dello Stato [art. 117/2 lett. m) cost.] e rappresentano lo strumento migliore per garantire l’eguaglianza “su tutto il territorio nazionale”- i fabbisogni standard, i costi standard -che vanno applicati a queste Regioni prendendo come riferimento quelli delle Regioni più virtuose e non della media nazionale che finirebbe per premiarle oltre misura quando il presupposto delle “ulteriori” competenze loro riconosciute dovrebbe essere il minor costo di gestione rispetto alle altre Regioni- perché alla fine i conti siano in equilibrio ed i diritti fondamentali dei cittadini, che come ha ricordato Michele Ainis sono indivisibili, non abbiano a subire strappi e siano garantiti a tutti.

Questo sul piano del merito. Sul piano del metodo, invece, l’altro gruppo di questioni che non può essere ignorato e che dà adito ad un serrato dibattito riguarda il procedimento che bisogna seguire per attuare la disposizione costituzionale. Chiaramente non interessano più le fasi (dell’iniziativa, della consultazione degli enti locali e, persino, della stipula dell’intesa fra Stato e Regione) che ormai si sono concluse o, comunque, sono irreversibilmente canalizzate. Ciò che, invece, ora interessa e pone fondamentali problemi è il quarto e più importante momento del procedimento che prevede, come dice l’art. 116/3 cost., l’approvazione con legge adottata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti sulla base dell’intesa fra lo Stato e la Regione interessata.

Ora, non certo per quanto attiene al requisito della maggioranza assoluta dei componenti delle due Camere, ma sicuramente per la condizione che la norma costituzionale pone di corrispondenza all’intesa stipulata tra lo Stato e la Regione, il procedimento legislativo da seguire pone diversi problemi che sono anche alla base del confronto che si è registrato l’altro ieri sera in Consiglio dei Ministri tra esponenti del M5S e rappresentanti della Lega. In estrema sintesi, le tesi che si fronteggiano sono tre.

Secondo la prima, questa legge non dovrebbe essere approvata con l’ordinario procedimento legislativo che prevede la possibilità di modificare l’iniziale disegno presentato alle Camere, ma con uno speciale procedimento (riconducibile a quello dell’art. 8 cost. per le intese tra Stato e confessioni religiose diverse dalla cattolica) consistente in una unica votazione di ratifica, naturalmente a maggioranza assoluta, sull’intero immodificabile testo dell’intesa raggiunta a livello governativo.

In base alla seconda, invece, le Camere potrebbero comunque apportare modifiche all’iniziale corpo normativo dell’intesa, ma esclusivamente se gli emendamenti proposti fossero di lieve ed in ogni caso formale contenuto.

In relazione alla terza tesi, infine, il Parlamento in quanto titolare della sovranità popolare non potrebbe rinunciare alla sua più importante prerogativa di determinare i contenuti della legge e quindi avrebbe la potestà legislativa piena di apportare qualsiasi cambiamento all’iniziale disegno di legge contenente l’accordo raggiunto con le singole Regioni, ancorché esso debba essere condiviso dalle Regioni interessate all’intesa.

Ora, senza bisogno di fare tanti ragionamenti, è immediata l’intuizione che la posizione che si fa preferire è senz’altro quest’ultima, che non dimentica che, secondo il nostro ordinamento, titolare dell’indirizzo politico costituzionale non è il Governo, ma il Parlamento quale organo rappresentativo non solo della maggioranza ma anche delle minoranze e, comunque, del popolo nella sua unicità repubblicana. Né a questa decisiva osservazione si può opporre che in base al nuovo art. 114 cost. Stato e Regioni sono posti su un piano di parità e dunque non vi può essere fra le due istituzioni un rapporto gerarchico. In questo caso, infatti, non si tratta di un rapporto tra due entità entrambe conchiuse ma fra un soggetto (la Regione) che è parte e l’ordinamento repubblicano che lo comprende e di cui il Parlamento è diretto organo rappresentativo. La conclusione, seppure chiara, andrebbe meglio argomentata ma non credo che possa essere facilmente revocata in dubbio.

Piuttosto conviene, in conclusione, precisare che la legge così approvata non può essere abrogata da altra legge ordinaria e che le forme e le condizioni di autonomia che saranno da essa riconosciute non potranno essere revocate unilateralmente né dallo Stato, né dalla Regione interessata, sempre che la stessa legge non disponga diversamente.

Foto tratta da Corriere Nazionale

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