Agricoltura: lo sfruttamento dei migranti in Italia è invece la regola in altri Paesi del mondo. Il ‘caso’ del pomodoro siciliano

5 giugno 2018

L’uccisione di Soumaila Sacko, il migrante maliano di 29 anni, avvenuta a San Ferdinando, in Calabria, ci consente di aprire una finestra sullo sfruttamento del lavoro in agricoltura. Il ruolo della globalizzazione dell’economia. Perché, alla fine, oltre al lavoro nero – che va combattuto – a perdere sono anche i consumatori italiani. I casi del pomodoro di Valledolmo e Corleone

L’uccisione di Soumaila Sacko, il migrante maliano di 29 anni, attivista dell’Unione Sindacale di Base, avvenuta a San Ferdinando, in provincia di Vibo Valentia, in Calabria, ci consente di riflettere non soltanto sullo sfruttamento di tanti lavoratori extracomunitari nei lavori agricoli, ma anche sulla ragioni del perché, ormai da anni, avviene tutto questo.

A nostro modesto avviso, di questo fenomeno si dà una illustrazione parziale, non tenendo conto del contesto internazionale che, invece, è alla base di questo sistema di sfruttamento.

In primo luogo c’è l’interesse di alcuni Paesi del mondo, che puntano a controllare il mercato internazionale dell’ortofrutta. L’esempio è rappresentato dal pomodoro di pieno campo, cioè dei pomodori che si coltivano su grandi appezzamenti (e non in serra).

In questo settore l’Italia primeggiava. E primeggiavano, soprattutto, alcune industrie della lavorazione del pomodoro del Sud.

Oggi il baricentro si è spostato nell’Emilia Romagna, che è più organizzata (e molto più sostenuta dell’agricoltura del Sud Italia, abbandonata dalla politica).

Ma a creare grandissimi problemi sia al pomodoro fresco (soprattutto da salsa), sia al prodotto trasformato (passata, polpa e sughi di pomodoro) oggi è soprattutto la Cina. A cui si aggiungono alcuni Paesi del Nord Africa.

In questi Paesi il costo della manodopera è bassissimo. E questo già di per sé rende ormai impraticabile la coltura del pomodoro, soprattutto nelle zone d’Italia dove vengono effettuati i controlli sul lavoro.

Facciamo un esempio semplice. In certi Paesi del mondo – che oggi sono quelli che esportano il pomodoro ovunque – il costo del lavoro non va oltre i 4-5 euro per ogni giornata di lavoro.

In Italia, se il titolare di un’azienda agricola decide di raccogliere il pomodoro sulla base di quanto previsto dall’attuale legislazione, dovrebbe pagare un bracciante agricolo circa 80-90 euro al giorno.

E’ chiaro che il pomodoro italiano è perdente. 

Di più: le piantagioni di pomodoro di questi Paesi sono molto più produttive di quelle italiane. Il motivo è semplice: lì si utilizzano pesticidi che in Italia non si usano più dagli anni ’70 e ’80 del secolo passato, perché dannosi per la salute umana.

Utilizzando questi pesticidi – che sono molto efficaci e a basso costo – in quei Paesi si produce molto di più.

Quali sono i risultati? Che l’Italia è letteralmente invasa da passata di pomodoro e polpa di pomodoro che arriva da mezzo mondo (soprattutto dalla Cina).

Per fronteggiare la concorrenza del pomodoro estero, molte aziende agricole italiane – ma non soltanto nel Sud, anche nel Centro Nord Italia – ricorrono a manodopera extracomunitaria a basso prezzo. Si giustificano dicendo che non hanno alternative.

In realtà, l’alternativa ci sarebbe. La Sicilia, ad esempio, ha a disposizione i fondi del Piano di Sviluppo Rurale (PSR). Potrebbe utilizzare una parte di questi fondi per sostenere le imprese agricole, riducendo sensibilmente il costo del lavoro in agricoltura.

Ma questo presuppone la presenza di un Governo dell’agricoltura che oggi non c’è: basti vedere la ‘latitanza’ dell’attuale Governo siciliano sul grano duro che arriva con le navi: nessun controllo e rischio di grano duro tossico ignorato!

Chi è che viene sacrificato da questo sistema imposto dalla globalizzazione dell’economia?

C’è, come già accennato, lo sfruttamento della manodopera extracomunitaria.

Ma c’è, soprattutto, l’assenza pressoché totale di sicurezza alimentare, che per il pomodoro e i suoi derivati è persino superiore al caos che si registra oggi nel mondo del grano.

Le etichette di conserve, passata e polpa di pomodoro ci dicono che è tutto “pomodoro italiano”. E le analisi che lo provano dove sono?

Il dubbio – che poi è più di un dubbio – è che il pomodoro che arriva da mezzo mondo (ribadiamo: soprattutto dalla Cina), una volta giunto in Italia, venga ‘trasformato’ in pomodoro italiano. 

Basterebbero due tipi di analisi.

Le prime analisi dovrebbero riguardare l’eventuale presenza di residui di pesticidi. Per escludere la presenza di pesticidi che in Italia non si utilizzano da decenni.

La seconda tipologia di analisi – un po’ più sofisticata, ma non impossibile oggi – dovrebbe riguardare il DNA. Questo ci consentirebbe di capire che pomodoro finisce sulle nostre tavole.

A queste analisi si dovrebbe aggiungere un controllo banale: verificare, nelle aree italiane dove si lavora il pomodoro, se c’è proporzionalità tra il prodotto confezionato e le piantagioni. 

Se c’è una sproporzione – è il dubbio c’è – è chiaro che il pomodoro lavorato non è italiano!

Insomma, servirebbe una ‘tracciabilità’ seria del pomodoro e dei suoi derivati. Invece non c’è nulla e noi non sappiamo che cosa finisce sulle nostre tavole!

Penultima notazione. Quando su un giornale leggete che le forze dell’ordine hanno scoperto un’azienda dove lavorava in nero un certo numero di extracomunitari, mettendo sotto sequestro magari il pomodoro – cosa che succede spesso al Sud – ricordatevi che, alla fine, ad essere penalizzati sarete anche voi: perché il pomodoro che non si produce più in Italia ce lo rifileranno Paesi dove pagare 4-5 euro al giorno i lavoratori è legale!

E sarà un pomodoro prodotto Iddio sa solo come (con chissà quali pesticidi!).

Ultima considerazione siciliana. Due esempi della nostra Isola (ma se ne potrebbero citare tanti altri): Valledolmo e Corleone.

In queste due cittadine il pomodoro da salsa fa parte della tradizione. Ma anche da queste pari la concorrenza non fa sconti.

A Valledolmo ci sono agricoltori che ormai si rifiutano di coltivare un pomodoro che, sotto il profilo della qualità, è eccezionale. E sapete perché? Perché il costo della raccolta fa saltare tutto. E non vogliono rischiare, perché le multe per chi fa lavorare operai non in regola sono salatissime.

Chi ci perde siamo noi consumatori.

Di fatto, questo è un esempio, per certi versi eclatante, di come la globalizzazione, la legislazione italiana e l’assenza di una politica agricola da parte della Regione siciliana determinano la scomparsa di una coltura di pregio, facendo arrivare sulle nostre tavole chissà che cosa…

Un po’ meno drastica la situazione per il pomodoro siccagno da salsa di Corleone. Il problema è lo stesso, solo che, da quelle parti, la conduzione familiare delle aziende mitiga i costi; a questo si aggiunge la diffusione del cosiddetto Km zero: ovvero la richiesta, da parte dei consumatori, di questo particolare pomodoro.

In questo caso sono stati gli stessi agricoltori e gli stessi consumatori a trovare una soluzione, non certo la politica siciliana, che in agricoltura dà solo prove di totale inadeguatezza.

Foto tratta da pinterest.co.uk

 

 

 

 

 

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